Quando Umberto Saba (1883-1957) pubblica i primi versi a proprie spese, i poeti contemporanei più influenti in Italia sono ancora Pascoli e D’Annunzio. È il 1903, lo stesso anno in cui vengono pubblicate Le fiale di Govoni e i primi sonetti su rivista di Corazzini: sia Govoni, sia
Corazzini, sia Saba appartengono alla generazione poetica nata negli anni Ottanta. L’esordio reale arriva otto anni dopo, nel 1911, con la pubblicazione di Poesie (Casa editrice italiana); nel 1912 segue Con i miei occhi. Il mio secondo libro di versi presso le Edizioni della Voce. “La
Voce” è anche considerata «l’unica rivista possibile» per diffondere un intervento teorico intitolato Quello che resta da fare ai poeti. Man-
cano dieci anni alla prima edizione del Canzoniere, che avverrà ancora
a spese dell’autore a Trieste nel 1921. Quello che resta da fare ai poeti è
rifiutato dalla “Voce”, con una lunga lettera di Slataper a Saba, e sarà pubblicato solo postumo, nel 1959 (ma è già noto a Montale negli anni Venti). Con i miei occhi riceve scarsa attenzione critica: Serra lo liquida
come «poesia generica», Croce lo considera privo di «qualsiasi forma di elaborazione formale», gli stessi editori della “Voce” non contri- buiscono alla sua diffusione. La plaquette sarà inclusa nel Canzoniere
(con alcune varianti), dove è il nucleo di Trieste e una donna, una delle
sezioni più importanti.
Da questo primo gruppo di testi e dall’articolo del 1911 emerge già in modo chiaro cosa sia la poesia per Saba. Ai poeti resta da fare «la poesia onesta», che comporta rimanere fedeli alla rappresentazione «vera»: la sua posizione è costruita in antitesi a quella di D’Annunzio, duramente attaccato; Manzoni, invece, è apprezzato in quanto auto- re di versi spesso mediocri, ma che non dicono mai «una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione». Il punto di partenza delle poesie è la descrizione di sentimenti autentici provati dall’auto-
re, che parla in prima persona. L’ambientazione è sempre Trieste, e la città diventa a sua volta personaggio. Saba espone nei versi una forma di autenticità provata a contatto con cose, persone e animali; questo lo porta alla scoperta di passioni e pulsioni forti («Qui degli umili sento in compagnia / il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la via», Città vecchia), fra le quali l’eros è la principale. È già presente
un aspetto che sarà reso esplicito in una delle poesie più icastiche («la più perfetta» per Montale), Il Borgo: «il desiderio di immettere la mia
dentro la calda / vita di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni». Siamo molto lontani dall’astrazione ermetica. Leggere le poesie di Saba equivale a un’immersione nella concretezza della sua esistenza, nei suoi aspetti più quotidiani: la moglie è paragonata a una lunga serie di animali (A mia moglie), una situazione di sofferenza in-
dividuale è introdotta attraverso la descrizione di una capra (La capra);
le strade di Trieste sono piene di tavoli, biliardi, caffè, pozzanghere, bordelli (Caffè Tergeste, Tre vie, Città vecchia). Niente di tutto questo è
depurato o innalzato attraverso la poesia, come avviene per Ungaretti; ma a Saba sono estranee anche l’ironia di Gozzano e la percezione del mondo frammentaria ed epifanica di Montale.
La poesia, per Saba, nasce quando il contatto con la realtà innesca stati d’animo legati all’inconscio: la «brama», il piacere e il dolore, il rapporto tra madre e figlio e quello tra un uomo e la sua compagna. Sono pulsioni che trascendono Umberto Saba in quanto individuo, perché hanno a che fare con l’antropologia umana; in lui determinano una scissione permanente («O mio cuore dal nascere in due scisso / quante pene durai per uno farne!», Secondo congedo) e l’esigenza di
introspezione (vedere il mondo «con i miei occhi»). Fin dalle prime raccolte Saba esplora le contraddizioni delle relazioni umane (ad esem- pio quella con la moglie e con la madre) e la pluralità del desiderio erotico (come emerge dalla sezione intitolata Fanciulle e dalle molte
poesie dedicate a ragazzi, da Glauco a Il vecchio e il giovane). La madre
viene sempre mostrata come una donna austera (Nuovi versi alla luna, Il torrente, numerosi punti di Il piccolo Berto): è lei, e non la figura pa-
terna, a incarnare il senso del dovere e dell’ordine.
