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Mario Luzi, Giorgio Capron

La seconda fase della poesia di Mario Luzi inizia già nel 1952 con

Primizie del deserto (Schwarz) e continua con Onore del vero (Pozza,

1957) e Dal fondo delle campagne (Einaudi, 1965). Già in queste tre

raccolte i preziosismi formali e l’astrazione dell’ermetismo sono lon- tani. La lettura di Montale e di Eliot influenza Luzi, come già Sereni: le sue poesie ora oscillano fra richiami alla tradizione e accoglienza della concretezza del mondo contemporaneo, soprattutto quello più vicino all’autore (ad esempio la campagna toscana). «La portatrice d’acqua si bilancia / il carico sul cercine e s’avvia / passo passo per il pendio. La macchina / calata al fondo valle / ora muglia sulle rampe. [...]»: nei nuovi libri Luzi parla di un mondo concreto, identificabile, e usa la prima persona. Spesso si rappresenta come pellegrino, in uno stato di transito, «purgatoriale» (Mengaldo, 1978, p. 651); talvolta scrive poemetti allegorici.

5. L’espressione «destini generali» è del filosofo francese Charles Fourier (1772- 1837), considerato uno dei teorici del socialismo utopistico. Fortini la riprende in più punti del suo discorso saggistico (ad esempio, in Dieci inverni) e poetico. Si intitola in questo modo una plaquette del 1956 (Palermo, Sciascia), che confluisce in Una volta per sempre nel 1978.

Nel magma inaugura una terza fase. La prima edizione del libro

viene pubblicata presso Scheiwiller nel 1963; quella definitiva usci- rà per Garzanti nel 1966. Luzi intanto ha terminato Dal fondo delle campagne, non ancora pubblicato. Le novità introdotte si possono

notare a partire da alcuni versi della poesia iniziale del libro, Presso il Bisenzio:

sul moto dei pianeti per un presente eterno che non è il nostro, che non è qui né ora, volgiti e guarda il mondo come è divenuto, poni mente a che cosa questo tempo ti richiede, non la profondità, né l’ardimento,

ma la ripetizione di parole, la mimesi senza perché né come

dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine morsa dalla tarantola della vita, e basta.

Nelle poesie di Nel magma Luzi usa la prima persona (talvolta anche

il proprio nome, come nelle strofe successive di Presso il Bisenzio),

ma la pone al centro di dialoghi. Gli interlocutori sono diversi, ma si tratta sempre di persone vicine a chi parla: amici, conoscenti, una donna amata. In questa poesia compaiono fin dai primi versi quat- tro uomini («[…] Ne escono quattro / non so se visti o mai visti prima»), che interrogano la voce che dice io a proposito della sua assenza durante la guerra («Tu? Non sei dei nostri. / Non ti sei bru- ciato come noi al fuoco della lotta / quando divampava e ardevano nel rogo bene e male»). Attraverso il confronto fra personaggi Luzi mette in discussione se stesso, o meglio l’io che vent’anni prima è ri- masto in silenzio («Dunque sei muto? ») e non ha scelto quelle che ora gli appaiono come forze del bene. Se non è più possibile cambiare il passato («C’era un solo tempo per redimersi / [...] o perdersi, e fu quello»), è inevitabile vivere e scrivere in modo diverso. Le scene di Nel magma sono ambientate in un mondo quasi ostentatamente

contemporaneo: su un treno, in una clinica, in un bar, allo sportello di un ufficio, in terrazza.

