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Cesare Pavese, Giacomo Noventa, Sandro Penna

Nel 1936 le Edizioni di “Solaria” diffondono il libro di un esordiente, che intanto si trova al confino per antifascismo a Brancaleone Calabro: l’opera è Lavorare stanca, l’autore Cesare Pavese (1908-1950). La prima

raccolta poetica di Pavese non incontra molta attenzione critica, nean- che dopo la ripubblicazione in versione modificata e ampliata nel 1943 (Einaudi); nel dopoguerra ottiene molto successo il suo secondo libro di versi, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (Einaudi, 1951), pubblicato po-

stumo. Intanto Pavese diventa noto come intellettuale e scrittore: La casa in collina e La luna e i falò vengono considerati capolavori del neo-

realismo, e contribuiscono a una rivalutazione della sua opera poetica. È anche uno dei traduttori italiani più importanti di questo periodo; insieme a Vittorini contribuisce a diffondere e a far conoscere in Italia una parte fondamentale della letteratura nordamericana4.

Per la storia della poesia, la sua prima raccolta è molto più significa- tiva della prima. Lavorare stanca racconta un’esperienza di solitudine,

come molta della migliore poesia di questi anni; ma lo fa in un modo diverso rispetto alle opere coeve. «L’avventura dell’adolescente che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città, ma vi tro- va la solitudine e vi rimedia col sesso e la passione che servono soltanto a sradicarlo e gettarlo lontano da campagna e città, in una più tragica solitudine che è la fine dell’adolescenza»: così Pavese definisce il suo primo libro di versi in Il mestiere di vivere.

I testi di Lavorare stanca raccontano episodi della vita di un adole-

scente nella provincia torinese. I protagonisti sono proiezioni dell’au- tore (come il cugino che rientra in Piemonte dopo esserne scappato da adolescente nella poesia d’apertura, I mari del Sud), accomunati

dall’inadeguatezza e dall’insuccesso sia nella vita produttiva, sia nei rapporti interpersonali, sia nei tentativi di impegno politico. Nono- stante campagna e città vengano poste in antitesi, il senso di esclusio- ne caratterizza adolescenti, prostitute, vecchi e ubriachi quando sono nelle periferie cittadine come quando vengono rappresentati fra col- line mitizzate e ricche di simboli. Per Lavorare stanca Pavese parla di

«poesia racconto» e di «stile oggettivo», in aperta polemica con la poesia «che troppo gratuitamente posa a essenziale» degli ermetici; in realtà lo strumento attraverso cui i personaggi prendono forma è quasi sempre il monologo. In un unico flusso ritmico e sintattico vengono inseriti dialettalismi ed elementi di parlato; nelle frasi prevale la para-

4. Pavese traduce, fra gli altri, Dos Passos, Melville, Faulkner, Sinclair Lewis, ol- tre al Dedalus di Joyce. Cfr. a questo proposito Stella (1977). I suoi saggi sulla lettera- tura americana sono usciti postumi per Einaudi nel 1951, con il titolo La letteratura americana e altri saggi, di Italo Calvino.

tassi, anche usata in modo incongruo, per congiungere elementi che non si trovano su uno stesso piano di realtà; la metrica si basa su versi molto lunghi, spesso costruiti su decasillabi ai quali vengono aggiunti alcuni piedi. Pavese si ispira, per costruire questi poemetti, alla lettera- tura americana modernista (Faulkner) e alla poesia di Walt Whitman, al quale ha dedicato la tesi di laurea; ma è evidente anche l’influenza di letture junghiane. Il risultato sono testi, senz’altro diversi dagli esiti ermetici di quegli stessi anni, ma più lirico-simbolici che non ricon- ducibili a un’ipotetica oggettività del racconto. Fortini li inserisce in una sezione della sua antologia intitolata Montale e la poesia dell’esi- stenzialismo storico, insieme a quelli di Montale, Luzi, Sereni, Caproni,

Pasolini, Erba, Noventa, Giudici, Leonetti, Risi e Fortini; Sanguineti nello Sperimentalismo realistico, con Pasolini e Pagliarani. La lettura

di Pavese, dunque, è antiermetica. Ciò che differenzia Lavorare stan- ca dall’ermetismo, oltre alle scelte stilistiche, sono i contenuti: Pavese

parla di sesso, esclusione, ripetitività dell’esistenza, tragicità del destino umano, attività politica come responsabilità etica, desolazione dell’I- talia fascista. L’elemento mitico viene poi assolutizzato in Dialoghi con Leucò, una raccolta di dialoghi in prosa pubblicata nel 1947, che per

stile e temi ricorda da vicino Lavorare stanca.