La dolcezza della maternità è attribuita, invece, alla balia slovena, alla quale è dedicata una delle prime poesie del Canzoniere (La casa della mia nutrice). Durante l’infanzia Saba si lega molto a lei, al punto da vi-
vere il rientro a casa della madre come un’azione violenta («Quando / con sé mia madre poi mi volle, accanto / mi pose, a guardia, il timore.
Vestito / più non mi vide da soldato, in visita / da noi venendo, la mia balia […]», Eroica). Anche il rapporto con la moglie Lina risente del-
la scissione originaria della figura materna: Lina è «regina, signora», «di tutte le donne la più pia» (Intermezzo a Lina); in Trieste e una donna l’amore e la devozione per lei si fondono a quelli per la città.
Tuttavia proprio la sua «santità» si scontra con l’insofferenza di Saba ai legami familiari; nella moglie è proiettata l’immagine superegotica della madre. Il conflitto con «Lina la cucitrice» occupa interamente i
Nuovi versi alla Lina: qui è «or sorella, or amante, ora nemica», fonte
di sofferenza e di senso di abbandono.
Alla fine degli anni Venti Saba diventa un paziente di Edoardo Weiss, allievo di Freud (già medico di Svevo), e legge per la prima volta testi psicoanalitici. A Weiss è dedicato Piccolo Berto (1926), nel quale
viene raccontata l’infanzia dell’autore. Il contatto con le teorie freudia- ne genera una maggiore consapevolezza delle proprie nevrosi: poiché la poesia per Saba è soprattutto autoanalisi, questa evoluzione ha delle conseguenze nei testi; tuttavia non è l’elemento che innesca la scrittura poetica. La poesia per Saba ha una funzione simile a quella che la scrit- tura ha per Italo Svevo, un altro autore del modernismo italiano6. An-
che Svevo appare arretrato a critici e autori coevi, ma entrambi affron- tano problemi centrali per l’uomo contemporaneo: la scissione dell’io, la presenza di strati profondi dell’individuo riconducibili a pulsioni erotiche e al freudiano principio di piacere. Sia per Svevo sia per Saba è fondamentale la vicinanza alla cultura tedesca e austriaca, che conduce alla lettura precoce dei testi di Nietzsche e Freud, nonché del dibatti- to critico corrispondente. La rappresentazione dell’interiorità dei loro personaggi letterari è profondamente influenzata dalla psicoanalisi; allo stesso tempo, in entrambi la ricerca di realismo psicologico e di scavo interiore precede la conoscenza di Freud e l’esperienza di una te- rapia psicoanalitica, e avviene in continuità con le rispettive opere pre- cedenti. Il romanzo più psicoanalitico di Svevo è La coscienza di Zeno
(1923), ma alcuni intuizioni di questo tipo sono già in Senilità (pubbli-
cato per la prima volta a Trieste per Wram, 1898; quindi ripubblicato nel 1929); Saba è, con le parole di Contini, «psicanalitico prima della psicanalisi». In questo senso, la sua diversità rispetto alla poesia con- temporanea si traduce, alla fine, in una sensibilità più moderna.
6. Questo paragone fra la modernità di Svevo e quella di Saba è debitore di quel- lo presente in Luperini (1981, pp. 246-7).
