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3 La parola si fa scena

3.8 In exitu

3.8.2 Il copione

Il romanzo, pubblicato con in copertina Testa di ragazzo, del nipote pittore Giovanni Frangi (simbolico ricongiungimento figurale con la trapassata, pasticciata Trilogia?), fu sostanzialmente rovesciato sulla scena, diventando copione teatrale che non subisce particolari modifiche: questo mette in luce che il linguaggio di Testori è arrivato ad un punto tale di concentrazione teatrale che anche la fabula, i personaggi gli sono irrimediabilmente sottomessi.

In effetti, non si può parlare di una scrittura drammaturgica vera e propria: va rilevato fin da subito che il copione non ha mai visto la pubblicazione e la copia di cui ci si serve703 consta di appena ventuno paginette (a fronte delle centoventicinque del romanzo), la maggior parte delle quali sono fotocopiate dall’edizione del 1988 del componimento

702 F. Portinari, Caos metropolitano, in «L’Unità», 16 marzo 1988. 703

Si dispone su supporto digitale della copia del testo drammaturgico cartaceo di In exitu, per gentile concessione della Compagnia de Gli Incamminati; cfr. infra, Appendice C, foto 45-46.

Le prime cinque pagine del romanzo si riversano senza modifica alcuna nel copione, mentre la pagina dopo subisce un piccolo taglio e viene accorpata con la settima, andandone a formare una unica nella scrittura drammaturgica (pagina 6). Più oltre, saltando una decina di pagine del romanzo, altre quattro pagine vengono travasate nel copione, rimanendo quindi sostanzialmente invariate (diventando pagina 8, 9 e 10). A questo punto una settantina di pagine del romanzo vengono decurtate e ci si ricollega direttamente, con qualche piccolo taglia e cuci, all’originale (nel copione pagina 11, 12 e 13). Liaison tra questo e il pezzo successivo, la frase che riprende l’incipit del romanzo (pagine 14, 15, 16) sorvolando su un’ultima parte della visione romanzata, in cui l’eroinomane scorgeva dentro la stilla spermatica il Cristo crocifisso. Le seguenti sette pagine del romanzo patiscono ancora alcune chirurgie riducendosi a due nel copione (17 e 18), per tentare di conferire al discorso drammatico un andamento più dialogico-consequenziale e rendere intellegibile la storia, concedendo più spazio alle parti in cui lo scrittore prende la parola e traccia le azioni del protagonista: è la descrizione degli ultimi istanti del giovane nella latrina della stazione scanditi dalla voce ‘in diretta’ di Gino. Le ultime tre pagine del «romansèro» si conservano infine tali e quali nel copione (19, 20, 21). Risultato di questa operazione di snellimento fu la riduzione della mole drammaturgica a circa un sesto di quella narrativa.

narrativo e rimaneggiate a penna solamente con le indicazioni delle parti che sarebbero toccate a Testori – segnalate con la lettera G (Giovanni) o semplici cerchiature –, con soppressioni di porzioni di testo, aggiunta di parole, frasi o piccole correzioni704.

Risultato di questa operazione di snellimento fu la riduzione della mole drammaturgica a circa un sesto di quella narrativa. L’esigenza di ridurre era primariamente in previsione dell’esecuzione scenica:

In un primo tempo si pensava di realizzarlo tutto, poi, via via che lo facevamo, Branciaroli ed io ci siamo accorti, abbiamo sentito (come un fatto fisiologico quasi) che la tensione era tale che tanto tempo non potevamo durare noi e, soprattutto, gli spettatori. Allora lo abbiamo contenuto per una necessità interna705.

Malgrado ciò, non si può dire che la sostanza ne risulti compromessa; anzi, in un’ottica teatrale il testo così scarnificato, di fatto non perde di potenza e raggiunge un’efficacia forse ancora maggiore, concentrando le informazioni essenziali in poche ma significative pagine, anche perché «rispetto al libro […] sono cadute le parti più tenere e sono rimaste quelle più terribili»706.

Il romanzo forniva la possibilità al lettore disorientato di fermare il tempo attraverso riletture, pause di meditazione, ritorno a passaggi già scorsi, per raccapezzarsi sul come, sul dove e sul quando della vicenda; ma, trasponendo il soggetto a teatro, dove vige la dittatura dell’hic et nunc il tempo è costretto nell’assommarsi dell’intera azione che precipita vorticosamente nel giro di qualche ora.

Questo è possibile anche perché «la trama è continua». Anzi, addirittura – stando a quanto dichiara Branciaroli – la scelta delle pagine non ha molta importanza: «potevano essere altre [le pagine]. È il suono che conta»707.

La lingua di questi testi è difficilmente restituibile da chi non è nato lì. […] Se tu non sei nato lì non puoi restituirla, ed è il motivo per cui Testori li ha scritti chiamandoli Branciatrilogie, perché aveva capito che con un nativo di quella zona avrebbe potuto affrontarla, ma non tanto perché è dialetto – non è affatto dialetto –, ma perché sono i suoni che conosce solo chi è nato in quella zona. Suoni della nonna, della mamma…

704

Cfr. infra, Appendice C, foto 45-46.

705

P. Lucchesini (a cura di), Stasera sul palcoscenico recitano parole cruente, intervista a G. Testori, in «La Nazione», 9 novembre 1988.

706

G. Manin (a cura di), Si recita alla Stazione Centrale il dramma-droga, intervista a G. Testori, in «Il Corriere della sera», 6 novembre 1988.

707

Se non li conosci, non riesci a restituirli. Ecco perché, dicevo prima, la parola è intesa non come significante, ma come portatrice di suoni misteriosi, che sono nati dalla terra, dalla verità. Per cui uno che era in grado di riprodurli rendeva tutto questo: quel che poi è successo. In fondo era solo un monologo, che però aveva questa potenza708.

