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1.5 Le Lombarde

1.5.3 Il luogo – una tragedia in assenza

Dopo l’elencazione dei nove personaggi, viene indicato il luogo della tragedia: «L’azione si svolge in una piazza, alla periferia della città», recita la didascalia.

Una piazza, non precisata, in periferia. Di quale piazza si parla? In quale città? Né la didascalia, né il testo forniscono ulteriori informazioni.

Tuttavia dal titolo ricaviamo quanto Testori reputa essenziale che si sappia fin da subito: la provenienza lombarda. Si tratta, cioè, di una comunità specifica di un luogo: la Lombardia; ma non solo; i personaggi della tragedia sono, sì, tutti lombardi, ma unicamente ad una parte di questo gruppo spetta – designato dal titolo – il ruolo di protagonista: quella appartenente al genere femminile che comprende in sé il coro delle madri e quello delle due donne (di Lodi e di Mantova).

Gli elementi comuni delle protagoniste sono dunque la provenienza e il genere, il quale, per sua natura, ospita in potenza la condizione di maternità. Una condizione che, leggendo (o assistendo) alla tragedia, si scoprirà soddisfatta da tutti i componenti del

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Cfr. M. G. Berlangieri, Il Teatro dell’Università di Roma, Roma, Bulzoni, 2016, volume frutto degli studi della ricercatrice dell’Università La Sapienza. La Berlangieri mi ha riferito, inoltre, di aver ricavato i dati sulle rappresentazioni del Teatro dell’Università di Padova, da un testo informativo interno dell’Università La Sapienza sul loro teatro.

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gruppo. Se quindi dal semplice titolo si evince immediatamente che Le lombarde sono tali per provenienza e genere, dalla pièce si ricava un ulteriore e decisivo elemento che esse condividono: la maternità.

Tale titolo ha due implicazioni: la prima è che esso costituisce un invito a scoprire l’identità delle protagoniste. In questo senso, la tragedia ha la pretesa di dipingere il ritratto della donna lombarda, con le caratteristiche che vedremo qui esposte e si pone quindi come risposta alla domanda sull’identità delle donne lombarde, che corrisponde a quelle della tragedia in essere.

La seconda implicazione si svela nell’antonomasia, di cui si avvale il titolo stesso, figura retorica che consiste nella sostituzione di nome con un altro nome; nel caso in questione, al nome di qualcuno subentra una sua proprietà che gli è tipicamente caratteristica; l’antonomasia, infatti, è anche detta sineddoche ad individuum quando seleziona un aspetto distintivo associato ad un individuo (o, come in questo caso, ad un gruppo di individui). L’aggettivo sostantivato toponomastico assume dunque un significato determinato diverso da quello proprio che gli competerebbe nella norma: non si tratta solo di conferire a questi personaggi femminili un qualche attributo, o sottolineare una semplice comunanza, ma di determinare una identità tra l’attributo e le persone in questione. Esse sono le lombarde, ovvero lombarde per eccellenza, donne la cui “lombardità” è al massimo grado. In loro sono rappresentate tutte le donne lombarde.

Se, da una parte, tale uso del linguaggio antonomastico ha lo scopo di mitizzare il discorso e di renderlo universale, dall’altra, inevitabilmente, incorpora in sé, veicolandolo, l’immaginario del luogo della tragedia, vale a dire Milano, città lombarda per eccellenza: Milano. Come vediamo, c’è uno stretto legame di connessione tra le protagoniste e lo spazio diegetico. Ma l’informazione su Milano non è dichiarata, malgrado si deduca facilmente dagli elementi sopra elencati, e non perché si attinga alla storicità del naufragio di Albenga. Il richiamo all’episodio in cui erano annegati gli oltre quaranta bambini, infatti, è un riferimento più che altro evocativo: se la trama ripercorre fedelmente i fatti senza apportare alterazioni di sorta, certamente qui è rigettata qualsiasi velleità di ricostruzione storica. È innegabile però, che uno spettatore medio degli anni ’50, poteva attingere a questo elemento extra-testuale, perché memore della sciagura che aveva turbato l’Italia nemmeno tre anni prima; difficilmente avrebbe potuto dimenticarsi delle immagini, finite sulle pagine di tutti i giornali nazionali, di piazza del Duomo gremita di persone attorno alle salme bianche dei piccoli prima della celebrazione dei funerali.

Ma il dramma documenta il fatto storico in modo frammentario e indiziario, come se ne fosse pregno, sebbene disperda, una volta estratto dal suo contesto originario, ogni allusione o riferimento esplicito che faccia leva sull’esistenza di conoscenze condivise dal drammaturgo, dagli attori e dal pubblico che collettivamente era in grado di decifrarle. Testori infatti decide di lasciare anonima la città della sua tragedia. Perché?

