2 Dare voce alla parola: da La Maria Brasca a L'Ambleto
2.4 Testori e il 1968
2.4.1 Il ventre del Teatro
Quasi all’esordio del testo, Testori portando ad esempio un episodio esemplare della «ripugnante» dialettica tra letteratura e teatro, si scagliava apertamente e a più riprese contro l’imperante dominio del teatro di regia, fautore di riproduzioni spettacolari che esaurivano la propria drammaturgia in una serie di «giochi ammiccanti, spesso malfidi ed idioti, dei canovacci e dei consumi spettacolistici»331 e che, non partendo dalle ragioni carnali e umane della storia, produceva solamente rappresentazioni criticate332: un teatro, in sintesi, laico e staccato dal suo nucleo originario, «dalla pasta immensa e buia dell’umana vicenda»333, dall’umano destino.
La sperimentazione drammaturgica e l’aperto contrasto con la regia lo accostano certamente alla contestazione del Nuovo Teatro scoppiata sul finire degli anni Sessanta, eppure, quanto ai tumulti riformativi della scena, Testori era convinto che «la resurrezione da operarsi attraverso il teatro è un’illusione moralistica e, alla fine, irreligiosa»334
, e non risparmiava imbeccate al teatro avanguardistico quando, per liberarsi dal naturalismo, costruiva «canovacci e ipotesi drammaturgiche pretestuosamente antinaturalistiche»335. L’affermazione era figlia dell’esperienza vissuta in prima persona da drammaturgo che quel naturalismo l’aveva attraversato con la prosa e con il teatro alla fine degli anni Cinquanta, fino a percepire «insopportabile la regolarità drammatica, dopo aver elaborato L’Arialda, e aggirabile il vincolo mimetico tramite la lingua»336
.
Nel ’65 aveva infatti dettagliato il suo rivolgimento in termini, prima che formali ed
331
G. Testori, Il ventre del teatro, cit., p. 95.
332 Cfr. Ibid. 333 Ibid. 334 Ibid. 335 Ibid., p. 97. 336
C. Meldolesi, Con e dopo Beckett: sulla forma sospesa del dramma, la filosofia teatrale e gli attori autori italiani, in «Teatro e storia», XX, 2006, n. 27, p. 280.
espressivi, ideali e fondativi:
Da due anni, scrivo e straccio, cioè dalla Arialda in poi. […] Cominciando a scrivere L’Arialda non sapevo che avrei fatto un personaggio che tendeva oltre il limite narrativo la corda della sua natura, portandolo verso il tono tragico (ecco l’origine degli scompensi del dramma). È stato a quel punto che ho cominciato a capire […] che in teatro il limite del particolare diventa insostenibile. Il teatro insomma non regge il naturalismo sentito come fine, bensì e solo come radice di fondo, come terreno di partenza. Le figure devono diventare esemplari pur restando individuali. E così il linguaggio337.
Il termine primo ed unico del teatro, per Testori, stava nell’attraversamento cieco e disperato della natura fino a giungere ad afferrare il «ganglio» dell’esistenza, a tentare di
verbalizzare il grumo dell’esistenza. Far sì che la carne […] si rifaccia verbo, per verificare le sue inesplicabili ragioni di violenza, di passione e di bestemmia; e ricadere poi, di nuovo, nel suo fango tenebroso e cieco; data l’evidente impossibilità che questo si verifichi altrimenti che come tentativo338.
Nella formulazione di un teatro come totale inabissamento, continua interrogazione (della trappola) del reale, la parola assume un ruolo determinante: è il nucleo di sopportazione, attesa e domanda, anche quando si prospetti l’impossibilità di una risposta.
