• Non ci sono risultati.

Umberto Fiori, Antonella Anedda

Umberto Fiori (1949) arriva alla poesia dopo essere stato il cantante degli Stormy Six, storico gruppo rock degli anni Settanta; nel 1986

pubblica il primo libro, Case (San Marco dei Giustiniani). Segui-

ranno, tutti presso Marcos y Marcos: Esempi (1992); Chiarimenti

(1995); Parlare al muro (1996); Tutti (1998); La bella vista (2002);

infine Voi (Mondadori, 2009) e il recente Poesie (Oscar Mondadori,

2014).

Leggendo un qualsiasi libro di Fiori, si noterà subito che alla parola “io” si sostituiscono più spesso “uno”, “noi” o formule impersonali («si rimane», «si sta», «le persone», «nessuno», «la gente»). Anche quando è usata la prima persona, esprime una soggettività ridotta al minimo, quasi neutra. Un esempio è in Mostri:

Se da un tram, sulla circonvallazione, mi trovavo specchiato in una vetrina tra le mazze da golf

i sandali d’oro e il velluto, di nuovo lo vedevo: ero un tizio.

Almeno questo avrebbe dovuto unirmi ai miei vicini

riflessi là anche loro: persino un mostro, alla fine, qualcosa lo leva agli altri mostri. Invece noi non c’era un posto,

un colore, un accento, magari un vizio, che ci tenesse insieme.

Niente, nemmeno il male che a tutti parlava dentro era nostro.

Come in molti altri testi, chi scrive si trova in un ambiente urbano senza segni particolari, che potrebbe riguardare qualsiasi città. Spesso Fiori descrive se stesso davanti a case (Occhiata), talvolta in ascensore

(Giardini), o su un mezzo di trasporto (Trasporti). In Mostri chi dice

io è su un tram, si specchia in una vetrina e individua se stesso: «ero un tizio». La parola «tizio» appartiene al linguaggio parlato contem- poraneo, e normalmente indica una persona sconosciuta. Tuttavia può avere un significato dispregiativo, in quanto annulla qualsiasi indivi- dualità: è questa la condizione «mostruosa» a cui allude il titolo. Non potrebbe esserci un abbassamento dell’io più marcato o esplicito. La riduzione delle persone da individui a cose ricorre in tutte le sue poesie («Come una vite gira / nel suo filetto, io mi sono steso / nella forma di tutti / e con un occhio aperto / ho dormito», Sagoma). Non si tratta

di un destino solo privato, ma di quello di qualsiasi esistenza («Alme- no questo / avrebbe dovuto unirmi / ai miei vicini / riflessi là anche loro»), poiché nessuno sfugge all’alienazione. Nessuna condivisione o appartenenza è possibile («Invece noi non c’era un posto, / un colore, un accento, magari un vizio, / che ci tenesse insieme»). La disumanità accomuna dividendo, rendendo ancora più mostruosi: «Niente, nem- meno il male / che a tutti parlava dentro / era nostro».

«Le mie biografie sono nate dalla perdita di una biografia», si leg- ge in un’intervista a Fiori. L’io del testo è un’allegoria dell’individuo contemporaneo e non rivela nulla di soggettivo: per introdurre una del- le sue migliori raccolte, Tutti, Fiori cita in epigrafe «Mi chiamo Erik

Satie, come tutti». Nel libro seguono versi come «Mi vergognavo / di

vedono sempre tutti» (Tutti). Anche la realtà che lo circonda è privata

di qualsiasi forma di eccezionalità: le case, le strade, i prati sembrano incombere su chi osserva, ma non svelano significati («E questi pali, e questi prati, / tutti questi esempi concreti / – cosa dimostrano? Di che cosa sono prove?», Esempi). Il paesaggio si ripete sempre uguale, e

non resta che accettarne l’immobilità («I discorsi, gli odori, / la gente in giro, la luce, i viali: sembrava / tutto talmente uguale che era come / non averlo mai visto», Risveglio). Il lessico delle poesie tende all’italia-

no standard e al colloquiale, con un’aggettivazione scarsa e mai ricerca- ta; la sintassi è sempre lineare e paratattica, le strofe molto brevi. Spesso si trovano paragoni e similitudini («[…] Si sta come in ascensore / con uno, con un signore, / per un paio di piani»), avverbi e congiunzioni di luogo che indicano ricorsività («allora», «quando», «un giorno», «una volta», cfr. Afribo, 2007). Il mondo è descritto attraverso un ri- goroso minimalismo formale, e questo contribuisce a renderlo privo di qualsiasi possibilità di sublime. L’infinita tautologia è inquietante nel non significare nulla più di quello che appare («Le cose stanno / come stanno […]», Terra); il soggetto dei testi si aggira in una metropoli ano-

nima, in un ricerca fallimentare: se a volte il suo tentativo di visualizzare il «retro del mondo» (Dietro) ricorda situazioni analoghe delle poesie

di Sbarbaro, Saba, Sereni o Montale, se ne distingue poi nettamente per l’atteggiamento dell’io lirico. «Seguivo, là in fondo, i balconi / e le finestre dei condomìni, / i muri di piastrelle dove il mondo / ogni giorno si specchia, e trema. La vista / che si poteva avere di là: questa / è la mia visione» (Rientri). Nella poesia di Fiori non c’è nessuna rivela-

zione, perché questa implicherebbe un’eccezionalità del singolo, che è programmaticamente rifiutata. Per questo motivo il tragico spesso si in- terseca al comico: la solitudine è rappresentata attraverso la descrizione ironica del trovarsi in ascensore con uno sconosciuto (Giardini), oppu-

re è paragonata agli oggetti radunati per strada per un trasloco (Stare).

