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Per definire la personalità intellettuale e letteraria di Pier Paolo Paso- lini, Fortini parla di una peculiare disponibilità a un’ininterrotta con- templazione di se stesso. Fa parte di questo atteggiamento l’estetizza- zione continua di alcuni temi, che si intrecciano nelle sue opere. Dal cinema alla poesia, passando per il romanzo, la saggistica di tipo civile e la critica letteraria, Pasolini fonde di continuo eros e morte, storia priva- ta e storia collettiva; contrappone un passato, sede di verità e di bellezza primigenia, a un presente corrotto e «schizoide». Nelle raccolte pub- blicate a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta con Garzanti,

Le ceneri di Gramsci (1957) e La religione del mio tempo (1961), questo

contrasto è particolarmente forte e rispecchia il trasferimento dell’au- tore dal Friuli a Roma. A Roma, dove rimarrà fino alla morte, sono più evidenti i mutamenti economici e sociali che lo indurranno a parlare di «mutazione antropologica» negli anni Sessanta.

Contemporaneamente alla raccolta di poemetti viene diffuso La libertà stilistica, un saggio in cui si trovano già le linee generali del suo

contributo alla storia del canone della poesia; queste tesi sono propo- ste in forma più compiuta in Passione e ideologia, pubblicato nel 1960.

In Passione e ideologia non c’è una proposta esplicita o progettuale di

poetica personale. Al tempo stesso, la poetica di Pasolini emerge in modo molto chiaro sia quando interpreta e ricostruisce la poesia del Novecento, sia quando affronta in modo diretto questioni come l’en- gagement intellettuale e lo sperimentalismo stilistico. La poesia deve

corrispondere al proprio tempo: deve avere un argomento civile, cioè politico, eventualmente epigrammatico; deve distinguersi dall’opera del novecentismo, identificata soprattutto con gli autori di Lirici nuovi.

Già nel 1943, recensendo l’antologia di Anceschi, Pasolini la considera «un esemplare molto rappresentativo – e perciò quasi perfetto in sé – del sentimento poetico odierno»; e aggiunge che

Esaminato punto per punto tale passo [qui Pasolini si riferisce all’Introduzio- ne di Anceschi], avvertiremo subito come quella storia del cuore che non può

essere attuale e neppure ha da esser risolta in diario o narrazione, ci si presen-

ti onestamente come una tra le nozioni più acquisite, risolte, e, direi, serene della nostra critica [...]. Del resto [...] non potremo che rimanere abbastanza dubitosi davanti a quella “non so che prevalenza del libero gioco dei riflessi

irrazionali e analogici”, a quella “assoluta vaghezza d’atmosfera”, ecc.; tutti at- tributi bellissimi, ma di una gracilità che quasi sconforta. A parte il fatto che, qui, l’unica poesia allusa ci sembra quella ungarettiana (e poi, in genere, qua- simodiana), ci sembra che di Ungaretti, in fondo, non vi si affermi o definisca che una sua poesia minore, o anche, se si vuole, la sua “poetica”: ma, coi “rifles- si irrazionali e analogici”, con la “vaghezza di atmosfera”, vorremmo sapere se non si usi un tradimento o almeno una tergiversione a quanto si diceva sulla

storia del cuore [...]. E forse proprio in questo “puro gusto letterario” – che in

Anceschi è ineccepibile, e, come esemplare, perfetto – è da ricercarsi quella debolezza, che ci rende un po’ scontenti e ci fa guardare amaramente queste pagine: è un’antologia che ricompone le forme della nostra odierna poesia, proprio secondo quel suo aspetto letterario e distaccato dall’umano che è uno fra i suoi aspetti più appariscenti, ma, infine, più innocui e più criticamente trascurabili; tuttavia è quello che meno avremmo voluto notare in un’antolo- gia, con scopo riassuntivo e divulgativo9.

Verso la Neoavanguardia di Sanguineti e Pagliarani, d’altronde, Paso- lini non mostra maggiore entusiasmo: già a quest’altezza cronologica si legge che «il neosperimentalismo, come abbiamo tentato di dimo- strare, tende semmai a essere epigono, non sovversivo, rispetto alla tradizione stilistica novecentesca» (Pasolini, 1960, pp. 530-2). Qual è, dunque, la via da intraprendere per reagire alla tradizione poetica italiana del “canto”?

