Capitolo 5 La gestione e lo sviluppo dei lavoratori della conoscenza
6.7 Dal censimento delle occupazioni alla rappresentazione analitica del lavoro
Lo studio sui lavoratori della conoscenza è soggetto a due pesanti ipotesi24: (i) che l’appartenenza ad una professione piuttosto che ad un’altra, in sede censuaria o di ricognizione statistica, sia univocamente garantita e (ii) che la descrizione delle professioni riesca a rappresentare i contenuti reali della professione.
La prima ipotesi riguarda la possibilità di errore che esiste nella rilevazione dei dati da parte degli organismi che svolgono le indagini. Quando si tratta di capire, attraverso una intervista, la professione di un lavoratore, è possibile imbattersi nelle “zone grigie” di cui si parlava nel capitolo precedente. Questo tipo di problema ha tuttavia un intervallo di confidenza accettato per questi momenti di ricognizione statistica.
La seconda ipotesi è parecchio articolata e delicata e riguarda la sottile ma sostanziale differenza che passa tra censire occupazioni e professioni titolate e codificate e censire occupazioni e professioni di cui si conosce realmente il contenuto e che, per questo, potrebbero anche essere titolate e raggruppate in modo diverso.
Per discutere sulle problematiche che caratterizzano la rappresentazione statistica del lavoro della conoscenza è necessario separare i problemi che derivano dall’‘operare’ per fini statistici con gli strumenti di rappresentazione delle professioni, dai problemi legati invece alla natura stessa di tali strumenti. Nella realtà, queste due classi distinte di problematiche si alimentano vicendevolmente intrecciandosi in un intricato gioco macchinoso di rapporti di causa-effetto, determinando sovente una focalizzazione sulla prima classe di problemi, quelli cioè più
squisitamente statistici e specialisti, fiduciosi che così facendo si possa sopperire almeno in parte alle mancanze di natura strutturale.
Ancorare discorsi teorici sul lavoro della conoscenza ad evidenze dimostrate quantitativamente vuol dire in qualche modo “far parlare” direttamente le professioni della conoscenza andando poi a completare con l’interpretazione teorica ciò che questo linguaggio ha autonomamente comunicato.
Basare empiricamente questo tipo di studi permette, inoltre, non solo di dare ragione del mutare dei contenuti del lavoro, ma anche di strutturare un’analisi dell’identità sociale delle persone interessate. Questo scambio virtuoso tra studi empirici, interpretazione teorica e analisi sociale ha però un presupposto imprescindibile: che il linguaggio delle professioni della conoscenza sia un linguaggio comprensibile a tutti.
Il primo problema, apparentemente banale ma di reale importanza, riguarda la titolazione professionale del lavoro della conoscenza.
L’antico lavoro industriale, quello cioè legato ai modelli originari di natura taylor-fordista, ha avuto un intero secolo per definire i propri titoli lavorativi all’interno delle varie classificazioni delle professioni. Oggi si è giunti a un livello tale di approssimazione alla realtà che qualunque lavoratore impiegato nei settori industriali tradizionali che scorra una classificazione non troverà alcun problema a puntare il dito su un titolo e ad affermare, felice di essersi ritrovato, che quello è il “suo” titolo professionale. Ebbene, una buona parte di quella quasi metà delle forze di lavoro totali che abbiamo definito come lavoratori della conoscenza oggi riesce a puntare il dito su nulla. Seguire le modificazioni del lavoro della conoscenza è sicuramente un’impresa ardua essendo la sua dinamica notevolmente più spinta rispetto a quella del lavoro industriale tradizionale, tuttavia è necessario ‘rincorrere’ questa dinamica riformandone la titolazione professionale per renderla maggiormente aderente ai Job Titles che si usano nella realtà.
L’esigenza di far parlare le professioni della conoscenza con un linguaggio comprensibile e aderente alla realtà non è esclusivamente una questione di lessico occupazionale, ma rimanda direttamente al funzionamento del mercato del lavoro. Un esempio per tutti: si è dovuto aspettare la classificazione ISCO08, che nel 2008 aggiorna la precedente ISCO88, per avere l’introduzione del titolo dei Computing Professionals. Tra questi sono annoverati i Computer systems designers and
analysts, i Computer programmers ed i Computing professionals not elsewhere classified.
Probabilmente nel 2008 qualcosa in più sulle professioni informatiche si riesce a sapere e a dire25.
25 Un esempio, tuttavia ancora solo in parte utilizzato, è quello di EUCIP, il programma europeo di certificazione per gli specialisti ICT sviluppato dal CEPIS (Council of European Professional Informatics Societies) e promosso in Italia dall’ Associazione Italiana per l’Informatica ed il Calcolo Automatico (AICA).
La necessità di rivedere il meccanismo di titolazione si ravvisa inoltre nella numerosità dei titoli che si riferiscono a professioni non legate ai processi industriali. Osservando oggi una qualunque classificazione delle professioni parrebbe infatti che il lavoro della conoscenza necessiti di un insieme di professioni molto minore rispetto al comparto della produzione non industriale. Non è un mistero che così non è.