Il cuore della proposta di un nuovo teatro, del «teatro vero (la tragedia)», di matrice esclusivamente religiosa (e non laica, come quella di Pasolini), dove per religioso si intende il rapporto dell’uomo con forze ad esso trascendenti, non è «“rappresentazione criticata”, ma sempre e solo “verbalizzazione tentata”»339
: la parola-materia, viscerale, corporea e fisiologica, esasperata, irrazionale, lacerante, sprigiona il proprio motore all’interno del rito teatrale. Per Testori, infatti, in controtendenza con le sperimentazioni coeve che avevano una forte propulsione a fare teatro utilizzando la globalità della scena e dei suoi mezzi, «il luogo deputato per cui il teatro è teatro […] non è scenico, ma verbale. E risiede in una specifica, buia e fulgida, qualità carnale e motoria della parola»340, unico strumento del tragico per riportare lo spettatore «alla melma, al pantano
337
A. Arbasino, Tento di salvarmi scappando nel Seicento, in Id., Ritratti italiani, cit., pp. 472-473.
338
G. Testori, Il ventre del teatro, cit., p. 95.
339
Ibid.
340
iniziale», per «riimmergerlo nella parte più buia e indomabile della coscienza»341.
In assoluta sintonia con il «punto di partenza della creazione artistica» individuato da Artaud ne Il teatro e il suo doppio del ’32 (uscito nel ’68 e già comparso per frammenti sulle colonne di «Sipario» nel ’65), nella parola va recuperata la necessità primordiale e fisica:
Si tratta di sostituire al linguaggio articolato un linguaggio di natura diversa, le cui possibilità espressive equivarranno al linguaggio delle parole, ma la cui fonte si troverà in un punto più nascosto e più remoto del pensiero. La grammatica di questo nuovo linguaggio è ancora da trovare. Il gesto è la materia e l'essenza; se si preferisce, l'alfa e l'omega. Parte dalla NECESSITÀ della parola, molto più che dalla parola già formata. Ma, trovando nella parola un intralcio, ritorna spontaneamente al gesto. Sfiora di sfuggita alcune leggi fisiche dell’espressione umana. Si tuffa nella necessità. Ripercorre poeticamente la strada che ha condotto alla creazione del linguaggio342.
La tentazione naturale di ricondurre tale “verbalizzazione” all’interno di categorie critiche che contrappongono “teatro del corpo” e “teatro di parola” sarebbe forte; ma «teatro verbale» non è affatto assimilabile a “teatro testuale”, inteso come luogo proprio del linguaggio, nella sua funzione normativa e puramente razionale.
Una funzione assai più vicina agli assunti del Manifesto di Pasolini, dalle peraltro sorprendenti affinità con quello testoriano, che si contrapponeva al teatro borghese- naturalistico (battezzato «teatro della Chiacchiera») e ancor più a quello avanguardistico («teatro del Gesto o dell’Urlo») tramite il suo «teatro di Parola», meglio esplicato nella precisazione di tipo recettivo cui invita il suo spettatore ideale:
Venite ad assistere alle rappresentazioni del "teatro di parola" con l'idea più di ascoltare che di vedere (restrizione necessaria per comprendere meglio le parole che sentirete, e quindi le idee, che sono i reali personaggi di questo teatro)343.
Ancora alle prese con le realtà orali del linguaggio teatrale italiano («che nessun italiano
341
Ibid., p. 99.
342
A. Artaud, Lettere sul linguaggio in Id., Il teatro e il suo doppio e altri scritti teatrali, Torino, Einaudi, 2000, pp. 224-225.
343
P. Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, cit., in G. De santi, M. Puliani (a cura di), Il mistero della parola. Capitoli critici sul teatro di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 99; sul manifesto di Pasolini, cfr. anche G. Guccini, (S)velare il Manifesto, in S. Casi, A. Felice e G. Guccini (a cura di), Pasolini e il teatro, Venezia, Marsilio, 2012, pp. 204-219; S. Rimini, Pasolini vs Testori. Nel ventre del teatro italiano, in Ibid., pp. 204-219.