Le soluzioni tentate sono diverse. Le ceneri di Gramsci è una rac-

colta di poemetti, nei quali è usata una versione moderna della terzina dantesca; il precedente al quale guarda Pasolini è Pascoli. Qui Pasolini raggiunge alcuni dei suoi momenti migliori: ad esempio, con Il pianto della scavatrice. Nel poemetto più celebre della raccolta c’è una strut-

tura narrativa debole (cfr. Zublena in Giovannuzzi, 2003, pp. 45-85), quella della passeggiata compiuta dal soggetto che prende la parola. L’osservazione della realtà è un punto di partenza per la riflessione gnomica, che mira a un confronto con la storia, ma rimane espressione di una soggettività molto marcata, sempre invischiata all’oggetto rap- presentato: gli operai «con gli stracci e le canottiere arsi / dal sudore» vengono idealizzati, e in loro è proiettata la possibilità di un progresso verso una società socialista. La comparsa di una «straziata […] vecchia

9. La recensione si intitola Commento a un’antologia di Lirici nuovi; viene pub- blicata su “Il Setaccio”, iii, 5, marzo 1943 (ora si legge nella sezione dedicata ai Saggi giovanili dei Saggi sulla letteratura e sull’arte, cfr. Pasolini, 1999a, pp. 40-8).

scavatrice» introduce un elemento che stona con l’immagine iniziale; il paesaggio diventa «[…] nuovo isolato, brulicante / in un ordine ch’è spento dolore». La purezza, oltre a essere nell’immagine degli operai al lavoro, è concentrata nell’autoerotismo: «[…] il più divino / senti- mento in quel basso atto umano / consumato nel sonno mattutino». Anche in questo caso c’è una continua sovrapposizione della propria soggettività con il mondo esterno e con la riflessione filosofica.

A differenza di altri poeti della sua generazione, Pasolini considera l’autobiografia ancora significativa in quanto tale, tanto da essere posta sullo stesso piano della storia pubblica (all’opposto di Fortini). Non c’è bisogno di ricorrere a interposte persone o a forme di straniamen- to del linguaggio, per dire io nei versi, perché esiste ancora una verità conoscibile, e al poeta spetta il compito di rivelarla. Per questo motivo alle poesie è affidata l’espressione diretta della sua progressiva sfiducia verso iniziali sedi di accesso alla conoscenza: la Chiesa (L’usignolo del- la chiesa cattolica) e il marxismo (La religione del mio tempo). Questa

posizione è stata spesso criticata e considerata una delle ultime forme di decadentismo o dannunzianesimo. Fortini, rimasto a lungo uno dei principali critici pasoliniani, nel 1959 parla di «volgarità di conflitti psicologici e ideologici» e di «falsità melodrammatica», a proposito delle Ceneri di Gramsci. Ma lo stesso Fortini scriverà:

È probabile che il tempo abbia già impreso a sfoltire l’opera di Pasolini. […] Là dove quasi tutti i poeti suoi contemporanei o immediati predecessori si mantenevano una via d’uscita, una via di salvezza mediante il riserbo, il silenzio o la cosiddetta «decenza» di cui Montale aveva parlato, egli aveva avvertito la necessità morale dell’indecenza, del «testimoniare lo scandalo», del trionfo dell’indegnità e dell’eccesso. Alla sua morte alcuni autori e criti- ci della «nuova avanguardia» invecchiata, che già lo avevano combattuto in vita, hanno scritto o detto che con lui era morto l’ultimo rappresentante dell’equivoca simbiosi di vita e di opera. Certo. Ma perché quella convivenza, tardoromantica e decadente, non si dia più, troppe cose devono scomparire nella struttura sociale e nell’organizzazione culturale; fra cui la stessa possibi- lità di una letteratura «d’avanguardia».

Lo sperimentalismo di Pasolini, soprattutto dalle Ceneri di Gramsci in

poi, consiste nell’esplorare vie alternative alla tradizione lirica italiana per fondere momenti narrativi, riflessione in versi e autoanalisi. I risul- tati sono eterogenei, ma il tentativo è uno dei più originali di quegli anni, e di per sé molto interessante, soprattutto se letto parallelamente

alle riflessioni di Pasolini sulla società contemporanea. Si pensi a un te- sto composito come Una disperata vitalità, poemetto pubblicato in rivi-

sta e poi confluito nell’antologia Poesie in forma di rosa (Einaudi, 1964):

[…]

come in un film di Godard:

sotto quel sole che si svenava immobile unico,

il canale del porto di Fiumicino

– una barca a motore che rientrava inosservata – i marinai napoletani coperti di cenci di lana – un incidente stradale, con poco folla intorno... come in un film di Godard – riscoperta

del romanticismo in sede

di neocapitalismo cinismo, e crudeltà [...]

Nella logica del montaggio narcisistico si stacca dal tempo, e v’inserisce Se stesso:

in immagini che nulla hanno a che fare con la noia delle ore in fila

col lento risplendere a morte del pomeriggio.

