Capitolo 2 Società ed economia della conoscenza
2.4 La conoscenza come fattore di crescita economica dei paesi
Che non si tratti esclusivamente di un argomento di natura scientifica se ne ha percezione registrando la consapevolezza anche degli attori istituzionali circa l’importanza della conoscenza nei processi di creazione del valore dei sistemi economici.
Questa consapevolezza si esprime non solo attraverso le scelte di natura economica, politica e sociale che i vari Paesi si trovano a porre in essere ma traspare anche dai tentativi di considerare questi argomenti all’interno di linee guida e piani di programmazione istituzionale. La misura di questa attenzione la si può ricercare nei riferimenti espliciti che si fanno in vari documenti istituzionali sull’economia della conoscenza.
Alcuni, ad esempio, sono:
«one in which the generation and exploitation of knowledge has come to play the predominant part in the creation of wealth. It is not simply about pushing back the knowledge frontiers of knowledge; it is also about the most effective use and exploitation of all types economy of knowledge in all manner of economic activity» (Dipartimento delle Tecnologie Innovative);
«economic success is increasingly based upon the effective utilisation of intangible assets such as knowledge, skills and innovative potential as the key resource for competitive advantage. The term “knowledge economy” is used to describe this emerging economic structure…» (Economic and Social Research Council, 2005)
«…to make Europe the most competitive knowledge based economy in the world by 2010» (Strategia di Lisbona, 2000);
«The concept of knowledge societies encompasses much broader social, ethical and political dimensions. There is a multitude of such dimensions which rules out the idea of any single, ready-made model, for such a model would not take sufficient account of cultural and linguistic diversity, vital if individuals are to feel at home in a changing world. Various forms of knowledge and culture always enter into the building of any society, including those strongly influenced by scientific progress and modern technology. It would be inadmissible to envisage the information and communication revolution leading – through a narrow, fatalistic technological determinism – to a single possible form of society.» (Towards Knowledge Societies, UNESCO Publishing, 2005)
Non si tratta tuttavia di un tema emerso di recente. Il ruolo che riveste la conoscenza come fattore di crescita economica, si può già ritrovare (Foray, ibidem), nel ruolo svolto dalle abbazie cistercensi ben prima dell’industrializzazione: il trasferirsi ed insediarsi dei monaci in territori nuovi portava con loro conoscenze evolute, direttamente applicabili e con significativi effetti di crescita economica. Il modello delle abbazie cistercensi ci ricorda quindi come forme di economia della conoscenza esistano da sempre e ci sprona a prendere le distanze dalle argomentazioni che vorrebbero come valida l’oggettiva novità del fenomeno. Ciò che può tuttavia essere considerata nuova, non ancora completamente individuata e sufficientemente analizzata, è la dinamica, all’interno dei sistemi economici dei paesi, della conoscenza intesa come fattore di crescita economica.
Una vasta letteratura ha indagato la relazione fra crescita e ciò che è stato definito come “capitale derivante da investimento per l’aumento di conoscenza ed educazione”, ovvero il capitale umano di un paese o di un certo territorio. In realtà, già con il solo buon senso, è possibile argomentare come una forza lavoro più istruita, livelli di istruzione più elevati ed una generale crescita delle competenze e capacità professionali dei lavoratori possano partecipare congiuntamente alla realizzazione di una economia maggiormente efficiente. Si potrebbe inoltre specificare tale ipotesi aggiungendo che quanto più crescono le conoscenze di natura scientifica e tecnologica tanto più sarà possibile lo sfruttamento delle nuove tecnologie, la generazione di innovazione e conseguentemente la crescita dei paesi industrializzati.
Il senso comune tuttavia non permette di cogliere tutti gli spunti che l’argomento propone. In questo tuttavia le scienze economiche non sono state, e non sono, avare di ricerche e di studi: come ha meglio di altri sistematizzato Lodde (2000) la concordanza di opinioni degli economisti teorici sul ruolo decisivo del fattore conoscenza è piuttosto ampia e risale almeno agli anni Sessanta quando il modello di crescita di Solow fu esteso proprio con l’introduzione del capitale umano nel
tentativo di aumentarne la capacità esplicativa. Questa intuizione ha dato luogo in quegli anni ad una vasta letteratura empirica volta a comprendere le forme di interazione reciproca tra questi vari fattori alla crescita economica e la crescita stessa8.
