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Esordi poetici fra il 1946 e il

La prima raccolta di poesie di Vittorio Sereni (1913-1983), Frontiera

(Edizioni di “Corrente”, 1941), viene pubblicata mentre l’autore è in guerra. Il titolo si riferisce al confine reale fra l’Italia fascista e l’Europa liberale6; ma anche a uno invisibile fra la realtà di chi scrive e il mondo

esterno. Successivamente Sereni viene catturato in Nord Africa; la pri- gionia è rievocata in Diario d’Algeria (Vallecchi, 1947). Il Diario non

ha toni commemorativi o eroici (come avviene nelle contemporanee opere di Quasimodo), e nemmeno cerca un senso o un motivo di fra- tellanza nella guerra (era il caso di Ungaretti). La frattura creata dalla guerra, per Sereni, si traduce in senso di estraneità alla vita. Un esem- pio è Non sa più nulla, è alto sulle ali.

Non sa più nulla, è alto sulle ali

il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.

6. Cfr. Intervista a V. S. di Paola Lucarini, in “Firme nostre”, citata nell’apparato di Isella all’edizione per i Meridiani delle poesie di Sereni: «Il rapporto col mio pa- ese è reso vitale dai ricordi e da una continua interrogazione che porta a scavare più a fondo la realtà dell’origine che affonda radici in questo angolo della Lombardia, passato a suo tempo sotto il nome di Frontiera, dal titolo della mia prima raccolta di poesie. Quando parlo di frontiera non penso soltanto a una barriera geografica, ma alla chiusura dell’Italia rispetto all’Europa, la parte del mondo che ci era più vicina e che ci sembrava tanto lontana» (Sereni, 1995, p. 295).

Per questo qualcuno stanotte mi toccava la spalla mormorando di pregar per l’Europa

mentre la Nuova Armada si presentava alla costa di Francia. Ho risposto nel sonno: – È il vento, il vento che fa musiche bizzarre. Ma se tu fossi davvero

il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna prega tu se lo puoi, io sono morto

alla guerra e alla pace. Questa è la musica ora:

delle tende che sbattono sui pali. Non è musica d’angeli, è la mia sola musica e mi basta. –

Campo Ospedale 127, giugno 1944.

Il primo e l’ultimo verso danno un’indicazione precisa su tempo e luogo della poesia: Sereni si trova nel campo algerino, e qui viene a sapere dello sbarco americano in Normandia (la «Nuova Armada»). All’interno del Diario emerge un aspetto rimasto centrale anche nei

libri successivi: la prigionia è vissuta come uno stato di sospensione dalla realtà, che genera un forte senso di colpa e di rimpianto. Sereni è in cattività, ma si tratta quasi di una libertà vigilata, dunque di una carcerazione blanda; intanto in Italia inizia la Resistenza, e non ha la possibilità di decidere se prendervi parte o meno. Per il resto della sua vita avvertirà la mancata scelta sia come un’esclusione sia come una col- pa irrecuperabile7. Nelle poesie il tempo si blocca, diventa mortuario.

E così si legge che «non sanno d’essere morti / i morti come noi» (Se- reni, 1995, p. 73); «[…] E d’oblio / solo un’azzurra vena abbandona / tra due epoche morte dentro di noi» (ivi, p. 78). Ciò che accade è come vissuto in sogno («Ho risposto nel sonno»). In questo caso la storia, lo sbarco dei soldati sembrano non riguardare e non scuotere in nessun modo chi scrive. L’avvento americano in Europa è annunciato da qualcuno che è con lui nel campo («Per questo qualcuno stanotte / mi toccava la spalla mormorando»). Proviene dall’esterno, e rimane al

7. Mengaldo (1996) parlerà di una situazione purgatoriale che fa seguito alla pri- gionia.

di fuori della sua realtà, come un’illusione che non salverà da nulla: lo «sbattito d’ali» è soltanto il vento. Se anche fosse l’eco di qualcos’al- tro, l’unica risposta possibile dell’io è confermare la propria estraneità («Io sono morto alla guerra e alla pace»).

La voce di Diario d’Algeria è continuamente interrotta, quasi bal-

bettante (come si nota anche nella sintassi e nell’uso costante di forme di reticenza); e spesso l’autore contrappone la felicità della giovinez- za al deserto del presente. Tuttavia per Sereni non c’è consolazione attraverso la poesia: la «musica d’angeli» è allontanata anche da questo punto di vista. L’unica possibile reazione allo spaesamento del sopravvissuto, nel dopoguerra, sarà ritornare mentalmente negli stessi luoghi.

