3 La parola si fa scena
3.8 In exitu
3.8.3 Tragedia cristiana in rapporto con la modernità
L’azione narrata ha luogo nella stazione di Milano, in un arco di tempo concentrato, che si restringe a un paio di ore ed è circoscritta alla salita di Riboldi Gino lungo lo scalone ferroviario fino alla latrina, dove inocula nel proprio corpo l’ultima dose di eroina che lo porta alla morte immediata.
Srotolando l’affabulazione tragica di In exitu e individuando come su di una mappa, il canone di narrazione aristotelico di cui si compone il modello classicista è infranto nella dispositio, con lo sgretolarsi dei limiti di spazio attraverso l’incertezza dei confini dell’azione che “svaria” dall’assenza di luoghi (nel romanzo il protagonista si colloca «in geografia nessuna»714), alla sua molteplicità più screziata che comprende stazione, parco, ospedale, casa di Gino, banchi di scuola, lago di Annone, museo egizio della città di Torino, latrina, Empireo… Per descrivere la sempre sfuggente e pluridimensionale topografia in cui si colloca il protagonista, Testori ricorre a categorie di disordine, complessità, distorsione, frammentarietà, tipiche della modernità715, e sceglie di descrivere lo spazio facendone, di fatto, tempo.
L’altro grande elemento ad essere scardinato è proprio il tempo, la cui sovrapposizione a più strati e il relativo sminuzzamento dei piani, tramite la frammentazione in episodi, contribuisce a mescolare e confondere le dimensioni di passato, presente e futuro.
Il crollo dell’ordine temporale è specchio dell’identità frammentata e dissociata del protagonista, eco del «je est un autre» rimbaudiano716, in cui l’istante però non vale in se stesso: esso riflette l’esistenza a pezzetti che si dà nel tempo, ma l’ente, fuori dal tempo, si
713
G. Testori, La parola, come?, cit., p. 381.
714
Id., In exitu, cit., p. 37.
715
Per approfondire l’indagine sugli elementi di rottura della modernità, cfr. D. Harvey, La crisi della modernità. Alle origini dei mutamenti culturali. Milano, Est, 1997; P. Szondi, Teoria del dramma moderno. 1880-1950, Torino, Einaudi,1962; G., Lukács, Il dramma moderno, Milano, SugarCo, 1967.
716 In Une Saison en Enfer Rimbaud scriveva: «Car je est un autre. Si le cuivre s’éveille clairon, il n'y a rien
de sa faute». Cfr. A. Rimbaud, Une saison en enfer, Firenze, Sansoni, 1955. Si ricordi che il poeta francese era molto caro a Testori, che ne restituì un’intima biografia unitamente a quella di Verlaine, nello spettacolo successivo a In exitu, Verbò (crasi dei nomi dei due poeti) del 1989, ancora in scena con Branciaroli.
riscatta e ritrova la propria unità. Il puzzle temporale si ricompone pur rimanendo scomposto, usando l’espediente della prospettiva ribaltata dovuta – come dice Branciaroli – al racconto di “morti resuscitati”. Il tempo quindi, non più kronos lineare, ma nemmeno solamente patchwork senza capo né coda, evita il proprio scacco di non-senso perché si dilata come kairos, tempo di Dio, quello che l’apostolo Pietro, riprendendo il Salmo 89 dell’Antico Testamento, dipinge in questo modo (parlando del ritorno di Cristo, il giorno del Giudizio): «Davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno»717.
Da un punto di vista antropologico, invece, «la molla della coscienza tragica»718 consiste nella risposta al quesito sul senso di un’esistenza che «si scontra costantemente con la fatalità»719, con la percezione dell’assurdità del dolore e del male. Risposta che si pone nell’uomo come sfida, superamento o trasgressione del limite nel momento in cui non accetta che il Divino, l’Assoluto – inteso però non come «garanzia, fondamento sicuro ed inequivocabile di senso»720 ma come fato cieco – lo abbia dimenticato e abbandonato. È questo il quadro in cui si muove l’individuo-eroe della tragedia che, facendosi carico della contraddizione del reale, diventa vittima sacrificale, e si vota all’espiazione. Tale coscienza metafisica si fa presente nell’anti-eroe Riboldi non solo con l’invocazione, la bestemmia e la preghiera, ma anche con il sacrificio finale della propria vita. Un sacrificio che sfugge alla negatività di cui si connota la tragedia classica perché confluisce nel grande alveo cristiano: Gino è victima paschali allo stesso modo di Gesù Cristo.
Tuttavia, mantenendo l’orizzonte tragico in cui il punto di riferimento rimane l’Assoluto, la differenza fondamentale tra Gino e l’eroe greco, che agendo manifesta la propria hybris, è giocata dal dramma tardo moderno. Alla stregua di Pirandello dei Sei personaggi, che fa dire al Padre: «Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda – si crede “uno” ma non è vero: è “tanti”, signore, “tanti”, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi»721
, In exitu pone il centro della lotta tragica nella coscienza interiore della dramatis persona. Afferma Lukács: «Gli eroi del nuovo dramma – in confronto a quello antico – sono più passivi che attivi: subiscono, raramente agiscono; si difendono, non attaccano»722.
717
La Sacra Bibbia, 2 Pt 3, 8, Unione Editorie Librai Cattolici Italiani, 2016.
718
A. Cascetta, Invito alla lettura di Giovanni Testori, cit., p. 93.
719
Ibid., p. 90.