343
reale parla»), Pasolini proponeva una parola «al limite tra la dialettizzazione e il canone pseudo-fiorentino, senza mai superarlo». E aggiungeva:
Perché tale convenzionalità linguistica teatrale fondata su una convenzionalità fonetica reale (cioè l’italiano dei sessanta milioni di eccezioni fonetiche) non divenga una nuova accademia è sufficiente: a) avere continuamente coscienza del problema; b) restare fedele ai principi del teatro di Parola: ossia un teatro che sia prima di tutto dibattito, scambio di idee, lotta letteraria e politica, sul piano più democratico e razionale possibile: quindi a un teatro attento soprattutto al significato e al senso, ed escludente ogni formalismo, che, sul piano orale, vuol dire compiacimento ed estetismo fonetico344.
Pertanto, la parola pasoliniana poneva l’attenzione soprattutto alle idee, al significato e al senso, quando la parola testoriana era materico-corporale, irrazionale, involutiva.
Questo ha delle ripercussioni anche sul piano attoriale, come riporta Oliviero Pone di Pino:
La parola testoriana sospinge tendenzialmente l’attore a una gestualità vocale, a una dinamicità parallela allo sforzo che l’autore ha fatto per deformare il linguaggio in direzione – diciamo così – espressionistica: incarnare sulla scena la parola teatrale di Testori spinge l’attore a rifare quel percorso, a reinventare il gesto di torsione linguistica nestoriano. Invece il tipo di dinamica che mette in moto la parola pasoliniana, sia nelle poesie sia nei testi teatrali, è diverso: si tratta di un lavoro di ricerca e decodifica di un senso molto complesso, stratificato, a volte anche contraddittorio. La scrittura di Testori mette in gioco una fisicità molto forte da parte dell’attore, quella di Pasolini obbliga invece a un meccanismo più analitico, critico345.
Anche grazie a questa distinzione si può capire il ruolo fondamentale che assume la voce, meglio, la vocalità che, tagliando trasversalmente tali categorizzazioni e «ricondotta all’oralità della scena materna (un’oralità, per così dire, radicale e filogenetica dove l’ordine del semantico non ha ancora fatto il suo ingresso), […] secondo questo variegato orizzonte speculativo, penetra e invade la scrittura»346, per dirla con le parole di Adriana Cavarero in A più voci. Alla filosofa spetta l’aver rilevato su basi teoriche il filo che
344
Ibid., p. 104.
345
S. Casi, R. Palazzi, O. Ponte di Pino, Utopia o concretezza. Confronto a tre voci sul rappresentabile, in S. Casi, A. Felice e G. Guccini (a cura di), Pasolini e il teatro, cit., pp. 363-364.
346
intercorre tra vocalità e testualità, sottolineando la necessità di avvertire come «il principio del suono organizzi il testo e, al contempo, disorganizzi la pretesa del linguaggio di controllare tutto il processo della significazione. La parola, anche quella scritta, viene dunque indagata nella sua matrice sonora»347.
Ciò che va a inserirsi nella diade oralità/vocalità è quindi «la sfera vocalica, come matrice comune ad ambedue, sia il linguaggio parlato che quello scritto» e sulla scia delle considerazioni di Julia Kristeva, ricava che
i bambini sono capaci di un’espressione fonica ad amplissimo spettro timbrico che ignora del tutto il classico schema ternario del semantico – referente/significante/significato – reso celebre nella linguistica. L’ingresso del semantico, ossia l’acquisizione della parola, taglia e riduce precisamente questa vocalità infantile variegata348.
Le assunzioni di Cavarero-Kristeva si legano del tutto alle considerazioni verbali di Testori, benché il chiarimento che si riporta sotto sia stato formulato tardivamente rispetto al suo manifesto teorico (ma si radicalizza sullo stesso principio):
La parola è ciò in cui l’uomo si presenta, prima di qualsiasi gesto e oltre ogni gesto. I pianti, i lamenti, le gioie di un bambino appena nato sono parole, in esse si esprime quella creatura349.
