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3 La parola si fa scena

3.3 Conversazione con la morte

3.3.2 La lettura “performata”

«Pantaloni grigi e maglione blu scuro»505, il 7 novembre 1978, Testori, libro alla mano, salì per la prima volta sulla “zattera” inclinata del Pier Lombardo, lasciando a terra i compagni di viaggio della Cooperativa (oltre alla coppia Parenti-Shammah, i fedelissimi Fercioni e Carpi), le scene e le musiche “scarrozzanti” che per un quinquennio erano stati sempre a bordo: affidato solamente alla sua «voce povera e nebbiosa»506, ad eccezione di «una sedia di legno e paglia» e «un faro di luce»507, lesse davanti a un microfono, quasi cantilenando «con un minimo uso di tempi e toni interpretativi»508, il colloquio (in versi) con la morte e con gli spettatori sussurrato da un vecchio attore che, dopo aver ripercorso le tappe fondamentali della sua vita, arriva alla fine della sua «grande, bellissima giornata»509.

«Per un’ora e tre quarti, senza un attimo d’interruzione, senza un cedimento né un’impennata, con la sua voce vagamente ecclesiale screziata di accenti lombardi, Testori

503

D. Rigotti, Testori reciterà un testo proprio, in «Avvenire», 1 novembre 1978.

504

g.<astone> ge<ron>., La fede di Testori nella nuda parola, in «Il Giornale», 1 novembre 1978.

505

O.<rnella>. R.<ota>, Testori e la morte intesa come vita, in «La Stampa», 9 novembre 1978.

506 M.<aria> G.<razia> G.<regori>. Testori recita se stesso, in «L’Unità», 1 novembre 1978. 507

Ibid.

508

O. Bertani, Dal fondo del buio la parola si alza verso il positivo, in «Avvenire», 9 novembre 1978.

509

ha letto se stesso»510 «nel silenzio più assoluto»511, sommando lo strato della finzione a quello «più vero e straripante» in cui parlava «di sé, della morte di sua madre, della passata iconoclastia e della successiva conversione»512, al confine tra «la felice ambiguità della finzione teatrale e la spalancata biografia di un uomo»513.

Già altamente invasa da elementi autobiografici costanti e pervasivi e da riferimenti alla propria opera passata514 eretti a simbolica metafora e incastonati in un labile sistema finzionale e metateatrale, che tende continuamente a spaccare la quarta parete (a questa altezza cronologica, ormai irrimediabilmente infranta), la composizione, sottoposta alle luci della ribalta dal suo stesso autore, ne portava al quadrato le valenze espressive: la messa in scena testuale dei propri dati, sovraesposti e, quindi, già alterati nel loro significato, si raddoppiava nella messa in scena reale, dove la sovraesposizione era anzitutto presenza fisica, corporea, vocale dell’autore che, dai margini della scena, si era spinto al suo cuore, «sempre più vicino al bios attorale»515.

«È un poemetto o un monologo? E Testori come poeta o come attore?»516, si domandava Odoardo Bertani, dopo la prima. Se non si può negare che la lettura monologante di Testori assolva pienamente uno dei tre fattori indicati da Marco De Marinis per definire il fenomeno della performance novecentesca (“startup” degli anni Sessanta)517

, e cioè la «prevalenza della dimensione di presenza, ostensione autoriflessiva, materialità autosignificante, rinvio a sé, rispetto a quella della rappresentazione, finzione, narrazione, significazione, rinvio ad altro da sé»518, non è meno vero attestare che essa si disobblighi

