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3 La parola si fa scena

3.8 In exitu

3.8.1 La lingua teatrale

Riboldi Gino è il protagonista reietto del romanzo In exitu, sorta di via crucis terribile e salvifica lungo la scalinata della Stazione Centrale di Milano di un tossicodipendente verso l’ultima fatale dose, con un epilogo che abbraccia deiezione, morte e redenzione: uno dei più “felici” tentativi di riconsegnare la parola a questo pezzo di carne, chiazza di sangue, grumo ansante, che va a macchiare il palco con il proprio farneticante balbettio.

Più che una narrazione, infatti, In exitu è un’immagine di cui Sangue in una stanza – tinteggiato dalla mano di Francis Bacon e scelto da Testori a icona delle tre lezioni pubbliche, dal titolo La parola, come?686, che aveva tenuto davanti alla giovane platea dell’Out Off di Milano nell’ottobre 1988 – costituirebbe l’analogatum princeps: non un lacerto di carne, bensì un grumo di sangue, una macchia schizzata su quello che parrebbe essere proprio un asse di legno, se non una pedana da palcoscenico (del resto il titolo originale dell’opera, Blood on the floor, lascia più indefinito lo spazio della rappresentazione).

Si crede che, tra i drammi delle Branciatrilogie, il romanzo, che divenne testo per la scena, primeggi, all’interno della produzione prolifica cui diede vita il sodalizio (per esiti linguistici e drammatici, scenici e di ripercussione attoriale…) e sintetizzi, impreziosendolo, il lungo percorso dell’autore che, rimmergendosi negli antichi cimenti formali degli Scarrozzanti, e risorgendone illuminato dalla luce degli Oratori, approdi ad una nuova configurazione stilistica raggiungendone il vertice grazie anche alla sua corsa, già avviata, verso un’autoralità registica e performativizzante.

684

L. Doninelli, Trenta volte incamminati, cit., p. 57.

685

G. Fornari (a cura di), Dalla carne al verbo, intervista a F. Branciaroli (cfr. infra Appendice A, p.225).

686

G. Testori, La parola, come?, trascrizione di tre lezioni pubbliche a cura di L. Peja, in «Comunicazioni sociali», XXIV, settembre-dicembre 2002, n. 3.

Con la linea di reinterpretazione della grande tragedia occidentale – «[Amleto, Macbeth, Edipo] io li ho presi come se fossero delle macchie di sangue, degli spurghi, come se fossero dei feti, degli uomini uccisi o morenti […], [li ho] vissuti non come testi ma come realtà»687 – il drammaturgo in passato aveva mirato a riscritture (L’Ambleto, Macbetto, Edipus, Post-hamlet, come poi SdisOrè, l’Orestea rivisitata…) per colmare l’enorme gap di linguaggio, tempo e storia che separa la (post) modernità dall’antichità dei testi classici appartenenti alla tradizione, substrato della cultura e della mentalità contemporanee. Soprattutto del fronte linguistico688 si era avvalso per uscire dalla «lingua corriva, omologata, inespressiva», e restituire «lo spessore del tempo e la ricchezza concreta delle culture, aldilà della lingua di accademia, dell’italiano cosiddetto medio» o pasolinianamente «irreale»689, alla ricerca di una lingua che affondasse «nella materia, nel corpo, individuale e sociale, carico del peso secolare, ma anche inattingibile nel suo nucleo»690.

Il linguaggio di In exitu, che da qui parte, aggiunge la necessità viscerale di restituire la lingua-grido del personaggio eroinomane che pare impazzire in schegge volanti e disarticolate, spasmodica e disperata emissione di voce demente:

La perdita di senso è perdita di linguaggio. Essere vicino al mio drogato, accompagnarlo sul Calvario, ha voluto dire foggiare un linguaggio speciale misto di italiano, dialetto e latino, il latino povero delle preghiere; un linguaggio spezzato, inceppato, balbuziente, tra l’urlo, il rantolo e il soffocamento691.

