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Le forme fluide Patrizia Valduga, Gabriele Frasca

Tre anni dopo Galateo in bosco, una presentazione di Giovanni

Raboni introduce quattordici sonetti sull’“Almanacco dello Spec- chio”: è lo stesso numero in cui sono pubblicati i versi di Magrelli con Prefazione di Antonio Porta. I sonetti sono opera di un’esor-

diente, Patrizia Valduga (1953), una delle poetesse più importan- ti degli ultimi trent’anni; fanno parte di Medicamenta (Guanda,

1982), la sua prima raccolta di poesie. Nello stesso decennio seguo- no La tentazione (Crocetti, 1985); Medicamenta e altri medicamen- ta (Einaudi, 1989).

La poesia di Valduga presenta molti elementi comuni alle poetiche postmoderniste: il manierismo formale, cioè l’uso di sole forme chiu- se; il continuo citazionismo; la mescolanza di stili, soprattutto aulico e comico-osceno; la tematizzazione del sesso, rappresentato spesso come pornografia e sado-masochismo. Nelle prime raccolte Valduga mette in scena se stessa, come su un palcoscenico; ma di questo perso- naggio è visibile soltanto una dimensione, dichiaratamente posticcia: «Volgarità di eventi e notte e sera… / di questo viver mio faccio la sorte» (da Altri medicamenta). L’ossessione di esibire la vita erotica

«tra piaga e piacere» è al centro del primo libro.

Vieni, entra e coglimi, saggiami provami... comprimimi discioglimi tormentami... infiammami programmami rinnovami. Accelera... rallenta... disorientami. Cuocimi bollimi addentami... covami. Poi fondimi e confondimi... spaventami... nuocimi, perdimi e trovami, giovami. Scovami... ardimi bruciami arroventami. Stringimi e allentami, calami e aumentami. Domami, sgominami e poi sgomentami... Dissociami divorami... comprovami. Legami annegami e infine annientami. Addormentami e ancora entra... riprovami. Incoronami. Eternami. Inargentami.

Spesso il sesso avviene in un contesto degradato, claustrofobico, vio- lento (in un verso è definito una «macelleria»). Non ci sono mai luoghi precisi né indicazioni geografiche, e viene sempre rispettato il principio drammaturgico dell’unità di tempo, luogo e azione (Afribo, 2007). La camera da letto rappresenta l’ambientazione più frequen- te, e ne sono messi in evidenza i tratti più squallidi. La cronologia è bloccata o dilatata in modo irreale: l’unico momento della giornata nominato sembra essere la sera o la notte. Anche il personaggio sulla scena è unico. Nonostante talvolta siano inseriti dialoghi e formule di discorso diretto («Prima di sera io ti scopo. Ah»; «Poi apri, m’intima, apri… più dentro già»), in realtà si tratta solo di un doppio dell’autri- ce: è l’immagine di un partner costruita a occhi chiusi (Raboni, 2005). L’esposizione di sé attraverso la vita erotica è veicolata sempre da for- ma chiuse: questo è l’altro aspetto che caratterizza la voce poetica fin da Medicamenta. L’unico verso delle prime raccolte è l’endecasillabo.

Tuttavia Valduga, come Frasca e Zanzotto, usa la metrica in modo inu- suale e manieristico.

La forma più frequente è il sonetto, ad esempio, cioè la più classica della tradizione italiana; ma vengono usati soprattutto metri e accenti rari. Talvolta adotta stilemi petrarcheschi, che però veicolano un lessi- co desublimato e corporale, in modo quasi parodistico. Le figure reto- riche, soprattutto quelle di ripetizione, sono sovraccaricate e abusate; creano continui effetti sonori che, scandendo il testo, ne ribadiscono l’artificiosità. Inoltre alla cornice formale si contrappone un lessico oscillante fra il turpiloquio, l’aulico, lo specialistico. Citazioni lettera- rie, dantismi, allusioni a consuetudini della lirica cortese e al petrarchi- smo del Cinquecento sono frequentissimi; ma abbondano anche ele- menti pornografici, comici, locuzioni mediche, riferimenti alla cultura pop contemporanea.

Le scelte linguistiche accentuano l’aspetto melodrammatico ed espressionistico: le parole non sono mai usate in modo unicamente referenziale. Nei versi di Valduga tutto diventa allusione all’osceno, ac- centuazione della brutalità e del repellente che circondano la sfera del sesso; oppure citazione. Innanzitutto, gli autori scelti come punti di ri- ferimento sono spesso quelli che permettono di accentuare la pulsione di morte o il gusto dell’orrido della sua poesia (Céline, Benn, Beckett, Tadeusz Kantor); oppure poeti solitamente considerati minori, che vengono contrapposti al canone ufficiale (le petrarchiste del Cinque- cento e del Seicento; Rebora in opposizione a Montale; Manzoni in

opposizione a Leopardi). Il secondo aspetto emerge da un episodio del 1988, quando dirige per un anno la rivista “Poesia”, della casa editrice Crocetti. “Poesia” è un mensile nato nel 1988 che si occupa di poesia italiana e traduzione, ancora oggi edito dalla casa editrice milanese; negli ultimi vent’anni ha ospitato spesso inediti di autori e di esordien- ti. Nei primi mesi Valduga denuncia una serie di presunti plagi lettera- ri; nel numero di settembre scrive un articolo intitolato La tentazione è un centone, nel quale il poemetto da lei stessa pubblicato tre anni prima