510

G. Geron, Miracolo a Milano, in «Il Giornale», 9 novembre 1978.

511

G. Vigorelli, Raccolta dai giovani la sfida di Testori, in «Il Giorno», 9 novembre 1978.

512

U. Volli, Parole sentite qualche secolo fa, in «La Repubblica», 9 novembre 1978.

513

O. Bertani, Dal fondo del buio la parola si alza verso il positivo, cit.

514 Numerosi sono gli esempi, specie nella prima parte dell’opera: tratti dalla biografia, oltre alla morte della

madre (cfr. supra nota 13), il riferimento alla propria trasgressione: «Negli anni della mia gloria, dissipavo il mio corpo,/ la mia mente/ e la mia stessa anima…» (G. Testori, Conversazione con la morte, cit., p. 18), alla sempiterna maledizione della condizione esistenziale: «T’avevo maledetto cara culla, caro grembo, sola e dolce mangiatoia;/ t’avevo maledetto anche amandoti» (ibid., p. 38); piccoli ammiccamenti alle proprie debolezze: «dissipare e disperdere tutto;/ anche i pochi beni e gli averi/che m’eran stati lasciati/sperperarli» (ibid., p. 13), il riferimento al proprio linguaggio: «Neppure quella parola/ ha più il valore che aveva un tempo;/ anche se riuscissimo a disfare tutto il male/ che, con la nostra superbia, v’abbiamo ammucchiato di sopra/ e la pronunciassimo come la si pronunciava un tempo» (ibid., p. 12); o alla sua recente drammaturgia: «È giusto che lo sappiate fin d’ora/ stasera qui non accadrà nessun misfatto;/ nessun tradimento sarà perpetrato alla giustizia,/ nessun potente erigerà davanti a voi/ la sua torre di carceri e catene;/ nessuna bellezza verrà deturpata» (ibid., p. 17); allo stesso teatro (e al suo ripensamento): «Il teatro, le sue assi, il sipario,/ le quinte, le luci,/ tutto ciò che fu per anni la mia fatica, la mia gloria,/ la mia battaglia, il mio sole,/ la mia perdizione e la mia vanità;/ tutto questo e ben altro/ s’è ridotto a questi muri scrostati,/ a questo gocciolare d’acqua dentro le tubature» (ibid.).

515

C. Meldolesi, Con e dopo Beckett: sulla forma sospesa del dramma, la filosofia teatrale e gli autori italiani, cit., p. 281.

516

O. Bertani, Dal fondo del buio la parola si alza verso il positivo, cit.

517

Cfr. M. De Marinis, Teatro e performance, cit., pp. 45-72.

518

anche nei confronti degli altri due fattori, che insieme al primo debbono concomitare: la tendenza alla decostruzione drammaturgica e rappresentativa, che scardina «la compiutezza e unitarietà diegetiche, insomma la fabula, il personaggio, la finzione stessa»519 e il mutamento dello spettacolo, non più «opera d’arte/prodotto», ma ripensato in termini «di evento e di relazioni caratterizzati dalla copresenza fisica di attore e spettatore e quindi alla corporeità come dimensione essenziale sia per l’uno che per l’altro»520

.

È infatti innegabile che il drammaturgo lettore di se stesso si coinvolga nei tre piani (drammaturgico, attorale e rappresentativo) nel senso della performativizzazione teatrale che analizza De Marinis (peraltro in piena esplosione negli anni Settanta, dove il rifiuto dell’artificiale e la ricerca dell’autentico al limite del feroce diventa vessillo artistico) e pertanto si può definire un performer sui generis vicino al polo del not-acting521.

Anche perché la ricerca dell’autentico che lo porta a presenziare sul boccascena (spazio di cui si appropria, qui e successivamente) con la sua persona – dichiarando in anticipo la propria non-attorialità – comporta la non simulazione dell’altro da sé, la non finzione di «un’identità sostituita»522 (tipica, invece, della rappresentazione classica). È l’intellettuale (non appena poeta recitante il proprio testo) che si fa garante della verità tramite se stesso, legittimazione a mezzo della sua inconfondibile e unica «voce nebbiosa», che risuona come pubblico enunciato disillusionista: «Non c’è trucco, non c’è inganno, Conversazione c’est moi».

Il Testori performer, tuttavia, non si pone in antitesi con la figura dell’attore, né ne prevede il rimpiazzamento; l’esposizione, più che egoica e narcisistica affermazione di sé, è vissuta come auto-offerta fisica all’altare teatrale, percepita come una necessità rituale anzitutto personale, come tentativo di ricongiungersi con i propri fantasmi523 attraverso il suo strumento espressivo principe, la parola, che, senza ricorrere ad intermediari, completa il proprio processo creativo (iniziato con la scrittura) all’interno di una collettività.

