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Novecentismo, antinovecentismo, linea lombarda Durante il dopoguerra, mentre nell’immaginario comune e in buona

parte della storiografia critica si consolida l’idea che l’ermetismo abbia rappresentato l’esito più alto della poesia italiana2, compaiono anche

nuove letture critiche del Novecento: alcune sono complementari a questa interpretazione, o comunque non la mettono in discussione; altre vi si oppongono in modo netto. In realtà la poesia italiana non è mai stata unidirezionale, neanche a inizio secolo: gli autori modernisti di inizio Novecento non aderiscono a una poetica comune; negli stessi anni in cui Ungaretti pubblica Sentimento del Tempo scrivono già Pa-

vese, Penna, Bertolucci, Caproni, Noventa. Se oggi riusciamo ad avere un’immagine più mossa e policentrica anche della prima parte del No- vecento, lo dobbiamo a svolte interpretative che si sono sovrapposte nel tempo. Alcune di queste risalgono al periodo immediatamente suc- cessivo alla Seconda guerra mondiale.

Undici anni dopo Lirici nuovi, Anceschi pubblica Linea lombarda: sei poeti (Magenta, 1952). In Lirici nuovi la lirica era considerata libero

fluire del canto, coincidente nei suoi esiti migliori con l’ermetismo; nel successivo Lirica del Novecento, curato insieme ad Antonielli, Anceschi

passa a una visione bipartita: esemplificando su Ungaretti e Montale, distingue opere fondate sull’uso dell’analogia e sulla poetica della pa- rola (Ungaretti e gli ermetici) da altre che hanno alla base allegorie, correlativi oggettivi e una «poetica dell’oggetto». In questo secondo gruppo recupera alcuni poeti del primo Novecento (i crepuscolari), Montale e Sereni; in continuità con questa tradizione indica una linea di poeti lombardi degli anni Cinquanta.

La linea lombarda avrà molta fortuna nell’ultima parte del secolo: quasi tutte le antologie e i libri di storia della letteratura riconoscono punti in comune in un gruppo di poeti di provenienza lombarda (per nascita, ma anche per annessione successiva), che include anche il Ti- cino e la Svizzera italiana. È una famiglia molto estesa da un punto di vista cronologico: nel 1952 Anceschi vi include Giorgio Orelli (1921- 2013), Renzo Modesti (1920-1993), Nelo Risi (1920), Roberto Rebora (1910-1992), Luciano Erba e Vittorio Sereni; successivamente vi rien-

2. «Nulla di essenziale ci sembra sia stato aggiunto finora al linguaggio poetico contemporaneo» (Anceschi, Antonielli, 1953).

trano (spesso in seguito ad autodichiarazioni) anche Bartolo Cattafi (1922-1979), Giovanni Giudici, Franco Loi (1930), Giancarlo Majo- rino (1928), Elio Pagliarani, Tiziano Rossi (1930), Giovanni Raboni; infine, negli ultimi trent’anni, Franco Buffoni (1948) e Fabio Pusterla (1957). Gli archetipi del gruppo sono considerati Parini e Manzoni; Rebora e Sereni ne diventano i modelli. Ciò che sembra identificare i poeti lombardi è, innanzitutto, la pronunciata narratività dei testi; quindi l’attenzione alle cose e al paesaggio, che viene presentato in una dimensione quotidiana e desublimata; talvolta vengono rappresentate situazioni di degrado sociale, e alla poesia è attribuita una funzione di denuncia. Secondo i suoi teorici, la linea lombarda non si serve mai della poesia come confessione privata, ed esprime una tendenza antili- rica della poesia italiana.

In realtà si tratta di un gruppo troppo eterogeneo per poter essere considerato una koinè. L’autore più importante, ad esempio, è senza

dubbio Sereni; ma è anche il più problematico. In nessun modo si può parlare per lui di tendenza antilirica (mentre si è parlato, e si parla, di incidenza della prosa) o di moralismo; e il suo carteggio con Anceschi, da poco pubblicato in volume, lascia pochi equivoci sul fatto che non si sia sentito riconosciuto dal raggruppamento dell’antologia. In una lettera dell’aprile del 1952, poco dopo la pubblicazione della raccolta3,