Pavese stesso detta la frase della fascetta presente nella seconda versio- ne di Lavorare stanca (1943): «Una delle voci più isolate della poesia

contemporanea». In realtà dietro l’assertività di questa frase c’è un’en- fasi non del tutto fondata sulla realtà. Certo, se si leggono Lirici nuovi,

la direzione della poesia italiana del Novecento sembra univoca, già segnata, coerente con se stessa e con poche differenze fra Ungaretti e Montale. In questo contesto, Pavese è un alieno. Tuttavia, come le suc- cessive storie letterarie e alcune opere saggistiche hanno mostrato, ne- gli anni Trenta circolano già le poesie di autori del tutto indipendenti dal côté postsimbolista. Sono gli anni in cui scrive Giacomo Noventa

(pseudonimo di Giacomo Ca’Zorzi, 1898-1960), anche se i suoi versi saranno riuniti in volume solo nel 1956. Noventa pubblica le prime po- esie su “La Riforma letteraria”, rivista che ha fondato insieme a Carocci a Firenze, nel 1936. La prima raccolta di Versi e poesie (Edizioni di “Co-

munità”) esce a Milano nel 1956, con Introduzione di Geno Pampaloni;

ne seguiranno varie, fino all’ultima per Marsilio (1986-89), a cura di Manfriani. I suoi critici principali, e i primi che riescono a metterne

in luce la contemporaneità e il posto nel canone, sono Debenedetti, Pasolini e Fortini.

Noventa scrive in dialetto, o meglio in un impasto di dialetto e ita- liano, e per lungo tempo raccoglie le sue poesie solo oralmente. Come vedremo accadere anche nel caso di Penna (cfr. infra), il giudizio criti-

co sulla sua poesia ne esalta la non contemporaneità, ovvero l’alterità rispetto alla poesia più praticata in quegli anni, anche quando si tratta di commenti positivi. Fusse un poeta… Ermetico, Parlarìa de l’Eterno: De la coscienza in mi, De le stele su mi,

E del mar che voleva e no’voleva (Ah, canagia d’un mar!)

Darme le so parole. Ma son…

(Perché no’ dirlo?) Son un poeta.

E ti ghe géri tì ne la me barca.

In questo caso il dialetto non è scelto per sottolineare un’alterità an- tropologica, come accadrà in autori dei decenni successivi. Se per molti si tratta di una via per identificarsi in un mondo diverso dal proprio, dunque spesso è velata di intenzioni populiste o è parte di una ricerca di identità personale, nel caso di Noventa la lingua non è quella uf- ficiale della letteratura italiana, perché l’intenzione dell’autore è di non aderire all’idea di letteratura dell’ermetismo: per questo ironizza sull’uso enfatico ed evocativo della “parola” (vv. 6-8). Gli scritti in pro- sa, e tutta l’attività di redattore della “Rassegna della letteratura italia- na”, spiegano e confermano questa scelta, che di fatto ha una ragione politico-culturale. Come scrive uno dei principali critici di Noventa, Giacomo Debenedetti:

Per ora, la fuga dalla lingua non ha nulla di negativo, di mortificato: è il pro- clama di un dover essere, che la lingua non è più in grado di definire. Gli altri fuggono nel linguaggio ermetico, Saba fugge negli emblemi psichici del male

di vivere, dell’angoscia e delle dissociazioni create da una coscienza infelice del proprio esserci nella storia, in quella storia, Noventa fugge nel dialetto che è insieme coscienza infelice di quella storia e fede nella possibilità di una coscienza felice di una storia che si potrebbe correggere, se si prendesse atto degli errori di una cultura sbagliata, dimentica dei valori prescritti all’uomo e raggiungibili dall’uomo (Debenedetti, 2000, p. 195).