Come l’attore grotwskiano faceva del teatro una possibilità di salvezza, usando come veicolo il proprio corpo, dove l’atto della rappresentazione diventava «l’atto sacrificale in cui l’artista offre tutto ciò che la maggior parte degli esseri umani preferisce 519 Ibid., p. 63. 520 Ibid. 521 Cfr. Ibid., pp. 66-67. 522 Ibid., p. 67.

523«Beckett doveva pensarsi anche attore come Pirandello e come poi riuscì a essere l’ultimo Testori. Ma

mentre questi tendevano così a ricongiungersi con i loro fantasmi, in Beckett percepisci il richiamo di un ascendente». C. Meldolesi, Con e dopo Beckett: sulla forma sospesa del dramma, la filosofia teatrale e gli autori italiani, cit., p. 276.

nascondere»524, l’autore approda alla performance per esplorare se stesso all’interno di una cerimonia a cui altri “fratelli” assistono525

.

Lo scatto performativo è altresì rilevabile perché determina la prima «riduzione al grado zero delle possibilità della scena»526 con un contemporaneo sdoganamento da palco che ha nel 1978 il proprio terminus post quem: calcate da Testori in altre puntate ancora più clamorose e performative, le assi del palcoscenico saranno presto condivise con un altro interprete527, ad accertare, se fosse necessario, che non si tratta di un passaggio volto a soppiantare o superare l’arte attorica, bensì dell’espressione di un’attrazione fatale verso la scena-luogo di verità, a cui non solo la scrittura, ma la sua stessa persona non può sottrarsi.

Stefano Casi rievoca quell’esperienza da spettatore:

Di Testori la presenza scenica più forte che ricordo è il suo Conversazione con la morte, uno spettacolo-non spettacolo, molto pasoliniano da questo punto di vista. L’ho visto in un teatro completamente spoglio, con una sedia su cui stava Testori, una lampadina che scendeva giù, lui che leggeva su un libro la sua Conversazione con la morte. Per me è stata una delle esperienze di teatro più potenti, dove davvero la parola riempiva tutto il possibile immaginabile di quella scena vuota528.

Questo chiarisce come la potenza della lettura abbia trasformato l’appuntamento a teatro in evento: la non attoralità dell’autore, priva di velleità recitative, in un palco spoglio di tutto, anziché essere elemento penalizzante, si è dimostrata un valore aggiunto capace di attirare centinaia di giovani, e trasformare il carattere della performance in «sorprendente fenomeno di partecipazione giovanile»529.

Registravano con stordimento incredulo i critici-cronisti di allora la «folla incredibile»530, «impressionante»531, «davvero straordinaria»532, composta soprattutto di ragazzi che alla

524

P. Brook, Lo spazio vuoto, cit., p. 69.

525

L’invocazione agli spettatori, chiamati «fratelli», infatti, risuona anaforicamente lungo tutto Conversazione con la morte, così come nel successivo Interrogatorio a Maria.

526

D. Tomasello, La drammaturgia italiana contemporanea. Da Pirandello al futuro, cit., p. 83.

527 Come si vedrà, nel 1988 con Testori sarà lo «scrivàn» di In exitu e l’anno dopo Verlaine in Verbò, sempre

in coppia con Franco Branciaroli.

528

S. Casi, R. Palazzi, O. Ponte di Pino, Utopia o concretezza. Confronto a tre voci sul rappresentabile, in S. Casi, A. Felice e G. Guccini (a cura di), Pasolini e il teatro, cit., p. 364.