Pasolini negli anni Sessanta abbandona l’ossequio alle forme metriche tradizionali, e sperimenta soluzioni ibride. Arriviamo così alla sua ulti- ma opera, Trasumanar e organizzar. Questa raccolta viene pubblicata

ben sei anni dopo l’ultima; per uno scrittore prolifico come Pasolini, si tratta di un tempo enorme. L’attualità contemporanea continua a essere al centro dei versi, ma non c’è più alcuna intenzione di fare epos civile. Qui Pasolini tende piuttosto a un atteggiamento ironico, non molto di- stante in alcuni punti da quello di Montale in Satura (pubblicato nello

stesso anno): entrambi passano da un uso della poesia tragico, fondato su un rigore formale e su un’integrità personale, a uno desublimato; commentano il mondo contemporaneo mescolando ironia e toni con- servatori. Come si legge in La nascita di un nuovo tipo di buffone:

Io non ho più il sentimento

che mi fa avere ammirazione per me. Non considero il fondo delle mie parole come un fondo prezioso, una grazia,

Attraverso l’umorismo rientro nell’ordine. […] Che cosa comunico, se non comunico più, se, tutto sommato non ho mai comunicato altro che il piacere di essere ciò che sono?

Per Pasolini, fino alla fine, l’espressione di se stesso significa abbracciare tutta la realtà possibile, «ma anche rivelare, con ingenuità disarmata (e sot- tilmente accusatoria) la propria inadeguatezza al compito» (Siti, 2003).

La contemporaneità temporale del trasumanar non è l’organizzar? Gli intellettuali urlanti avranno certo di che indignarsi

(assistiti dall’ombra di Zdanov che non sanno nemmeno chi fu) dal mio trarre conclusioni dal colore dell’aria che si oscura su questi volti accesi nel mondo dell’azione

come sull’altra faccia del cielo.

Ma il nostro mondo è schizoide, cari amici […]

Pasolini muore in modo misterioso nel 1975. La sua poesia entra a far parte del canone molto presto. Se Le ceneri di Gramsci lo rende soprat-

tutto un poeta civile, Trasumanar e organizzar viene spesso considera-

to una parte non importante e quasi estranea al resto della sua opera (cfr. Mengaldo, 1978), come se non aggiungesse nulla alla sua poetica. In realtà la crisi di Pasolini davanti alla nuova società italiana diventa un’occasione di autoanalisi, permette di far emergere una scissione che l’intento civile e politico oscurava nei poemetti del 1956. Ne nascono poesie come Versi del testamento:

La solitudine: bisogna essere molto forti

per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe e una resistenza fuori del comune; non si deve rischiare raffreddore, influenza o mal di gola; non si devono temere raffreddori o assassini; se tocca camminare

per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera

bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è; specie d’inverno; col tronco che tira sull’erba bagnata, e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi; non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è dubbio; oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte senza doveri o limiti di qualsiasi genere.

Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri – e anche d’inverno, per le strade abbandonate al vento,

tra le strade d’immondizia contro i palazzi lontani, essi sono molti – non sono che momenti della solitudine; più caldo e vivo è il corpo gentile

che unge seme e se ne va,

più freddo e mortale è intorno il diletto deserto; è esso che riempie di gioia, come un vento miracoloso, non il sorriso innocente o la torbida prepotenza di chi poi se ne va; egli si porta dietro una giovinezza enormemente giovane; e in questo è disumano, perché non lascia tracce, o meglio, lascia una sola traccia che è sempre la stessa in tutte le stagioni.

Un ragazzo ai suoi primi amori altro non è che la fecondità del mondo.

È il mondo che così arriva con lui; appare e scompare, come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose, e tu potrai percorrere mezza città, non lo ritroverai più; l’atto è compiuto, e la sua ripetizione è un rito. Dunque la solitudine è ancora più grande se una folla intera

attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni – l’andarsene è il fuggire – e il seguente incombe sul presente come un dovere, un sacrificio da compiere alla voglia di morte. Invecchiando, però, la stanchezza comincia a farsi sentire, specie nel momento in cui è appena passata l’ora di cena

e per te non è mutato niente; allora per un soffio non urli o piangi; e ciò sarebbe enorme se non fosse appunto solo stanchezza, o forse un po’ di fame. Enorme, perché vorrebbe dire

che il tuo desiderio di solitudine non potrebbe esser più soddisfatto, e allora cosa ti aspetta, se non ciò che non è considerato solitudine è la solitudine vera, quella che non puoi accettare?

Non c’è pena o pranzo o soddisfazione del mondo, che valga una camminata senza fine per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.

7.1