Prima di passare alle ragioni di tale scelta occorre fare qualche considerazione contestuale da cui non è possibile prescindere:

 Si dispongono, come su un’ipotetica tavola sinottica, gli scritti del primo Testori drammaturgo che coprono un arco di tempo dal ’43 al ‘50: i due atti unici (del ’43) La morte. Un quadro; Cristo e la donna (’43-’44), Caterina di Dio (1948) e Tentazione nel convento (1949).

In nessuno di questi drammi troveremo un riferimento topografico dell’azione. Ne La morte e Un quadro abbiamo delle scene in interno (il teatro e uno studio di pittore), così come in Caterina di Dio l’azione si svolge su un palcoscenico vuoto. In Cristo e la donna e abbiamo l’indicazione di una scena che si svolge all’esterno, «sulle strade principali della città»135 (che non viene precisata), mentre in Tentazione nel convento la didascalia specifica che «il convento […] è situato in una località di collina, molto solitaria»136. Pertanto registriamo che la proto-drammaturgia testoriana non è avvezza al rinvio a luoghi della realtà.

 D’altro canto, per il Testori letterario, sappiamo, esiste sempre e solo una città: Milano. Dirà dieci anni dopo: «Quando ho detto che sono nato nel 1923, a Novate, cioè a dire alla periferia di Milano, dove da allora ho sempre vissuto e dove spero di poter vivere sino alla fine, ho detto tutto»137. Questo rimarca il connubio Milano- periferia, da cui Testori non riesce a staccarsi mai, nei suoi scritti. Annota Panzeri: «Le periferie testoriane […] hanno segnato un centro, una realtà, non solo letteraria. Nel loro assumere, negli anni Cinquanta, un carattere mitico e quasi epico hanno voluto dimensionare quasi un riferimento topografico». Qui siamo ancora distanti però, dai quartieri proletari dai tratti popolari che troveremo pochi anni dopo nel ciclo de I segreti di Milano; distanti dal brulicare notturno di personaggi irrequieti e insoddisfatti, animati da una smaniosa ed erotica vitalità che

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G. Testori, Cristo e la donna, cit., p. 29.

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Id., Tentazione nel convento, in id., Opere, 1943-1961, vol. I, cit., p.29.

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contraddistinguerà la periferia testoriana milanese della narrativa e del teatro (si pensi a La Maria Brasca e a L’Arialda). In fondo, la città de Le Lombarde potrebbe essere un luogo qualsiasi, sfondo nebbioso e fosco della tragedia, che non si distingue nemmeno per qualche suo tratto, per qualche sua caratteristica particolare, per qualche toponimo; è periferia composta di piazza e case e nient’altro.

In questo territorio incerto e brumoso la città appare, volutamente, mai menzionata.

E qui si avanzano alcune ipotesi sulle ragioni dell’omissione: in primis, non definire la città è ancora un modo per dare un respiro universale alla vicenda di cui si parla; in secondo luogo, l’indefinito favorisce, per chi assiste allo spettacolo, una maggiore identificazione con la propria città; ultimo e più importante, tale omissione contribuisce ad evidenziare una maternità annullata. Infatti, un’osservazione più attenta della terminologia usata consente di rilevare che la reticenza del linguaggio non si limita alla città, ma si estende a ciascun personaggio: oltre al coro delle madri, anche i padri, il testimone, e le due donne, sono senza nome; ma se le madri, come i padri, sono connotati dal grado di parentela; se ciò che rende testimone il testimone è assistere al fatto tragico, al naufragio – che però non avviene in scena –; sono le due donne ad essere le uniche connotate dalla loro appartenenza al luogo di provenienza – la donna di Mantova, la donna di Lodi – e sono anche le uniche madri a non avere perso i figli; questo dimostra che l’esplicitazione della città è esplicitazione del legame, della maternità in atto. Le madri del coro, invece, che assolvono la propria condizione tramite un legame in absentia (i figli sono morti), non hanno, parimenti, una città cui riferirsi.

Perfino l’aggettivo sostantivato “lombarde” è ottenuto tramite l’omissione del nome “madri” (nome che troveremo ripetuto anaforicamente, quasi in maniera ossessiva, all’interno del testo).

E del resto senza l’oggetto in absentia i personaggi non avrebbero il ruolo che hanno, e questa dipendenza assoluta chiama continuamente in causa gli oggetti stessi.

In ognuno di questi casi il tema dell’assenza, della mancanza, della privazione che permea tutta la tragedia trovando il suo correlativo oggettivo nel «qui» della città.