Il libro del 1963 ha punti in comune con alcune poesie degli Stru- menti umani e di Stella variabile. Montale rappresenta un modello e

un termine di confronto sia per Sereni sia per Luzi; entrambi scrivono animati dall’esigenza di «far parlare le cose che esistono, che ci sono ora», come Luzi scrive a Sereni. C’è una differenza sostanziale: la voce

degli Strumenti umani non tenta mai di unire fisico e metafisico; quel-

la di Nel magma, come esplicitato dall’ultima poesia, Accordo, è sor-

retta dal cattolicesimo (lo definisce «una fede tenuta stretta» in Ma dove). Alcune poesie di Luzi sono più prosastiche di quelle di Sereni,

più disposte a toccare ed esibire punte di volgarità. In realtà, anche quando cerca di abbassarsi a un universo popolare e desublimato, Luzi non riesce a evitare l’arcaicizzazione dei personaggi che appartengo- no al mondo della campagna (Tra quattro mura; Nel caffè) o la «ripu-

gnanza» per quel mondo (Tra notte e giorno).

L’autore di Avvento notturno scrive versi inimmaginabili trent’anni

prima: «[…] le sfugge dalle labbra un suono / tra il gemito e lo schioc- co di dentiera smossa» (L’uno e l’altro); «e guardo in quell’attimo i

bicchieri / lasciati qua e là sulle mensole […]» Tuttavia non c’è mai vera partecipazione da parte di chi parla; la conclusione è appigliarsi alla fede («[…] Ma ho fiducia che l’azione / sia preghiera anch’essa pel futuro / ed espiazione del passato […]». Anche la figura femminile, che in poesie come Ménage e In terrazza sembra avere tratti più sfac-

cettati e contemporanei, complessivamente è una donna quasi angeli- cata, di cui si sottolineano spesso la luce e la grazia. In Accordi, la poesia

finale, è lei a ricordare la speranza della fede.

La tendenza alla teatralizzazione e alla dilatazione dei confini fra poe- sia e prosa caratterizza anche i libri degli anni Sessanta di Giorgio Ca- proni (1912-1990). Originario di Livorno (ma molto legato a Genova), Caproni esordisce in pieno clima ermetico. Nel 1956 tutta la sua prima produzione è pubblicata nel Passaggio d’Enea, insieme a nuove liriche.

Caproni percepisce la vita come somma di violenza e guerra, e contrap- pone a questa dimensione la leggerezza, il tono ironico o idillico dei versi. Lo stile del Passaggio d’Enea e dei successivi Il seme del piangere

(Garzanti, 1959) e Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopo- pee (Garzanti, 1966), è costruito su versi brevi o brevissimi, rime molto

frequenti, forme tradizionali come il sonetto.

Caproni partecipa alla Resistenza, e appartiene alla generazione dei poeti per i quali la Seconda guerra mondiale rappresenta un trauma; ma la sua trasposizione in poesia è molto diversa da quella di Fortini, Sereni, Luzi, Bertolucci. Nei libri di versi prevale una privatizzazione della storia: chi scrive si rifugia nella vita quotidiana, intesa come uni- ca sede possibile dell’autenticità. Da questo punto di vista ha alcuni punti in comune con Giudici e Bertolucci. Con l’autore di La capanna

indiana e Viaggio d’inverno condivide la ricerca di identità e di sen-

so in un mondo di personaggi mitici, di defunti, e di storie private e casalinghe. Il seme del piangere, ad esempio è incentrato sulla vita del-

la madre, dalla giovinezza fino all’ingresso nell’Ade. Nel Passaggio di Enea, e ancora di più nel Congedo, si intuisce che la perdita d’identità è

dovuta anche al passaggio da un’epoca all’altra, e che a questo si lega la condizione di eterno pellegrino. Il viaggio conduce «là / dove non si può tornare» (Toba). L’aspetto di finzione e di artificio dello scrivere

versi è fatto risaltare attraverso la rima, le forme vicine alla canzonetta, le strutture iterative e cicliche del discorso.

Amici, credo che sia meglio per me cominciare a tirar giù la valigia. Anche se non so bene l’ora d’arrivo, e neppure conosca quali stazioni precedano la mia, sicuri segni mi dicono,

da quanto m’è giunto all’orecchio di questi luoghi, ch’io

vi dovrò presto lasciare.