Il risultato di tale parola che rischia continuamente di non poter essere detta, tanto è “incandescente” ritrova una incredibile affinità (e probabile genesi) negli esperimenti di Artaud e nelle sue “due linee di azione e di lavoro” individuate da De Marinis: da una parte, l’invenzione di una «lingua glossolalica», “un’altra lingua” rispetto alla lingua madre, fatta «non di parole o lettere ma di grida e colpi» e, dall’altra, la lettura di un testo «come sonorizzazione, come “poesia acustica”, cioè come trasfigurazione attraverso

687

Ibid., pp. 384-385.

688 «Bisogna rintracciare dentro un’altra parola, la parola della nostra storia, la parola che ci appartiene, che

appartiene alla nostra lingua» (Ibid., pp. 384).

689

Cfr. supra, Cap II, p. 60.

690

A. Cascetta, Un talento poliedrico, un’unica ispirazione, in G. Testori, La parola, come?, cit., p. 370.

691

l’enunciazione vocale che trasforma anch’essa le parole e le lettere in colpi e grida, mediante la scansione, la percussione e l’intonazione impetuosa»692

.

Il rifiuto della lingua nostrana – su cui già nel ’74, con il suo Confiteor davanti al registratore, l’aveva considerata «un brodo schiarito a furia di metter acqua, o con al fondo due o tre grani di riso. Verdura manzo o gallina, niente di niente. Figuriamoci se si possono avvertire sentori di carne, di dolore e di lagrime umane!»693 – non in grado di plasmare la materia con cui si vuole dare voce all’emarginato, si fonde con l’aspirazione di riscatto totale della parola teatrale tramite l’uso del dialetto intenso e fangoso, vivace e lutulento, dilatazione-deformazione espressionistica del parlato, che si accosta a quello del latino seicentesco ed ecclesiastico, cristallizzato in formule liturgiche, all’italiano aulico e bambinesco, mischiato poi al francese e all’inglese, storpiati o riportati in trascrizione fonetica tramite i grafemi italiani, e a fitte allusioni e citazioni letterarie, che non scampano alla profanazione.

Rimarcabile è la forte capacità innovativa di Testori che impiega registri che oscillano fra l’aulico e il colloquiale, tra un tragico che si impenna fino al sublime e un’ironia che ruzzola al limite del grottesco, ma, a differenza della Trilogia per il Pier Lombardo, qui si giunge ad una sintassi totalmente liquefatta, frantumata a livello logico, ad una commistione dei tempi verbali dovuta alla soppressione della cognizione del tempo, ad un lessico ricco di iterazioni e pleonasmi, all’uso di una morfologia e fonologia fortemente alterate, all’atomizzazione delle unità linguistiche minime, al ricorso ad interiezioni che sostituiscono parole o intere proposizioni, alla mescolanza del discorso diretto e indiretto, all’abolizione dell’interpunzione o al suo impiego totalmente arbitrario; da non dimenticare, infine, la florida creazione di neologismi che approda all’invenzione di entità intraducibili. Tutto ciò si pone al servizio di una parola turgida, asintattica, agrammaticale, che esonda la scrittura, arrivando al grado più estremo di tutti quelli raggiunti dall’autore fino a questo momento, regina assoluta dell’avvenimento drammatico: inspessita e rigonfia, rigurgito barocco ma privo di fronzoli e orpelli, inserita in partitura fittissima, zuppa fino all’inverosimile, essa sembra richiedere insistentemente (con urla, gemiti, vagiti) di essere detta, pronunciata, sembra voler ricucirsi con la sfera orale della phoné da cui è stata strappata per essere inchiodata, ancora recalcitrante, in un grafema.

692

M. De Marinis, Geroglifici del soffio: poesia-attore-voce fra Artaud e Decroux nel Novecento teatrale, in «Culture teatrali», cit., p. 29.