Esiste poi un problema di descrizione del lavoro. Non si deve infatti cadere nell’errore di usare vecchi codici di descrizioni che per loro stessa costruzione non colgono la natura del lavoro. La questione non è infatti scrivere per ogni codice una decina di righe di descrizione più o meno verosimile; il problema è “riempire” i codici professionali di contenuto aderente alla realtà in modo da essere davvero esemplificativi del mondo del lavoro della conoscenza. Per far questo, la descrizione utilizzata nelle classificazioni deve essere:
• costruita per codici nuovi di professioni; descrivere in maniera nuova un elenco vecchio vorrebbe dire risolvere solo metà del problema (ancorare una descrizione che rende merito alla professione di un esperto di hardware al titolo di lavoratore in sistemi elettromeccanici vorrebbe dire descrivere parzialmente il lavoro);
• aderente ad un nuovo modello di analisi e rappresentazione del lavoro; avere una “matrice” comune per ogni descrizione di professione obbligherebbe ad investigare a fondo tutte le numerosissime dimensioni che costituiscono un lavoro della conoscenza; vorrebbe dire avere la possibilità di monitorare e comparare nel tempo i cambiamenti che possono verificarsi su quel dato codice occupazionale; vorrebbe dire riuscire a porre le basi per una reale analisi dei fabbisogni formativi trasversali, ovvero quei bisogni non direttamente legati ai fattori formali di ogni professione; vorrebbe dire, infine, riuscire a dare ad ogni lavoratore uno strumento di riconoscimento sociale.
• verificata e sostenibile, ovvero controllata nella correttezza delle dimensioni descrittive attraverso ricerche sul campo volte anche a comprenderne la solidità statistica nel tempo.
Esistono infatti alcuni nodi strutturali che molte classificazioni manifestano. Le classificazioni più “antiche”, o meglio quelle che sono esplicitamente figlie di antiche strutture di codifica professionale, mantengono dei vizi di struttura che è necessario rimuovere. Il più visibile riguarda l’utilizzo della tassonomia professionale come strumento di codifica di un certo status sociale, in definitiva come strumento di classificazione di una posizione in una scala sociale non completamente formalizzata e dichiarata ma comunque pesantemente influente nella società. In questa accezione, per esempio, il primo Grande Gruppo, quello dei dirigenti, definisce una classe sociale e non un insieme di professioni; per questo motivo entrare nel primo Grande Gruppo diventa
una sorta di meta dell’aspirazione sociale, dal basso verso l’alto risalendo un elenco di gruppi sociali ordinati dal meno influente al più potente ed affermato.
Un ultimo problema della rappresentazione analitica del lavoro riguarda le professioni di riferimento. Nella Classificazione delle Professioni ISTAT del 2001, sotto la voce professionale “Cuoco”, si possono trovare 26 categorie: aiuto, antipastiere, chef de cuisine, chef de rang, chef
saucier, cuoco, al frigorifero, capo partita, di bordo, di partita di camera fredda, di partita di legumi,
di partita di pesce, di partita di rosticceria, di partita di salse, di partita di zuppe, di ristorante, gastronomo, gelatiere, pasticciere, pizzaiolo, preparatore di pietanze, specializzato in diete, tecnologo, di famiglia privata, di fast food. Ma chi è e cosa fa davvero un cuoco? Qual è quel tratto unico, distinguibile, netto, di sostanza che accomuna un cuoco di partita di camera fredda ed un cuoco preparatore di pietanze e che fa sì che entrambi, in una cucina, agiscano più o meno per lo stesso fine? Il problema potrebbe sembrare banale per un cuoco (e così non è), ma basta pensare ad un qualunque lavoratore della conoscenza per accorgersi dell’importanza della questione.
Fra le professioni della conoscenza, quella del medico, ad esempio, ha una sua robustezza assoluta che passa dal ruolo, dalla professione e anche dalla identità di chi si avvia o già esercita quella professione. Pur essendo i domìni, le specializzazioni, i livelli e le situazioni occupazionali notevolmente estese e mutevoli, dal grande clinico al giovane praticante dentista sono tutti medici, hanno fatto tutti un esame di Stato, hanno recitato tutti il giuramento di Ippocrate e quando qualcuno li incontra per strada li saluta apostrofandoli nello stesso modo.
Di fronte alla estrema varietà di ruoli e di professioni che si esprimono nel mondo del lavoro, è oggi più che mai sentita l’esigenza di identificare alcune professioni di riferimento che includano al loro interno l’estrema varietà delle professioni esercitate ossia occorre definire le broad professions, le professioni di riferimento. Una tassonomia delle professioni e le analisi statistiche da essa derivate non possono non cogliere questa esigenza.
Bisogna quindi pensare ad un livello di rappresentazione del lavoro della conoscenza che abbia come perno intermedio le professioni di riferimento costruite come una ontologia volta ad individuare il “ceppo delle professioni”, continuativo ed invariante, dal quale poi spingersi più in alto per i Grandi Gruppi professionali o più in basso per le singole categorizzazioni specifiche.
Le politiche del lavoro di medio e breve termine, per loro costruzione, colmano le esigenze specifiche e contingenti che emergono dalla dialettica delle professioni con il mondo del lavoro. Un’azione davvero riformatrice ha, al contrario, la necessità di rispondere ad obiettivi di lungo termine progettando e realizzando programmi per la creazione di “professioni robuste” che riescano a rimanere relativamente invariate al mutare delle attività, dei ruoli e delle competenze
continuamente mutevoli.
Il vero lavoro della conoscenza è questo.
6.8 Dal disorientamento dei numeri alla pratica del cambiamento: per non avere una Odissea