Il tempo della poesia di Saba è «cronologico-biografico»7: gli eventi
storici (le due guerre mondiali, ad esempio, il fascismo e le persecu- zioni razziali) rimangono sullo sfondo. Il Canzoniere vuole essere un
«romanzo personale»: è un’altra scelta in controtendenza, dal mo- mento che nei primi due decenni del Novecento il dibattito letterario si concentra su frammentismo, poème en prose e diarismo in versi (un
caso diverso è la Vita di un uomo di Ungaretti). La rivista “Primo tem-
po” dedica un numero alla poesia di Saba già nel 1923: vi si leggono i primi interventi di Debenedetti, che dedicherà molti saggi successivi a mettere in rilievo il valore e i caratteri di modernità del Canzoniere.
Anche Montale contribuisce a diffonderne una visione più moderna8;
eppure, negli anni Venti e Trenta, le sue opere sono percepite dai con- temporanei come arretrate. A metà secolo quest’idea si rafforza nelle antologie di Anceschi. Saba intanto scrive interventi polemici contro la poesia ermetica e contro il simbolismo; ripubblica il Canzoniere nel
1945, includendo nuove raccolte e varianti alle vecchie. Nel 1948 firma con uno pseudonimo la Storia e cronistoria del “Canzoniere”, dove par-
la di se stesso e della propria opera in terza persona e chiarifica aspetti che gli sembrano trascurati o travisati dalla critica; ancora una volta gli preme soprattutto sottolinearne l’autenticità, cioè la corrispondenza fra opera e vita vissuta.
In un passo della Storia e cronistoria si legge che «essere nato a Trie-
ste nel 1883 era come essere nati in Italia nel 1850»: Saba stesso, dun- que, suggerisce una diversità delle sue opere rispetto alla poesia con- temporanea. Sembrano confermarlo anche le scelte formali: alla lingua depurata, al lessico tendente all’astrazione e alle immagini barocche di Cardarelli, Gatto, Ungaretti e Luzi, contrappone un linguaggio raso- terra, concreto e spesso elementare. La metrica (le prime raccolte sono soprattutto in endecasillabi e settenari), le strutture retoriche e le rime sono invece altisonanti, desuete, tratte dalla tradizione ottocentesca («del divino per me milleottocento» si legge in La vetrina) e apparen-
temente ignare dell’evoluzione nella poesia dei primi decenni del No- vecento. Gli aulicismi più forti vengono soppressi nella seconda ver- sione del Canzoniere, dove è evidente l’influsso stilistico di Montale,
7. Cfr. uno dei saggi più importanti di Fortini sulla poesia, Le poesie italiane di questi anni, ora in Fortini (2003, pp. 548-606).
8. Montale parla del «classicismo sui generis e quasi paradossale» di Saba, cfr. Umberto Saba, ora in Montale (1996a, p. 118).
da un lato, e di Ungaretti, dall’altro. Ma l’alterità del modo in cui Saba intende la poesia rimane. I saggi e le antologie del secondo Novecento che propugnano un canone opposto a quello sentito come dominante ricorrono spesso al Canzoniere, in quanto archetipo di un’altra pos-
sibile genealogia “antinovecentesca”: Pasolini, ad esempio, in Passione e ideologia parla di anacronismo e di inadattabilità alla poetica della
poesia pura come punti di forza dell’opera. Anche quando lo scopo è la rivalutazione da un punto di vista critico, la sua poesia è sempre descritta come alternativa alla tradizione principale del secolo.
In realtà questa contrapposizione fra Saba e i suoi contemporanei può essere fuorviante. All’inizio del Novecento a Trieste l’italiano è effettivamente una lingua letteraria più che parlata; ma le prose di- mostrano una sua conoscenza degli usi contemporanei della lingua. Le forme auliche dei versi, allora, sono da considerare piuttosto scel- te stilistiche consapevoli, che fanno da contrappeso sia al pathos e al sentimentalismo dei testi, sia al loro lessico semplice e dimesso. Il me- lodramma italiano costituisce realmente un punto di riferimento, che condiziona la struttura melica delle poesie, come ormai è noto grazie agli studi di Debenedetti. L’attenzione ai poeti prenovecenteschi (Fo- scolo, Leopardi, Parini; ma anche alcuni autori minori dell’Ottocento) porta a scelte nella sintassi e nel metro dei versi che ne controbilancia- no il lessico quotidiano e gli elementi di parlato. La tradizione italiana del Settecento e dell’Ottocento è affiancata da riferimenti culturali più moderni, ma non italiani: oltre alla psicoanalisi, ad esempio, è fonda- mentale la conoscenza della poesia di Heinrich Heine (1797-1856) e della filosofia di Friedrich Nietzsche (1844-1900).