693

Si veda, a titolo esemplificativo ed emblematico, il passo in cui il protagonista Riboldi Gino, rigetta la «frittata»694 della vita fatta dai genitori, ripercorsa à rebours in un istante con la fulminea: «la vita di me che: huè! huè!», sintesi ancora più densa del grido dell’Edipus di dieci anni prima: «la vita non è vita. È solo un vurlo, / un ciurlo; / o forse un uè uè…»695

. Qui, in una frase sgrammaticata, dove il fonema latteo, suono onomatopeico del «linguaggio da lattante»696, si comporta significativamente da verbo, si condensa tutto l’assillo tematico tipicamente testoriano sul principio dell’esistenza:

La granda più. Quella che più. Quella alla quale pòssis no. Opporre et. Niènt. Quella che. Niènt. Quella che contr’è. Il regalo, contra che m’hai (a me) fòttuto. Tu fatto et. Che contr’è. Di me contra. Me che vosàvo essendo il tuo procreato (di te e de il, lo sposo, il). La vita di me che: huè! huè! La vita anca, di te (lo ripeto ammò: di te, di te). Quella del carcinomato, anca697.

I personaggi, ogni volta diversamente associati, tendono sempre a mescolarsi, perché Testori insiste sul ritorno alla commistione dei connotati in un’orgia di corpi e voci fino a raggiungere un unico impasto ansante: «Quanto a me penso che il primo e solo obbligo d’uno scrittore è d’essere vero e spietato con se stesso; tutto ciò che s’attacca sopra e intorno per evitare questo impasto è pura retorica; anzi pura falsità»698. Dirà ancora: «Forse inconsciamente tendo a ridurre i mezzi espressivi a un solo impasto, che ingoia ogni distinzione di genere»699.

Il risultato di questa riduzione magmatica è la «volontà di fisicizzare al grado estremo il discorso, adottando così uno strumento adeguato alla spessa materialità che costituisce il fondo bloccato del viaggio testoriano»700, impiegando, prima di tutto e in dosi massicce, il dialetto lombardo che impregna la pagina di materica e vernacolare espressività, con scelte lessicali mirate a «far entrare forzosamente e arbitrariamente dentro la narrazione un oggetto concreto, palpitante, inspiegabile eppure nato all’improvviso: facendo apparire sempre più corpi, sempre più materia»701, in un accumulo di immagini violentemente anatomiche e sessuali destinato ad ammucchiarsi e confondersi in un unico groviglio di

694

Id., In exitu, Milano, Garzanti, 1988, p. 17.

695

Id., Macbetto, in Id., Opere, 1965-1977, vol. II, cit. p. 1319.

696

Cfr. R. Barthes, Il piacere del testo, Giulio Einaudi, Torino, 1975, p. 5.

697

G. Testori, In exitu, cit. p. 38.

698

G. Testori cit. in F. Panzeri (a cura di), Note ai testi (Edipus), in G. Testori, Opere, 1965-1977, cit., p.1550.

699

Ibid., p. 1549.

700

R. Rinaldi, Il romanzo come deformazione, Milano, Mursia, 1985, p. 139.

701

putrefazione, carne e sangue compattati dentro la rivolta e la contestazione di Dio, che connota il linguaggio di rabbia blasfema.

E, dunque, il romanzo «che romanzo è e non è, tanta è la forza drammatica, che vi esplode, tra monologo e dialogo (con l’autore che c’è, è lì, mica si nasconde)» – appuntava Folco Portinari dalle pagine dell’«Unità» – è «un lunghissimo monologo che pretenderebbe il palcoscenico (solo Parenti e Fo sarebbero comunque in grado di portarne il peso), l’urlo, fonico, reale»702

.

Fu buon profeta il critico, prospettando un approdo del romanzo alla scena, se non che, è noto, il compito non tocco né ai Parenti né ai Fo del caso. Bensì a quell’altro attore antiaccademico, di gran lunga più giovane dei navigati colleghi, ma con altrettante straordinarie doti vocali, a nome Franco Branciaroli.