Negli anni Ottanta si osserva come l’investimento in capitale umano, che nasce da decisioni di vari agenti economici, può dar luogo ad una crescita continua nel tempo e dipendente da fattori interni alla logica di funzionamento del sistema economico9 (Robert Lucas nel 1988 parla per primo di esternalità positive che producono benefici senza alcun tornaconto per il decisore). A questo filone si deve inoltre l’interessante messa a fuoco del fatto che l’input fondamentale della produzione di capitale umano è lo stesso capitale umano: non è possibile insomma un buon apprendimento senza buoni insegnati o, al minimo, senza una certa vicinanza o prossimità a lavoratori dotati di esperienza e capaci di trasmetterla. Questo tipo di studi sottolineano come il motore di una crescita costante nel tempo che dipende dall’interazione tra capitale umano ed evoluzione delle conoscenze tecnologiche si prospetta come crescita endogena ovvero interamente determinata dalle decisioni degli agenti economici.
Romer (1990), sempre nel dibattito sui modelli teorici della crescita endogena, si focalizza sulla caratteristica già discussa di “non rivalità” di una specifica conoscenza per la quale essa può essere usata da più individui contemporaneamente senza alcun problema accrescendo produttività ed efficienza nella produzione di diversi beni senza costi aggiuntivi. L’incidenza del costo di produzione delle conoscenze diminuisce quindi all’aumentare della produzione dei beni che ne fanno uso in funzione dell’ampiezza del mercato. Inoltre l'accumulazione di conoscenze ha l'effetto di rendere più facile e meno costoso lo sviluppo di nuove conoscenze per il semplice motivo che le vecchie idee sono il principale input nella produzione delle nuove e possono essere usate senza costi aggiuntivi. Infine le possibilità di creare nuove idee e di migliorare quelle esistenti sono pressoché inesauribili. Tutto ciò fa sì che l’accumulazione delle conoscenze non comporti una riduzione della loro capacità di creare valore economico e quindi non diminuisce l’incentivo a investire. In altri termini la produzione di conoscenze potrebbe crescere senza limiti.
Questa riflessione troverebbe una robusta verifica nella crescita del livello di istruzione. Se il processo fosse perfettamente regolare vorrebbe dire, infatti, che paesi con livelli di istruzione più elevati dovrebbero crescere più rapidamente anche, ma non solo, per la presenza di una forza lavoro più istruita rispetto a quelli più poveri. Uno dei casi più citati, che non conferma questa regola, ci viene dall’analisi dell’Egitto nel quale l’istruzione superiore e universitaria sono cresciute
8 Denison (1967, 1979), stimando una funzione di produzione che ha come input il capitale e il lavoro dove la qualità di quest’ultimo è misurata da un indice degli anni di istruzione mediamente acquisiti dai componenti della forza lavoro, trova che l’istruzione contribuisce positivamente alla crescita del prodotto e che tale contributo può essere stimato pari a un valore compreso fra il 15% e il 25% della crescita complessiva, inoltre tale contributo è aumentato nel tempo.
moltissimo negli anni ‘70 e ‘80 ma il tasso di crescita dell’economia è stato nello stesso periodo piuttosto basso. Senza andare tanto lontano anche in Italia, a ben vedere, risulta una correlazione tra la diffusione dell’istruzione universitaria ed il tasso di crescita delle regioni italiane negli anni settanta e ottanta. Una delle spiegazioni maggiormente interessanti si basa sull’analisi di come una quota eccessiva di laureati viene assorbita da un settore a bassa produttività come quello della pubblica amministrazione. Se si tiene conto di questo fatto la correlazione fra istruzione universitaria e crescita del prodotto riappare d’incanto e sembra abbastanza robusta dal punto di vista statistico. (Lodde, 1999).