è accusato di contenere plagi, cioè imitazioni di trentacinque autori diversi. L’atteggiamento verso la tradizione precedente è nettamente anticlassico, e interamente repertoriale. Nella poesia di Valduga il ca- none poetico italiano è trattato «come una discarica» (Frasca, 2001). A metà decennio viene pubblicato un altro libro scritto da un poe- ta esordiente, e la struttura metrica ha di nuovo un ruolo centrale: si tratta di Rame di Gabriele Frasca (1957), stampato dalla casa editrice

milanese Corpo 10 nel 1984; un’edizione accresciuta esce nel 1999 a Genova, presso Zona. Alcune poesie di Frasca sono già comparse in un volume collettivo uscito nello stesso anno a Napoli (Beat. Riscrit- ture da King Crimson, Editoriale Aura), firmato dal gruppo K.B., che

comprende altri tre poeti: Lorenzo Durante (1960), Marcello Frixio- ne (1959), Tommaso Ottonieri (1958). K.B. è il primo di una serie di nuovi gruppi o movimenti sorti fra la metà degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta, spesso identificati come “terza ondata” delle avan- guardie (cfr. cap. 8). Ma Frasca rappresenta il punto di intersezione di esperienze e tendenze diverse: gli studi sulla poesia e sulla metrica antica (il saggio più famoso è La furia della sintassi. La sestina in Ita- lia, Bibliopolis, 1992), la traduzione e la riflessione critica sull’opera

di Samuel Beckett, gli interessi di sociologia della letteratura e della comunicazione.

Questi aspetti incidono sulla sua poesia tanto quanto l’esperienza radiofonica e movimentista iniziale, e creano uno stile molto originale. Frasca è senz’altro vicino ai tentativi del futuro Gruppo 93, tuttavia autonomo: lo confermeranno le pubblicazioni degli anni Novanta. I suoi elementi caratterizzanti sono chiari già a partire da Rame. Innan-

zitutto nei testi non esiste distinzione fra cultura alta e bassa: questo si concretizza nell’uso di forme chiuse, accompagnate però da lessico e allusioni continue alla cultura di massa contemporanea. Fra i pro- pri versi Frasca inserisce anche traduzioni e riscritture: soprattutto da

Quevedo, Beckett, Shakespeare; ma anche da Marshall McLuhan. Un

Leitmotiv dei testi è la riflessione mortuaria sullo scorrere del tempo,

sul disfacimento del corpo, sugli effetti della tecnologia: sono ripresi temi tipici del barocco, ma trasposti e riadattati a una riflessione sulla società contemporanea. Infine, è rivendicata più o meno esplicitamen- te una valenza democratica e politica della poesia.

Gli studi critici sulla sua opera e i profili antologici (Afribo, Alfa- no, Cortellessa), da un lato, e la sua stessa attività di critico, dall’altro, permettono di avere una visione d’insieme più chiara di come questi elementi dialoghino fra loro. La sperimentazione di Frasca nasce come una reazione alla poesia degli anni Settanta: sia agli esiti più tardi della terza generazione; sia a quello che definisce polemicamente «torrido poetese neo-orfico», cioè ai poeti della Parola innamorata. In realtà

l’esibizione di distanza rispetto a questi autori segnala un antagonismo piuttosto marcato, che deriva dal diverso modo di affrontare un punto di partenza comune.

Paradossalmente, il principale motivo di dibattito per i poeti ini- zialmente riuniti in K.B., plasmati dai seminari di semiotica di Um- berto Eco e lettori dell’antologia dei Novissimi, è lo stesso di quelli

che, alcuni anni più tardi, creano “Scarto minimo”: cosa fare dell’io? Come continuare a scrivere poesia contemporanea, evitando che questa diventi diarismo narcisistico ed effusivo, senza presa sulla re- altà e senza significato per gli altri? In che modo «credersi autori», e che spazio dare all’espressione di sé in versi, se non è più possibile replicare le formule di autobiografismo empirico o di biografia esi- stenziale – anche in forma teatralizzata – elaborate dalla tradizione del Novecento?