720
Ibid., p. 92.
721
L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, in Id., Trilogia, Milano, Feltrinelli Editore, 2007, p. 62.
722
Tutto ciò ben si addice alla figura dell’antieroe Riboldi Gino: passivo per eccellenza, più che da protagonista vive le vicende alla maniera di una vittima contro cui vengono scaraventati addosso eventi pregni di violenza e brutalità, che gli lasciano sulla pelle traumi e cicatrici, da lui messi in mostra attraverso la “rimasticazione” dei brandelli del proprio vissuto, frammenti di coscienza irrorati da un’emorragia di sangue e sperma.
Tornando all’influsso della grande tragedia, l’itinerario del protagonista è segnato dal passaggio da uno stato di grande fortuna a uno di grande disgrazia, che lo stringe nella morsa di un destino avverso.
Come già si è tentato di spiegare, non essendo la parabola di Gino percorsa dall’inizio alla fine in modo canonico, ma essendo presentata con l’uso di istantanee che, come un lampo, fotografano i momenti della sua vita, lo stato di grande fortuna – il locus amenus della fanciullezza, l’età dell’oro perduta, l’Eden dell’infanzia – è appena sfumato richiamo nella trama, che si concentra, in verità, sulla fase di disgrazia. Ci si ritrova nella “selva oscura”, a passaggio già avvenuto, causa la trasgressione da parte del protagonista dell’“Ordine prefissato”, per cui egli paga, ora, la propria colpa tramite l’espiazione. Tale colpa non consiste tanto nell’essere caduto nella trappola della droga, svendendo il proprio corpo, ma nel tradimento dell’amore, che si materializza con la figura della madre. Ma l’ordine di cui quest’ultima si fa portavoce, in quanto messaggera dei valori della cultura e della tradizione cristiana (come già la madre di Rino del Confiteor), e che si va a ristabilire a tragedia conclusa, non è però né morale né tantomeno sociale, ma di altro tipo: «È che lui [Gino] sia accolto dalla verità, dall’amore»723
.
La fine è pertanto legata al modello antropologico cristiano, dove l’azione è connessa al destino ultimo dell’uomo – transito in vista di una stasi – mirato al compimento della vita che avviene dopo la morte; ma il racconto drammatico, che seguendo l’orientamento teleologico tenterebbe di mettere ordine alla narrazione – complice, appunto, la visione cristiana, che fa del tempo una retta orientata culminante in un traguardo definitivo –, non coincide con l’intramontabile suddivisione della vicenda in inizio, compimento e fine.
Da questo punto di vista, il montaggio del discorso di In exitu risente dell’influenza del modello antropologico moderno, che vive l’angoscia del frammento come perdita dell’unità: «I primi secoli della modernità sfociano nel primo Novecento in una diffusa e dolorosa consapevolezza della irreversibilità della crisi patita dal soggetto a seguito dello sgretolamento della scienza prima»724.
723
A. Ria (a cura di), Maestro no. Intervista e fotografie su In exitu, cit., p. 22.
724
La consecutio temporum del dramma corrisponde, dunque, al contraccolpo traumatico del soggetto che si scontra con il reale, e si confronta con una personalità slabbrata, frantumata. La pluralità di tempi e di spazi realizzata tramite l’assenza di “interpunzioni” e “congiunzioni” logico-temporali, la segmentazione dell’immagine e la frammentazione del discorso sono il correlativo della disgregazione dell’unità dell’uomo moderno, segnato dall’indebolimento del rapporto tra la parte e il tutto, ben solido invece nell’antichità. Cumulo scatologico, fiotto di emoglobina, fluido spermatico, corpo decomposto, stipati stile a mo’ di paccottiglia per esorcizzare l’horror vacui: la dimensione tragica di Testori non può non rapportarsi alla condizione in cui è approdato l’uomo moderno che, dopo la nietzschiana “morte di Dio”, riversa il proprio spaesamento e smarrimento nella pluridiscorsività, nell’assemblaggio di voci e coscienze, nella polifonia degli elementi, nella discontinuità spazio-temporale estremizzata e atomizzata nella parola-balbettio, nella messa in evidenza delle cuciture del montaggio diegetico.
Conforme alle “norme” dell’estetica moderna e modernista, all’origine delle quali si pone un individuo che, vittima di tale smarrimento, non riesce a trovare alcuna via di fuga, rimanendo quindi soffocato nel proprio rantolo, In exitu si sottrae tuttavia a quest’ultimo empasse nella misura in cui mostra la coscienza del soggetto, pur lacerata, avvinta al proprio fondamento, che è sempre quell’orizzonte metafisco, quell’istanza trascendentale, quel rapporto con il destino che si rivela alla fine (in exitu) buono. Le tracce dell’identità perduta, e quindi del proprio legame con quel destino buono sono peraltro rilevabili già in quella relazione di filialità (con la madre) che non è, in ultimo, mai stata recisa. Per quanto disgregato, frammentato, paralizzato da tale coscienza moderna (crollati i muri dell’ideologia e della lotta), Gino mantiene intatto, quasi nonostante sé – in virtù di quel battesimo che lo ha forgiato “creatura nuova” una volta per sempre –, un filo fragile della propria identità la cui fonte e linfa altro non è che il volto materno; è grazie a quest’ultimo che quindi, alla fine può abbandonarsi nelle braccia del Padre e ritrovare pienamente la sua unità.