C’è poi un altro motivo per cui non si può parlare di arretratezza: se molta poesia modernista rielabora la situazione postromantica del dissidio fra individuo e mondo naturale, che diventa il mondo storiciz- zato e violento della società e della storia, Saba non fa eccezione. La sua poesia nasce da una lacerazione di natura psicologica, come si è visto, ma coinvolge tutto il rapporto col mondo, che è sempre ambivalente. L’aspetto più noto del Canzoniere (sia perché è il più segnalato nei
commenti, sia perché viene molto imitato da poeti successivi) è quello dell’adesione alla «calda vita» e della catarsi attraverso l’immersio- ne nel reale. Tuttavia è costante anche un atteggiamento opposto, ri- conducibile a una ricerca di solitudine. La cupezza e l’autoesclusione spesso sono presenti in quelle stesse poesie in cui si aspira all’annichi- limento di sé nel mondo e negli altri: nel Borgo il desiderio di «vivere
la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni» è direttamente collegato a quello «[…] d’uscire / di me stesso», che è un «vago sospiro». Quando descrive Trieste, spesso Saba si rappresenta in una posizione appartata, quasi di volontario isolamento: in un bar «[…] dove un dì celavo / la mia faccia […]» (Caffè Tergeste); in «[…]
un’oscura via di città vecchia» (Città vecchia); su «[…] un’erta, / […]
deserta, / chiusa da un muricciolo: / un cantuccio in cui solo / siedo […]» (Trieste). Il dolore è «eterno / ha una voce e non varia», tanto
da costituire il primo elemento di similitudine e di contatto fra sé e il mondo in La capra. «A un culmine del mio dolore umano» è il modo
in cui si presenta l’io lirico di In riva al mare. In questo caso l’isolamen-
to («solo seduto»), il ritrovamento di un oggetto in cui è proiettato lo stato d’animo («un coccio ho rinvenuto, / un bel coccio marrone […] / E fino a questo un uomo / può assomigliarsi, angosciosamente»), infine l’evento improvviso («Passò una barca con la vela gialla, / che di giallo tingeva il mare sotto; / e il silenzio era estremo.») ricordano situazioni simili di Sbarbaro e di Montale. La conclusione di Saba è molto diversa: il desiderio della morte è accompagnato da quello della vergogna «di non averla ancora unica eletta», e di amare ancora di più la vita. Amore per la vita, senso imminente della morte e permanenza del dolore sono accostati anche in Ulisse («[…] Oggi il mio regno /
è quella terra di nessuno. Il porto / accende ad altri i suoi lumi; me al largo / sospinge ancora il non domato spirito, / e della vita il doloroso amore»). Infine, la morte e il dolore sono più volte accostati all’erotismo. È quanto accade in Sovrumana dolcezza, una delle poesie
più belle del Canzoniere:
Sovrumana dolcezza
io so, che ti farà i begli occhi chiudere come la morte.
Se tutti i succhi della primavera Fossero entrati nel mio vecchio tronco, per farlo rifiorire anche una volta, non tutto il bene sentirei che sento solo a guardarti, ad aver te vicina, a seguire ogni tuo gesto, ogni modo tuo di essere, ogni tuo piccolo atto. E se vicina non t’ho, se a te in alta solitudine penso, più infuocato
serpeggia nelle mie vene il pensiero della carne, il presagio
dell’amara dolcezza,
che so che ti farà i begli occhi chiudere come la morte.