Antonella Anedda (1958) esordisce nel 1992 con Residenze invernali

(Crocetti). Qualche anno più tardi pubblica Notti di pace occidentale

(Donzelli, 1999); più recentemente Il catalogo della gioia (Donzelli,

2003), Dal balcone del corpo (Mondadori, 2007) e Salva con nome

(Mondadori, 2012). Anedda ha scritto anche un libro di traduzio- ni poetiche, Nomi distanti (Empiria, 1998) e due raccolte di saggi e

racconti: Cosa sono gli anni (Fazi Editore, 1997); La vita nei dettagli

A una prima lettura il soggetto dei suoi versi è molto tradiziona- le. Al centro dei testi si trovano frammenti di realtà con cui l’io en- tra in contatto, che innescano un atteggiamento di tipo allegorico. Chi scrive commenta e interpreta, alterna la riflessione su se stessa a quella sul mondo e sul linguaggio. «Volevo che una lingua anoni- ma / – la mia – / parlasse di molte morti anonime» (Notti di pace occidentale): Anedda oscilla fra il racconto di un modo soggettivo

di percepire la realtà – il proprio sguardo, dunque – e il tentativo di una scrittura che sia prestare voce alle parti sommerse del mondo. Per questo a volte le sue poesie descrivono guerre o luoghi lontani (i conflitti dei Balcani, ad esempio, o anche luoghi legati a scrittori per lei importanti). Ma la poesia di Anedda è sempre tragica, an- che quando apparentemente focalizzata su un mondo di particolari quotidiani («Tutto è quaggiù – il poco, l’immenso / che avanza verso l’alba feriale»).

L’identità personale rimane frammentaria e non costituisce mai una biografia: in questo senso, quella di Anedda non è una poesia dia- ristica. Nelle prime due raccolte compaiono alcuni dettagli che torne- ranno nei libri successivi, rendendone sempre più riconoscibile lo stile e la personalità poetica: ad esempio le atmosfere notturne e invernali (Così entra l’inverno quaranta volte vissuto come tenebra / notte in- tera che tesse un grande spazio»), l’attenzione al corpo («Vedo dal buio / come dal più radioso dei balconi. / Il corpo è la scure»), e l’insularità («a raggiungermi nel nome di una lingua sconosciuta / perché parlo da un’isola») come punti di osservazione di chi scrive. Questi dettagli sono presentati come se l’autrice osservasse se stessa dall’esterno e fosse solo un’altra componente del mondo che viene percepito («Nel vetro di un vagone / vedo me stessa buia / vedere col suo pegno»). Talvolta Anedda si serve di espressioni parenetiche rivolte a se stessa («Guida tuo malgrado nella notte di aprile, tu che tradisci te»; «Siedi davanti alla finestra / guarda, ma accetta la dispe- razione»), come accade anche nel testo iniziale della sezione In una stessa terra, in Notti di pace occidentale:

Se ho scritto è per pensiero perché ero in pensiero per la vita per gli esseri felici

stretti nell’ombra della sera

Scrivevo per la pietà del buio per ogni creatura che indietreggia con la schiena premuta a una ringhiera per l’attesa marina – senza un grido – infinita. Scrivi, dico a me stessa

e scrivo io per avanzare più sola nell’enigma perché gli occhi mi allarmano

e mio è il silenzio dei passi, mia la luce deserta – da brughiera – sulla terra del viale.

Scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco

trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli perché solo il coraggio può scavare

in alto la pazienza fino a togliere peso al peso nero del prato.

Se ho scritto è per pensiero è quasi una dichiarazione di poetica. Anedda

scrive «perché ero in pensiero per la vita», quindi «perché nulla è difeso». Questi versi riprendono la parte finale di Traducendo Brecht.

In Fortini si legge: «Scrivi, mi dico, odia / chi con dolcezza guida al niente / […] La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi» in Anedda: «Scrivi, dico a me stessa / […] Scrivi perché nulla è difeso, e la parola bosco / trema più fragile del bosco». In entrambi i casi è

usato l’imperativo: la poesia viene usata come ammonimento, per in- dicare una mancata rinuncia all’interpretazione del mondo. Chi scrive si rivolge a se stesso («[…] Fra quelli dei nemici / scrivi anche il tuo nome […]», sempre in Traducendo Brecht). Nel caso di Fortini, que-

sto atteggiamento verso il mondo è sorretto da un’ideologia politica, anche quando diventa un’utopia disperata. Lo sguardo di Anedda è del tutto postideologico, ma vi permane l’intenzione della scrittura come sguardo critico sul reale e su se stessi. Per Anedda questo vuol dire ricordare la condizione di pace apparente da cui si scrive («Anche questi sono versi di guerra / composti mentre infuria, non lontano, non vicino»; «Ciò che chiamiamo pace / ha solo il breve sollievo della tregua»), e tentare di diventare voce per gli altri. Le poesie di Notti di pace occidentale sono scritte per «morti sconosciuti» delle guerre,

dei quali spesso non rimane altro che «i cartigli dei nomi»; ma anche pensando alla «falsa tregua» del mondo occidentale («per gli esseri

felici / stretti nell’ombra della sera»). La scrittura è rimedio al logo- rio del tempo; crea memoria, riscatta dall’oblio cose e persone ormai sommerse («Nulla in realtà ci chiama / eppure ci accostiamo agli og- getti / quasi fossero gli echi di una voce / l’annuncio indifeso di altre vite»). Questi aspetti rimarranno costanti nei libri successivi, dove lo stile di Anedda subirà un’evoluzione, raccontando un soggetto anco- ra più disperso e lacerato.