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2 Dare voce alla parola: da La Maria Brasca a L'Ambleto

2.4 Testori e il 1968

2.4.2 Un “tu” a cui rivolgersi

Sono le stesse conclusioni a cui perviene Giorgio Taffon gettando uno sguardo sulla teatralità dei numerosi testi poetici di Testori che tornò attivo nel settore letterario nel 1965, dopo la chiusa del Fabbricone, con I Trionfi, e poi con il gruppo di raccolte edite e inedite (L’amore, Per sempre, Theo, Alain, A te, Ragazzo di Taino, Nel tuo sangue) elaborate tra la fine degli ani Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, dove il rimando alla pittura è una costante:

La scrittura poetica testoriana non è in fondo che un tessuto connettivo sul quale sono state coltivate altre cellule di organismi più completi e vivi, per l’appunto i testi narrativi e quelli drammatici. È vero, la pagina poetica rischia di implodere proprio perché costretta su e dal foglio; le sue parole sono come grido, una confessione, un’esplosione che, al contrario di quelle drammaturgiche, non avendo un’uscita al di fuori d’essa, restano come in-compiute, im-pronunciate, sembrano tutte scritte nel segno di un continuo impromptu; è poesia, insomma, anch’essa da leggere, da realizzare nella phoné di un corpo umano-attore; è una poesia, quella testoriana, che ha costituzionalmente, al suo interno, un ”tu” a cui rivolgersi356.

Ancora Testori, alla fine della sua vita, alla domanda di Doninelli, su quale fosse il “di più” del teatro rispetto alla parola scritta, rispondeva illustrando la natura della sua parola connotata dalla tensione verso l’emissione vocale:

354

G. Testori, Il ventre del teatro, in «Il Dramma», XLIV, ottobre 1968, n. 1, p. 59.

355

Ibid.

356

Non so se sia un “di più” o un “di meno”. Esistono parole che godono dell’essere scritte. Possono essere anche pronunciate, ma il dirle non aggiunge loro nulla. Ce ne sono altre destinate fatalmente – e fetalmente – a rivelare nell’esser dette qualcosa in più rispetto alla scrittura. Eppure, a pensarci bene, tutti i grandi testi, anche quelli già perfetti in sé, a un certo punto rivelano questa istanza nativa. E non importa se siano romanzi o saggi o commedie. […] In questo senso dico fetale, cioè creaturale. Pensa a Quel ramo del lago di Como, per non parlare dell’Addio monti… C’è come uno struggimento che spinge le parole a uscire dalla bocca, a farsi voce. Questo non vuol dire che io mi voglia paragonare col Manzoni. Dico solo che, per virtù o per difetto, le mie parole sono fatte così. E lo dimostra il fatto che le prime cose che ho scritto sono testi teatrali o saggi sulla pittura, non poesie e nemmeno romanzi357.

Tanto il punto d’origine diventa anche lo scopo della scrittura che, negli esiti testuali, è orientata a – è fatta per – risaltare la sonorità della parola, e vi introduce un effetto d’oralità tale che la voce diventa una presenza reale nella scrittura, tanto non va dimenticato che in prima battuta la composizione drammatica di Testori, nella maggioranza dei casi, è stata scritta per qualcuno. Si è già visto come voce e corpo di alcune attrici abbiano sollecitato e scatenato la fantasia del drammaturgo nel dar vita ai propri personaggi – Rina Morelli per suor Marta, Franca Valeri per Maria Brasca, Lilla Brignone per Marianna de Leyva358 – e la parola sia nata

non come immagine mentale, chiusa nel silenzio di una rappresentazione astratta senza peso né suono, ma radicandosi nella sua genesi e nel suo svolgimento in un luogo della comunicazione dove il senso si articola originariamente in materia fonetica, in gesti, in danze359.

Eppure i ricordi dell’artista novatese che, ammaliato dalla voce ruvida e impastata di Parenti Parenti, «carne e suono della milanesissima nebbia»360, mentre recitava nel dialetto cinquecentesco de La Moscheta, aveva sovrapposto, nella sua mente, il cosmo plurilinguista che avrebbe dato vita a L’Ambleto – e successivamente al Macbetto e all’Edipus formando la Trilogia, «assolutamente centrale per tutto il suo percorso

357

L. Doninelli, Conversazioni con Testori, cit., p. 52.

358

«Dopo L’Arialda venne da me Lilla Brignone a chiedermi se scrivevo qualcosa per lei. “Verrà fuori” risposi “non preoccuparti che verrà fuori”. E così a poco a poco nacque l’idea de La Monaca di Monza». Ibid., p. 71.

359

S. Dalla Palma, Il teatro e gli orizzonti del sacro, Milano, Vita e pensiero, 2011, p. 100.

360

Cfr. la lettera iniziale di Testori a Parenti in D. Isella (a cura di), A Milano con Carlo Porta: antologia di poesie portiane. Programma di sala del recital con Franco Parenti, al Piccolo Teatro di Milano, 1970(?).

drammaturgico»361 –, o che, in egual modo incantato da Branciaroli, alle prese con l’Ubu re, aveva concepito mentalmente ed embrionalmente un testo, forniscono una sfaccettatura diversa, in qualche modo più comprensiva della sua modalità compositiva che, allo stato embrionale, avviene da spettatore nel momento in cui percepisce sonoramente la voce di un certo (quidam) attore.

Tali episodi, infatti, appaiono un ulteriore sintomo della matrice acustica della testualità testoriana, il cui punto sorgivo è doppiamente – nella contingenza dell’origine compositiva, e nella esigenza che tale scrittura vuole veicolare – e primariamente sonoro:

A me capita sempre, quando un attore mi conquista, una cosa strana: non sento più le parole che dice, ma comincio a sentirne altre - esattamente quelle che vorrei che dicesse. Tanti miei testi nascono così, ossia da ciò che la voce e la consistenza di un attore suscitano in me. Così accadde mentre guardavo Parenti recitare il Ruzante. Mi dicevo: “Le sue parole non sono quelle lì, sono altre”. E di colpo cominciai a vederlo parlare in una lingua che, poi, sarebbe diventata quella dell’Ambleto. Prima di uscire andai da lui e gli dissi: “Franco, adesso so cosa devo scrivere per te”362.