La parola testoriana, colta perfettamente dall’attore-incarnante nella sua radice terrigna pregna di sonorità pseudo-lombarde e ricondotta alla sfera acustica e vocalica, si rivela quindi come punto principale scarinante la drammaturgia che assorbe (come già embrionalmente ne La Maria Brasca) totalmente il fare al dire, diventando essa stessa azione: proprio in virtù di questo la riduzione dalla materia romanzata, che già viveva di una frammentarietà diegetica, è priva di scrupoloso e certosino lavoro di riscrittura in termini prettamente drammaturgici.

Ne Il ventre del teatro, Testori chiamava in causa il teatro greco e quello elisabettiano sottolineando la staticità del primo, che tentava «continuamente di sprigionare da sé il massimo di moto», e la furia dell’accumulo di azioni del secondo, che arrivava ad un «sistema di concentrazione monologante e a una sua propria, moltiplicata immobilità»709. Nel caso di In exitu si evidenzia che il nodo cruciale attorno cui gravita l’azione drammatica, altro non è che lo strazio della nascita coincidente con il supplizio della morte che il titolo, ravvicinando inizio e fine (tramite l’opposizione tra la preposizione latina “in” e il monosillabo proclitico “ex”), plasma in una sorta di circolarità della pièce. E forse, più che circolarità si può parlare di una vera e propria immobilità che si declina in diversi aspetti. In primo luogo, nella staticità dell’azione che blocca sul nascere la possibilità che succeda, nel presente, qualcosa di veramente significativo. Non c’è trama reale, non ci sono colpi di scena perché tutti gli eventi “portanti” della narrazione sono già accaduti in un passato vicino o lontano e, addirittura, si prospettano altrettanto realisticamente in un futuro post- mortem. Ci si trova in exitu, alla fine, o pirandellianamente all’uscita, e, per tale motivo, il monologo assomiglia in fondo ad un epilogo di un’opera drammatica, in cui sono rievocati i nodi salienti della vicenda, a cui però nessuno ha assistito in precedenza. La tecnica drammaturgica che pone sempre fuori scena gli eventi segna la vicinanza con il teatro shakespeariano (ma anche con quello cecoviano e beckettiano, incolpati per questo di non “far succedere nulla”): «Vi è un già accaduto, vi sono degli antefatti senza gran fatti

708

Ibid.

709

successivi se non quelli del dopo-catastrofe, che aleggiano cupamente e luttuosamente sulla scena»710.

L’altra grande declinazione dell’immobilità è quella, per eccellenza, della morte, che però non è portata in scena. Il “doloroso passo”, dunque, non si dà come avvenimento teatrale perché, paradossalmente, anche quello appartiene al gruppo degli antefatti: il racconto a ritroso di Riboldi Gino ha come punto di partenza la fine della propria vita che viene presentata sub specie aeternitatis, nella prospettiva di un “resuscitato”. Osserva Branciaroli:

Il teatro dove c’ero io [La Branciatrilogia I e II] è fatto di morti che descrivono addirittura la loro morte, quindi sono dei resuscitati. Intendo che, se un morto mentre racconta la propria storia dice: “Nella bara dondolavo…”, è chiaro che sul palco in quel momento c’è la resurrezione della morte. Attraverso il teatro711

.

Ciò è tanto più vero se si guarda all’onnipresenza, di fatto, del protagonista: lui si può permettere di sbucare da ogni fenditura di tempo per commentare il proprio “falso presente” (quello che lo vede ai piedi della gradinata della stazione centrale), il proprio passato (quello dei ricordi) e perfino il proprio futuro (con la critica al chirurgo che lo sezionerà in obitorio o l’intromissione nella chiacchiera da bar di un manipolo di ricche signore che, con il giornale aperto sulla cronaca della morte del tossico, esprimeranno i propri pareri acidi e borghesemente distaccati)712.

La conferma di ciò è consolidata dalla mancanza di elementi (e didascalie esplicite) che indichino una morte “agita in diretta”, dal momento che la natura della drammaturgia non è mimetica, bensì narrativa, ed è per questo che la rappresentazione non afferirà né al campo gestuale-corporeo né a quello visivo-concettuale, bensì a quello acustico-orale. Contraltare dell’immobilità sul palcoscenico sarà dunque il flusso incessante della parola che, ingrossandosi a più non posso nel corso della messa in scena, straripa con violenza inesorabile per poi disseccarsi nel giro di qualche istante.

Testori pesca ancora dai suoi sempiterni amori drammaturgici:

710

G. Taffon, Lo scrivano, gli scarrozzanti, i templi, Roma, Bulzoni, 1997, p. 202.

711

G. Fornari (a cura di), Dalla carne al verbo, cit. (cfr. infra Appendice A, p. 225).

712

Anche dal punto di vista della narrativa, ricorrendo alla terminologia genettiana, la focalizzazione che usava il narratore-protagonista, sostanzialmente, era sia interna che zero. L’unico a ricorrere alla focalizzazione esterna era lo scrivano, testimone ‘fuoricampo’ della vicenda del protagonista. Cfr. G. Genette, Figure 3, Torino, Einaudi, 1981.

L’Amleto non finisce perché muoiono tutti gli attori, i personaggi, perché la storia è finita: finisce perché la scena, il luogo, il dove del teatro a cui partecipano il testo, gli attori e quelli che si chiamano gli spettatori […] non può più sostenere nessun’altra parola […]; cioè il cammino di una possibile metodologia drammaturgica non è “dalla a alla z” di una storia, ma è dallo zero al tutto, cioè al pieno, che nell’attimo stesso in cui si riconosce come pienezza ridiventa zero713.