529

G. Vigorelli, Raccolta dai giovani la sfida di Testori, cit.

530

G. Geron, Miracolo a Milano, cit.

531

R. De Monticelli, Il monologo d’autore, in «Corriere della Sera», 9 novembre 1978.

532

prima avevano «letteralmente preso d’assalto»533

il Salone Pier Lombardo, ammucchiandosi nel caldo asfittico, «in piedi o seduti per terra»534 con l’«atrio gremito, benché la voce non arrivasse del tutto»535; nei «settecento posti della platea e della piccola galleria […] esauriti già mezz’ora prima dell’orario prestabilito»536

(«stracolmi anche i corridoi e il fondo-sala»537), i giovani «silenziosi e attenti»538, al termine della lettura scoppiarono in un «interminabile applauso»539, accogliendo in «un’ovazione interminabile»540 Testori che cercava di sottrarsi, riscendendo subito dal palco ormai vuoto, alla platea brulicante541.

Per quanto gli indici di gradimento dei critici fossero in contrasto, tutti concordavano nella straordinarietà dell’evento che sconfinava con evidenza nell’ambito del sacro: Gastone Geron, che nel suo titolo gridava al miracolo, parlava di un «avvenimento che trascende il compito del cronista teatrale»542; Giancarlo Vigorelli non si dava pace cercando «cause, ragioni, significati»543 del fenomeno di aggregazione, ipotizzando risposte nella fame dei giovani stanchi di troppe spettacolarità e nell’autore «passato alla sfida del “sacro”»544

; Ugo Volli accusava la cornice iperpopolata del pubblico di aver trasformato «il carattere, da evento artistico, letterario, teatrale, in manifestazione religiosa e soprattutto politico- culturale di un cattolicesimo militante»545.

Tralasciando gusti ed interpretazioni, quel che preme registrare sono i fattori della performance-happening, connotata da un pubblico giovane e numeroso e dal carattere specifico che assume l’evento teatrale che, oltrepassando il finzionale, penetra l’ambito del rituale sacro.

Tuttavia, se la performance, intesa nei termini sopra indicati, è legata intrinsecamente al periodo storico cui appartiene (pur con evidenti scarti), in un’altra direzione si muove l’insistenza sempre più marcata dell’artista di Novate sulla parola che, ora più che mai, riassume in sé tutti i codici scenici, al contrario degli orientamenti in voga nello stesso periodo che fanno della messa al bando della più piccola unità linguistica (in isolamento),

533

G. Geron, Miracolo a Milano, cit.

534

G. Vigorelli, Raccolta dai giovani la sfida di Testori, cit.

535

Ibid.

536

G. Geron, Miracolo a Milano, cit.

537

Ibid.

538

U. Volli, Parole sentite qualche secolo fa, cit.

539

G. Geron, Miracolo a Milano, cit.

540

R. De Monticelli, Il monologo d’autore, cit.

541

Cfr. G. Geron, Miracolo a Milano, cit.

542

Ibid.

543

G. Vigorelli, Raccolta dai giovani la sfida di Testori, cit

544

Ibid.

545

o – i più indulgenti – del suo impiego come segmento svalutato e svuotato di significato che si unisce alla serie indistinta degli elementi scenici, una sorta di dogma assoluto. La soppressione del dato linguistico-testuale che ha luogo in questi anni di rimbombi rivoluzionari (perforanti il campo teatrale) pare, infatti, quasi una destituzione del gerarca della tradizione teatrale, caduto vittima di una roberspierriana terreur – del resto, una rivoluzione chiede sempre misure repressive a scapito di qualche tiranno –: «uno dei postulati è infatti lo statuto di uguaglianza tra i diversi elementi dello spettacolo, che si impone attraverso l’eliminazione dell’elemento cardine del teatro di matrice letteraria»546

. L’anomalia Testori547

nei confronti della modernità si muove dunque su cigli sempre più stringati: propone un teatro incentrato sulla parola laddove la tendenza è quella di rimuoverla, mentre si incunea in interstizi sempre più marginali e controcorrenti legati ad espressioni di fede considerate integraliste. Quando “l’ufficialità” del Nuovo Teatro filomarxista e materialista la rifugge, recupera la dimensione sacrale; ma, al contrario di compagnie come quella fondata da Grotowski o dalla coppia Malina-Beck, non la fa diventare uno stile di vita totale, comunitario548: arte e vita si fondono in lui (non si sovrappongono) in un punto profondo, condiviso, ma affatto personale.