Questo si riassume perfettamente (e meglio) nella creazione artistica; lampanti sono i versi (nel fatale duplice significato di unità di discorso metrico-ritmico e di emissione sonora animale) che escono dalla bocca di Macbetto, vittime di una sorta di interiorizzazione trasmutante del processo regressivo verbale: «la vita non è vita. È solo un vurlo, / un ciurlo; / o forse un uè uè…»350
.
Si torni alle conclusioni de Il ventre del teatro.
La parola viscerale e fisiologica è il luogo stesso del teatro – che per questo motivo è quanto di più lontano da quello didascalico, dialettico e straniante brechtiano a cui Testori
347
Ibid.
348
A. Cavarero, A più voci, cit., p. 147.
349
L. Doninelli, Conversazioni con Testori, cit., p. 52.
350
non risparmia una stoccata feroce –, è l’espressione dell’equazione teatro-esistenza operata da Testori, in cui l’urgenza esistenziale, sempre al limite del tragico, che principia dalla carne e in particolare dal ventre, converge nel «verbo» (nella significativa accezione identitaria di «suono»):
Il teatro è un tentativo da fare […]. Che la risposta non venga non autorizza a non tentare la domanda e a non provocare la sordità e la bocca chiusa dell’essere; del destino. Può darsi che, almeno nel punto dell’agonia, quella bocca si apra; ed esali da sé, non un concetto, ma un suono: il “verbo”351.
È un tragitto, quello segnato dallo scrittore, una «traiettoria» – per questo l’aggettivo «motoria» riferito alla parola (si ricordi il «risaliva quella voce da» riferito alla Cortese) – anzitutto vocale, corporea, pulsionale, che trova nel teatro il luogo dell’amplificazione dell’ «iscuro»352, dell’irrazionale, del ganglio dell’esistenza.
Per tali motivi la scrittura testoriana rientra in quella che Marco De Marinis, a partire dalla distinzione di Zumthor tra oralità – «funzionamento della voce in quanto portatrice di linguaggio» – e vocalità – «l’insieme delle attività e dei valori che le sono propri» –, si immagina possa essere «una scrittura che (contrariamente all’orale e allo scritto) si fa carico delle istanze extra-linguistiche della vocalità, come traccia della pulsionalità corporea (pre-espressiva) che le è propria»353; secondo De Marinis poesia e voce non si incontrerebbero solamente al momento dell’emissione orale, infatti, quanto primariamente «nella stessa dimensione genesica di una scrittura che tenta, in quanto tale, di far proprie le istanze della vocalità» e che lo studioso rinomina poesia come corpo-voce.
Totalmente in consonanza con l’affondo corpo-voce della scrittura suggerito da De Marinis, è un secondo appunto chiarificatore de Il ventre del teatro che usciva con titolo omonimo su «Il Dramma» nell’ottobre del ’68:
La parola del teatro non è fisiologica solo per il suo peso, la sua particolare pregnanza e struttura plastica, insomma per il suo «ingombro» […], ma per la traiettoria che le è concatenata e di cui vive; una traiettoria verificabile quasi «cellularmente», che la fa
351
G. Testori, Il ventre del teatro, cit., p. 107.
352
Id., L’Ambleto, cit., p. 9.
353
M. De Marinis, Geroglifici del soffio: poesia-attore-voce fra Artaud e Decroux nel Novecento teatrale, cit., p. 14.
353
passare d’obbligo per la gola d’un vivente, la fa, insomma, essere detta e pronunciata anche quando resta solamente scritta354.
E poco oltre precisava:
Sono però ben certo che la gola e le labbra da cui deve passare la «pronuncia» del teatro, sono già implicite e contenute nel testo. Ecco: le labbra scritte di cui esso si compone sono vere e proprie labbra già aperte e sul punto di muoversi e lasciare uscire da sé quella «fonazione»355.