Queste domande rimangono al centro del dibattito poetico per alcuni decenni, fino a oggi. Da questo punto di vista, i libri di poe- sia pubblicati fra la fine anni Settanta e gli anni Zero rappresentano un blocco compatto. Le risposte sono molteplici, e spesso in conflitto fra loro; generano altrettante proposte poetiche. Frasca rifiuta la di- mensione egocentrica della poesia moderna, e ne valorizza una «sper- sonalizzazione intersoggettiva»: la lirica è intesa come strumento di comunicazione di massa. Gli schemi metrici e l’uso ossessivo di forme di ripetizione sono motivati in questo modo: innanzitutto aumentano la memorabilità di un contenuto testuale; creano inoltre le condizioni per una performance orale, ritenuta indispensabile. Ecco un esempio da Rame:

che piega espelle questa pulsazione che plasma suoni sulle piaghe inferte spingendo pece nelle falle aperte per cui diventa affetto ogni emozione

e quale plesso ancora predispone di percezioni che si dànno incerte la nicchia dove si compone inerte un pensiero per ogni repulsione e poi da dove affiora questa forma che viaggia voglie quanto più s’appresta a raggelare vita nella norma

come se infine ciò che si protesta vivo vivesse per calcare un’orma la testa si risponde dalla testa.

Quando in un saggio intitolato Le forme fluide Frasca analizza la poe-

sia di Valduga, di Giuliano Mesa (1957-2011) e dei poeti a lui vicini in K.B. in realtà definisce anche una poetica personale: riprendendo una definizione di Adorno sulla forma musicale elaborata da Bach, scrive che «il senso […] non consiste nel rispetto bensì nel suo tener fluide le forme tramandate» (Adorno, cit. in Frasca, 2001). Il modo per tenere vive e «aperte» le forme è la commistione con tecniche di montaggio contemporanee, come la fumettistica e la fotografia. La novità della poesia neometrica degli anni Ottanta diventa così «la propensione al- l’“invenire” forme (piuttosto che riadattarle o riabilitarle), così come a riformulare in esse le sintassi di altri media». Per questo motivo le strutture scelte sono sempre le più rare (come in Valduga), e mai le più classiche del canone italiano.

Nel caso di Rame e delle opere successive di Frasca, da qui deriva

anche un’altra riflessione, cioè quella del «soggetto all’epoca della vita come riproducibilità tecnica» (Alfano et al., 2005, p. 397): la metafo-

ra della fotografia, quella barocca degli orologi, e infine l’esperienza erotica e l’analisi del corpo, in modo non troppo diverso rispetto al cinema di quegli stessi anni (Frasca nomina più volte Kubrick; ma si potrebbe pensare anche a Cronenberg) gli permettono di ridurre l’io lirico a corpi, ombre fotografiche, immagini inautentiche. L’obiettivo della spersonalizzazione è la critica della società contemporanea e delle poetiche del postmoderno.

Questa posizione è vicina a quella di Valduga, ma anche a quella di Giuliano Mesa, che esordisce nel 1978 con Schedario (Geiger), rag-

giungendo poi risultati migliori nei libri degli anni Novanta. Frasca stesso accenna varie volte a una componente generazionale, che riguar- da tutti gli autori «del Settantasette»: sono caratterizzati da comuni riferimenti culturali (nomina tre opere pubblicate in traduzione ita- liana quell’anno: Teoria estetica di Adorno; Anti-Edipo di Deleuze e

Guattari; Archeologia del sapere di Foucault).

Tuttavia c’è una contraddizione interna, che rimarrà irrisolta in tutte le nuove avanguardie di fine secolo: innanzitutto si tratta di una pratica poetica nata con intento di critica al postmoderno, e che però presenta evidenti tratti postmodernisti; inoltre, mentre la parte teorica mette in luce alcuni aspetti interessanti e più convergenze del previsto con autori contemporanei da lui molto distanti, quella pratica non è altrettanto convincente. Nel tentativo di evasione dalla lirica in Italia la componente filosofica e teorica talvolta può essere un ostacolo, più che un supporto, in quanto rende i testi un prodotto «da laboratorio». Le poesie più riuscite di Valduga non sono quelle in cui l’ossessiva ri- petizione e la chiusura formale raggiungono il parossismo o in cui il linguaggio è più osceno e teatrale, ma quelle in cui il suo personaggio lascia che la maschera si laceri per un istante, trasmettendo la sofferen- za e il vittimismo che costituiscono l’altra faccia del narcisismo (come nell’ultimo testo di Medicamenta). I testi migliori di Mesa sono i più

tardi, nei quali è più evidente l’elemento tragico e sono meno forti la manipolazione neoavanguardista (Baldacci, 2005) e i richiami espliciti all’opera di Beckett e di Artaud. Le parti più interessanti di Frasca non sono i versi dell’Ipersestina, ma le poesie in cui l’angoscia per lo scorrere

del tempo è resa tangibile attraverso le metafore barocche degli orologi. Per la generazione del Pubblico della poesia la distinzione fra avan-

guardia e tradizione non è più un discrimine fondamentale; e, soprat- tutto, l’aderenza al primo polo non è garanzia di uno sguardo più politico o meno egocentrico. L’assunzione della propria condizione individuale come punto di partenza per esprimere uno straniamento rispetto al mondo si afferma gradualmente come il contenuto più inte- ressante della poesia contemporanea italiana.

8.1