Come Giudici, Luzi, Bertolucci, e talvolta Sereni, Caproni vuole «parlare di sé senza dire io, delegando il proprio discorso a con- trofigure» (Mengaldo, 1978). Per farlo, sceglie la prosopopea: nel

Congedo del viaggiatore cerimonioso un uomo viaggia su un treno e si

rivolge a un pubblico immaginario, come se fosse su un palcoscenico. Il treno è una chiara allegoria della vita: non se ne conoscono l’evolu- zione né la fine («Anche se non so bene l’ora / d’arrivo, e neppure / conosca quali stazioni / precedano la mia»); vi si incontrano perso- ne molto diverse (il dottore, il militare, il marinaio, il sacerdote); in- combe un’angoscia per la fine e per la mancanza di un senso («Scu- sate. È una valigia pesante / anche se non contiene gran che: / tanto ch’io mi domando perché / l’ho recata, e quale / aiuto mi potrà dare / poi, quando l’avrò con me»). Il viaggio, la ricerca dell’identità e il senso di incombenza della morte saranno costanti nei suoi libri; e per parlarne ricorrerà spesso alla formula del congedo, come in questo caso. Di conseguenza il lessico e la sintassi sono sempre più vicini all’oralità, e ancora una volta c’è uno sfaldamento dei confini fra po-

esia e prosa. Ma lo stile degli ultimi libri è scandito anche da elementi letterari: le rime («sia: mia»; «cominciare: lasciare»), i versi brevi (in questo caso si tratta di settenari), le numerose inarcature; alcune parole «segnate da una tonalità solenne e distanziante» (Zublena, 2013, p. 83).

A fine anni Settanta Caproni, insieme a Penna, è l’unico poeta con- temporaneo di rilievo su cui non esista ancora uno studio monografi- co. Le cose cambiano nel decennio successivo: la fusione di leggerezza e tragicità di chi prende la parola nei testi ne facilita la rapida (ma di- scutibile) assimilazione al postmoderno, nonché la fortuna critica ne- gli anni Ottanta. Caproni diventa il poeta dell’ateologia, della poesia che allude ai grandi temi della filosofia, pur non assumendone toni e forme. Come spiega Paolo Zublena:

È stato detto, da molti e variamente, che Caproni non è un poeta-filosofo. Lui stesso, d’altronde, ha voluto definirsi, tra il serio e il faceto, “fautore dell’afilosofia”, in quanto “il suo pensiero” non si può dire “sia composto da idee ben chiare” (ov 827) [...] Effettivamente la poesia di Caproni, quella dell’ultimo Caproni in particolare [...] configura sì un orizzonte di pen- siero, ma in larga parte per mezzo di figurazioni allegoriche o di elementi pragmatici e testuali: non attraverso un lessico concettuale che esorbita fin dal principio dall’usus caproniano. [...] La (a)teologia negativa, la meon-

tologia al centro delle ultime raccolte è messa in figura dalla ripetizione tematica di un esiguo lotto di allegoremi (la partenza, il ritorno, il congedo, il borgo, il bosco, la foresta, la notte, l’alba, il lucore, il gelo, l’osteria, lo sdoppiamento, la reversibilità, la caccia) la cui alternanza in un continuo giroscopio di affermazione e negazione rappresenta la vera posta in gioco teoretica. In questo senso Caproni non è un poeta-filosofo, ma è senza dub- bio un poeta per filosofi, cioè soggetto a essere filosoficamente interpretato (Zublena, 2013, pp. 113-4).

Cambierà anche lo stile di Caproni: «poiché il poeta che aveva rag- giunto l’eccellenza tanto nella tecnica aspra e quasi petrosa del Passag- gio d’Enea che in quello dolce del Seme del piangere, a un certo punto

dismette il suo canto, e [...] disfa ora e scompagina il suo prezioso stru- mento poetico. Il nesso formale che viene qui dissolto – o, piuttosto, sospeso – Caproni, riprendendo un’espressione dantesca, lo chiama legame musaico» (Agamben, 1996, p. 23).

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