Verificare quindi il reale contributo del capitale umano alla crescita economica dei paesi non è proprio un’impresa facile10. Alcuni studi (Benhabib e Spiegel, 1994, Pritchett, 1995) mostrano addirittura come la crescita dell’istruzione in alcuni casi non influenza la crescita del prodotto nazionale e come quando un effetto significativo è presente esso sia negativo. La crescita dei livelli di istruzione nella forza lavoro dei paesi africani è stata, ad esempio, la più elevata di qualunque altra regione del mondo (inclusi i paesi del Sud-Est asiatico), tuttavia il tasso di crescita del reddito nei paesi dell’Africa Sub-Sahariana è stato pari alla metà di quello dei paesi dell’America Latina fra il 1960 e il 1985, e circa un quinto rispetto ai paesi del Sud-Est asiatico. Un altro esempio è dato dai paesi dell’Est europeo in cui i livelli di istruzione erano molto più alti di quelli delle regioni del Sud Europa negli anni ottanta, ciononostante il prodotto pro capite era circa la metà.
L’incertezza dei risultati empirici si deve in parte al fatto che l’indicatore normalmente usato dagli economisti per misurare lo stock di capitale umano, ovvero l’istruzione, non rappresenta adeguatamente la sfaccettata complessità di questo fattore della produzione. Questo tipo di evidenza, a lungo dibattuta nelle sedi di studio economico, risulta utile anche nella nostra trattazione generale che riguarda l’economia della conoscenza. La capacità di fare e le conoscenze necessarie all’utilizzo produttivo delle tecnologie non derivano infatti esclusivamente dall’istruzione formale impartita nelle scuole ma, in misura notevole, da processi di apprendimento che hanno luogo contestualmente all’attività lavorativa. Inoltre tali capacità dipendono non solo dalla quantità di istruzione ricevuta ma anche dalla sua qualità.
Una prima ipotesi analitica consiste nel mettere in discussione il legame fra istruzione e produttività. Il lavoro di Mincer in effetti non stabilisce una relazione univoca fra livello di istruzione e remunerazione ma la fa dipendere anche dall’età. Questo significa che la componente dell’apprendimento sul lavoro (di cui non si tiene minimamente conto nelle analisi
10
Vari sono stati infatti i tentativi di dimostrare tale correlazione. Robert Barro (1991, 1997, 1998) ha verificato la presenza di correlazione tra il tasso di crescita del prodotto nazionale lordo ed il livello di istruzione della popolazione all’inizio del periodo considerato. Sempre su questo filone si sono mossi Wolff e Gittleman (1993), Benhabib e Spiegel (1994) e molti altri.
macroeconomiche) è molto importante nel determinare il salario. Secondo un’altra ipotesi, che produce risultati simili alla precedente, la funzione dell’istruzione sarebbe quella di selezionare i lavoratori “desiderabili” rispetto a quelli “non desiderabili”. In altri termini la scuola segnala ai datori di lavoro i lavoratori più motivati, disciplinati o maggiormente disponibili ad apprendere sul lavoro. In questo caso l’istruzione non contribuisce direttamente alla crescita economica ma funziona come un meccanismo di assegnazione dei lavoratori a occupazioni più o meno remunerate. Si tratta, quindi, di una nuova società nella quale possiamo scambiare informazioni e comunicare con una semplicità mai raggiunta prima, in qualsiasi luogo e riguardo qualsiasi aspetto della nostra vita; le informazioni si trasformano poi in conoscenze che ognuno può impiegare per diventare più efficace, più competitivo o più produttivo nelle proprie attività di natura socio-politica (Castells, 1996). Ma tutto questo non riguarda esclusivamente il singolo. L'Unione Europea parla oggi di una "società della conoscenza" come orizzonte direttivo per le proprie politiche comunitarie di istruzione, divulgazione ed educazione degli adulti: le conoscenze, come si è sancito a Lisbona, devono fungere in Europa da strumento per vincere le sfide del mercato globale attraverso un sapere - non solo tecnologico - diffuso che permetta maggiori possibilità di produzione competitiva.
Ma tutto questo rappresenta davvero una novità? O meglio, dove sta oggi la vera novità di questo sistema di cose?