Poco dopo l’uscita di Lavorare stanca, nel 1939, anche Sandro Penna

(1906-1977) pubblica a Firenze la sua prima raccolta di versi, Poesie

(Parenti)5.

L’opera di Penna, a differenza di quella di Pavese, viene letta e di- scussa presto, ad esempio da Montale, Saba, Solmi e Anceschi; ciono- nostante, rimane a lungo poco studiata e commentata in modo ambi- guo. Ne viene sempre evidenziata l’alterità rispetto al resto della poesia contemporanea, come se Penna fosse un autore capitato per caso nel Novecento, «quasi un lirico delle origini, un lirico greco, che scriva in italiano nel xx secolo» (Berardinelli, 1996, p. 476). La sua poesia vie- ne interpretata come «ingenua», «sognante», «delirante e voluttuo- sa» (Anceschi, 1943, pp. 568-9); un epigramma drammatico perché non ha intorno a sé nessun appiglio: un «fiore senza gambo visibile» (Bigongiari, 1965, p. 257). Inizialmente Penna viene considerato un po- eta minore, laterale rispetto a una presunta via maestra della poesia del Novecento (coincidente con l’ermetismo). Studi più puntuali inizia- no a emergere a partire dagli anni Sessanta, grazie ai saggi di Pasolini, Debenedetti, Garboli, e successivamente Raboni: la “grazia” della sua poesia non viene smentita, tuttavia se ne rintraccia la contraddizione intrinseca. Ma in che senso Penna è, con le parole di Mengaldo (1978, p. 735), «un poeta integralmente fuori della storia»?

Con il cielo coperto e con l’aria monotona grassa di assenti rumori lontani

nella mia età di mezzo (né giovane né vecchia) nella stagione incerta, nell’ora più chiara

cosa venivo io a fare con voi sassi e barattoli vuoti? L’amore era lontano o era in ogni cosa?

Tutte le opere di Penna hanno un unico tema: il canto nel mondo e l’e- mersione del desiderio. I testi non hanno mai uno svolgimento inter-

no, né c’è una macronarrazione articolata fra le varie raccolte. Spesso il poeta rappresenta se stesso come spettatore della realtà, mai protago- nista attivo; coesistono adesione vitale alle cose, da un lato («Il mare è tutto azzurro. / Il mare è tutto calmo. / Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo», Penna, 1989, p. 12), e autoesclusione e sof- ferenza, dall’altro («Ma Sandro Penna è intriso di una strana / gioia di vivere anche nel dolore», ivi, p. 217). Il canto apparente nasconde l’interiorizzazione di una nevrosi sociale: il desiderio di Penna, infatti, è omosessuale. E allora proprio l’apparente musicalità e leggiadria delle immagini sono, certo, una scelta d’evasione e di rifiuto della dimensio- ne storica e sociale; ma a questo rifiuto sono sottointesi un dramma e un senso di colpa, e un ritorno del represso sociale (Luperini, 1981).

«Felice chi è diverso / essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune» (Penna, 1989, p. 171). L’opera di Penna influen- za poeti molto più giovani di lui, che appartengono a una fase diversa del Novecento: ad esempio Pasolini, Bellezza, Cavalli. Questo accadrà – non a caso – negli anni Settanta, quando iniziano a scrivere autori per i quali la poesia sfugge sia al binomio tradizione vs avanguardia, sia

all’impegno politico. È allora che potrà essere rivalutata una poesia la quale, neutralizzando la contraddizione in splendore, esprime l’estra- neità del desiderio alla vita eticamente organizzata e, dunque, adulta degli uomini. Questo non rende Penna un poeta arretrato rispetto agli altri. Un indizio utile per comprendere la contemporaneità della sua poesia può venire da una sua recensione a un poeta ermetico, Alfonso Gatto, che è quasi una dichiarazione di poetica. «La musica di queste liriche», si legge, «comunica però indubbiamente una sensazione di vuoto, sia pur popolato di tante fiabesche apparenze» (Penna, 1933). Siamo all’inizio degli anni Trenta, Penna non ha ancora pubblicato la prima raccolta di versi. Intanto vengono pubblicate le opere di Unga- retti, Saba, Montale.

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