3 La parola si fa scena
3.8 In exitu
3.8.4 Metateatralità e pubblico
Considerando l’origine del genere, nella pagina non ricorrono riferimenti alla scena, ma la propensione a spaccare la finzione che si impone nel romanzo (con il linguaggio artificioso di Gino, con gli appelli al lettore, con i dialoghi tra lo scrivano e il suo personaggio…), comodamente e perfettamente si adatta alla trasposizione per intero su di un dispositivo teatrale approntato al travalicamento o slabbramento della convenzione rappresentativa e
al suo superamento che concorrono a mostrare lo «strappo nel cielo di carta del teatrino»725: è sempre di natura pirandelliana l’ispirazione cui Testori ricorre per sfondare la dimensione del teatro borghese, inscatolato in cerimonie intellettualistiche, o inteso come puro divertissement, e romperne il «carattere culturale, culturalistico, in cui non è in gioco niente se non delle posizioni esterne al cuore, esterne ai polmoni, esterne al ventre, a cervello, alle gambe, alle mani, al sesso, esterne a tutto ciò che siamo noi oggi»726. Testori tornava ai Sei Personaggi proprio nel 1988: «Per la prima volta con una violenza totale viene inchiodato, viene bollato come menzogna non solo il modo, ma il luogo in cui avviene la recitazione»727:
Quando arriva a parlare del figlio [nei Sei personaggi in cerca d’autore] Pirandello dice: “beh, è colui che non vuole, che meno degli altri partecipa alla richiesta di esibire il proprio dramma anche perché l’autore che egli cerca non è un autore drammatico”. […] Non è certo un manager che il figlio cerca: è colui di cui manca e a cui mancano loro e allora, ritorniamo invece al dove, ecco proprio noi nella nostra cultura, noi con la nostra lingua abbiamo generato […] il testo in cui il dove, luogo del teatro è messo in causa definitivamente728.
La lettura metafisica che Testori offre della pièce dell’autore a lui caro fin dagli esordi drammaturgici729, è la volontà di scardinare tutto ciò che concerne la chiusura ermetica della finzione, ciò che non può dare respiro né ai personaggi né al pubblico.
La metateatralità non assume dunque alcuna funzione ludica, di trompe l’oeil, né gioca a favore delle ragioni dell’arte; al contrario, è al servizio di una aggressività assoluta per «distruggere il luogo così com’è», per rompere con il vecchio teatro e «rimetterlo in causa fino a farlo diventare insopportabile come è fatto adesso!»730.
725 «Ora senta un po’, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la
marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.
- Non saprei, - risposi, stringendomi nelle spalle.
- Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo. - E perché? - Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl'impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta». L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Insolito Libro, 2013, pp. 149-150.
726
G. Testori, La parola, come?, cit., p. 379.
727 Ibid., p. 388. 728 Ibid., p. 389. 729 Cfr. Cap I, in particolare pp. 13-14. 730
L’intrinseca metateatralità testoriana si offre altresì, come invitante opportunità per visualizzare il testo drammaturgico da altre angolazioni. Puntualizza Giorgio Taffon:
“Qui siamo a teatro” dicono, di fatto, tutti i personaggi creati da Testori a partire da Erodiade […]; non è solo un’eredità pirandelliana ad agire, è soprattutto la volontà dell’autore di rendere sempre presente il fatto che sulla scena il fine ultimo non è quello di imitare la vita, ma piuttosto quello di celebrare un evento, di officiare un rito731.
Sfondando la parete teatrale attraverso l’espediente della metateatralità, con In exitu decide di correre il rischio di far fuoriuscire la torrenzialità esistenziale della parola in direzione della platea, effluvio estremo che instaura la comunicazione tra l’attore, (porta)voce dell’autore, e il pubblico.
Io non credo, francamente, che il teatro sia una storia che si svolge su un palcoscenico. Non l’ho mai pensato e non mi ha mai interessato. […] Io credo che sia per prendere parte […] a un rito, cioè a una chiamata in causa del proprio destino dentro un destino che non si struttura però nella storia, nella vicenda; si struttura nella parola che per realizzarsi ha bisogno di quella vicenda732.
Il fatidico rivolgimento alla fede di Testori incide nel testo di In exitu impregnandolo di una sacralità che pretende la cerimonia sul palco, dove la parola assume una doppia feroce ambivalenza, violenta e sacra, riottosa e religiosa a cui lo spettatore-astante non può appena assistere, ma deve parteciparvi.
Fagocitate nelle interiora stravolte di Gino ed espulse sulla platea, le necessità di grido, protesta, implorazione, bestemmia, preghiera, chiamano in causa il “tu” dello spettatore: «L’urlo è il momento in cui l’essere espelle da sé la propria domanda di esistenza»733
che si scarica addosso al pubblico, ma a differenza dei testi precedenti (in particolare la Trilogia degli Scarrozzanti), dove la parola blasfema, eco della «mitraglia che colpisce lo Scarrozzante nel teatro vuoto»734, esprimeva una religiosità disperata, sempre sull’orlo del nichilismo, la profondità verbale con cui, qui, si contatta il sacro può definirsi al contempo liturgica, sacrale (e non è un caso che il titolo vada a saccheggiare proprio i Salmi
731
G. Taffon, Lo scrivano, gli scarrozzanti, i templi, cit., p. 203.
732
G. Testori, La parola, come?, cit., pp. 380-381.
733
M. Finazzer Flory, Altri conformismi, Venezia, Marsilio, 2005, p. 60.
734
dell’Antico Testamento735
) e si riallaccia alle esperienze della Seconda Trilogia, tanto che lo spazio teatrale si conforma in moderna e atavica cattedrale in cui la partecipazione al rito è sentita tanto dall’attore-officiante quanto dal pubblico dei “fedeli” che, se decidono di accettarla, ricevono la parola al pari di un sacramento.
La dimensione religiosa della pratica rituale736 greco-cristiana, cui mira Testori, pare decisiva anche per capire la reazione che ci fu tra il pubblico della Pergola (lo si vedrà tra poco) che, piombatagli addosso tale potenza di intenti, di fatto, si spaccò in due: qualcuno lo rifiutò, altri lo accolse. E questo a ragione del fatto che la rappresentazione teatrale e il patto drammaturgico moderni sono andati in una direzione diversa rispetto al passato737: nell’antichità, la ritualità del teatro era strettamente legata alla coscienza tragica che agiva all’interno di una convenzione in cui era incluso la catarsi; ma lo spettatore di oggi, a fronte della perdita e del rifiuto socio-culturali di tale coscienza e della conseguente trasformazione del teatro in luogo di puro svago, divertissement, passatempo, «sottratto al senso di ritualità civile e religiosa»738, è ancora in grado, o ha la volontà di pagare questo prezzo?
3.9 Il rito alla prova