Sereni prende le distanze dall’operazione di Anceschi; probabilmente questo costituirà uno dei primi motivi del suo allontanamento dal cri- tico e amico di un tempo (cfr. a questo proposito Raffaeli, 2013). Nel lungo testo della lettera si legge che:

non mi sento “movimento”, né mi sembra costituire movimento o filone, pic- colo o grosso che sia, quel gruppo di nomi che formano una “linea lombarda”. È vero, tu l’hai detto, “nessuna scuola”... e non si parli nemmeno di gruppo. [...] Ma torniamo indietro d’un passo. “Disposizione lombarda”. È di ieri o di oggi o di sempre questa disposizione? Se è di ieri o di sempre non valeva la pena di precisarla ulteriormente? Di vedere cioè se la disposizione poteva in qualche modo rientrare in una nozione? Ci sono stati persino degli stranieri che hanno cercato di definire un’aria lombarda, che ci hanno aiutato a defi- nirla. C’era dunque una situazione, anche, preesistente a questi sei di ora? La scapigliatura, Clemente Rebora, Linati? Fino a che punto, costoro o altri, hanno inciso e quale era dunque la situazione preesistente? [...] “Lombardo” è rimasto un termine di comodo e di convenzione. [...] Vediamo qual è questa

qualità. Si tratta del particolare rapporto tra poesia e realtà. [...] Questo par- ticolare rapporto è proprio esclusivo, inconfondibile tanto da rendere reale una “linea lombarda”, una disposizione lombarda della lirica nuova? O questo

particolare rapporto, o “sentimento del rapporto”, tra poesia e realtà non è

per caso un fatto molto più vasto nel quale s’iscrive, del quale partecipano, ognuno nei propri modi, i sei antologizzati? (cfr. Sereni, 2013b, pp. 169-85).

L’idea di un terreno di ricerca comune lombardo, d’altra parte, è deci- siva per la formazione poetica di autori successivi (ad esempio Raboni, Pusterla, Buffoni), e costituisce un elemento di continuità anche con alcuni poeti della Neoavanguardia4. Per quanto oggi possano apparirci

evidenti alcune ambiguità di questa interpretazione, l’idea di una tra- dizione lombarda della poesia, caratterizzata da un’attenzione realisti- ca alla quotidianità umana, ha inciso sul canone di tutto il Novecento. Con il saggio Dal Pascoli ai neo-sperimentali Pasolini esordisce su “Offi-

cina”, fondata quello stesso anno insieme a Francesco Leonetti (1924) e a Roberto Roversi (1923-2012). La durata della rivista è breve: dodici nu- meri, fino al 1958 (prima serie); due numeri nel 1959 (seconda serie). In questo periodo “Officina” diventa una delle riviste più importanti per il dibattito sulla poesia. Vi collaboreranno anche Franco Fortini, Angelo Romanò, Gianni Scalia, Paolo Volponi. Se dieci o quindici anni prima sulle riviste di critica letteraria si discuteva di diverse forme di classici- smo, ora la sperimentazione di nuove soluzioni formali appare sempre più importante. Questo dibattito continuerà negli anni Sessanta5.

Nel 1952 esce Poesia dialettale del Novecento (Dell’Arco, Pasolini,

1952), una delle prime antologie di poeti dialettali. L’attenzione ai dialettali è una novità degli anni Cinquanta, che aumenta nei decenni successivi. La prima antologia di poesia italiana a dare molto spazio ai testi in dialetto è Poeti italiani del Novecento (Mengaldo, 1978). Nel

1987 verrà pubblicata Poeti dialettali del Novecento (Brevini, 1987);

diciassette anni dopo, uno dei quaderni antologici di poesia contem- poranea pubblicati periodicamente da Einaudi, Nuovi poeti italiani 5

(Loi, 2004), sarà occupato interamente da autori dialettali.

L’introduzione a Poesia dialettale del Novecento confluisce in Pas- sione e ideologia (Pasolini, 1960). I saggi di questa raccolta sostengono

4. Cfr. a questo proposito Lisa (2007).

una linea che Pasolini stesso definisce antinovecentista. L’antinove- centismo è quello di Caproni, Saba, Penna: sono autori apparentemen- te facili, addirittura ingenui; nelle loro opere sembra non esserci spazio per la riflessione, ma soltanto per la commozione o per il racconto di- messo. Pasolini si oppone a questa lettura, che considera il riflesso di una cultura critica ermetica. Dal suo punto di vista, la poesia non può ridursi a una «sublime macchina di sensazioni» (ibid.); e considera

fallimentare anche la pretesa di positivismo neorealista. Per questo cercherà una forma personale di sperimentalismo, del quale si intrave- dono le premesse già negli articoli e negli interventi di questi anni: la nuova poesia non deve riferirsi a un mondo interiore, ma ancorarsi alla speranza di redenzione collettiva di cui parla il marxismo.

4.3