I saggi di Franco Fortini (1917-1994) contribuiscono a definire il ca- none della letteratura del Novecento. Fortini è ancora oggi molto più noto come saggista, intellettuale, critico e storico della letteratura, piuttosto che come poeta: la sua scrittura in prosa ha già avuto una canonizzazione simbolica nel 2003 con un volume nella collana “I Meridiani” di Mondadori. Al contrario, i libri di versi sono molto dif- ficili da reperire; un’edizione completa di tutte le poesie è uscita solo di recente (novembre 2014) a cura di Luca Lenzini, per Mondadori. Nonostante la minore attenzione editoriale, i suoi libri di poesia sono altrettanto importanti dei saggi critici. La poesia di Fortini cambia molto nel tempo. Si possono individuare tre frasi: da un lato le prime opere, cioè Foglio di via (Einaudi, 1946) e Poesia ed errore (Feltrinelli,

1959); quindi le due raccolte Una volta per sempre (Mondadori, 1963), Questo muro (Mondadori, 1973) e la silloge complessiva Una volta per sempre. Poesie 1938-1975 (Einaudi, 1978); infine le ultime due raccolte, Paesaggio con serpente (Einaudi, 1984) e Composita solvantur (Einau-

di, 1994).

La formazione letteraria di Fortini avviene a Firenze nel corso degli anni Trenta; il poeta italiano che più rappresenta un punto di confronto per lui, in questo periodo, è Noventa. Intanto legge auto- ri mitteleuropei, dai quali sarà profondamente influenzato (Barthes, Dostoevskij, Kafka; in un secondo momento la scuola di Francoforte; Lukács, Benjamin, Brecht). Dopo la Resistenza si stabilisce a Milano, dove diventa redattore del “Politecnico” e dell’“Avanti!”; lavora come funzionario della Olivetti, e inizia una prolifica attività di traduttore. Nel 1946 pubblica il primo libro, Foglio di via. Qui sono già presen-

ti aspetti che ne identificheranno lo stile: l’andamento raziocinante e allegorico dei versi; l’idea di poesia come coazione e contraddizione perenne, in quanto linguaggio del potere; la raffigurazione dell’atto del poeta come «veglia» (ad esempio, in Di Maiano). Già a partire

dalle prima opere, nei suoi testi è presente uno degli elementi più in- teressanti e originali della poesia contemporanea: chi prende la parola mostra se stesso per condurre una riflessione, che consiste sempre in un confronto del singolo con la storia. Un esempio di questo tipo di po- stura dell’io è un testo di Poesia ed errore, intitolato Altra arte poetica:

E io che scrivo

so ch’è un senso diverso che può darsi all’identico

so che qui ferma dentro il verso resta la parola che senti o leggi

e insieme vola via

dove tu non sei più, dove neppure pensi di poter giungere, cominciano

altre montagne, invece, pianure ansiose, fiumi.

Come Fortini, anche Pier Paolo Pasolini (1922-1975) ha un doppio ruolo nella storia della poesia del Novecento. Il suo esordio da poeta avviene nel 1942: ha appena vent’anni, e pubblica Poesie a Casarsa (Li-

breria Antiquaria Mario Landi), che entrerà a far parte di La meglio gioventù (Sansoni, 1954), con cui vince il premio Viareggio. I due libri

sono scritti in friulano, e incontrano interesse critico molto presto (ad esempio, da parte di Contini, che Pasolini ha conosciuto seguendone i corsi di filologia romanza a Bologna). Il dialetto è scelto in quanto lingua materna e “vergine”: sia il rapporto edipico con la madre sia la rievocazione del Friuli come luogo arcaico, sede di una purezza origi- naria, saranno ricorrenti in tutta l’opera di Pasolini. Al mondo conta- dino sono associati innocenza, giovinezza e passato; a un polo opposto si trovano il presente, il mondo industriale e il peccato. Nei primi anni Cinquanta inizia la sua riflessione sulle trasformazioni della società italiana all’inizio del boom economico: «Vivo nel non valore / del tramontato dopoguerra» scrive già nel 1954, nel poemetto Le ceneri di Gramsci, pubblicato poi nel 1957.

Negli anni Quaranta anche Andrea Zanzotto (1921-2011), dopo aver militato nella Resistenza e un periodo di esilio in Svizzera, scrive le

prime poesie. Dietro il paesaggio (Mondadori, 1951) viene composto

fra il 1940 e il 1948. La prima raccolta lo fa sembrare quasi un epigo- no dell’ermetismo: la lingua è depurata, il paesaggio idillico, distante da chi parla. Zanzotto sembra ispirarsi alla “vaghezza” linguistica di Leopardi e Ungaretti («Ho raccolto la foglia di colore / e la ciliegia dimenticata / sul colle meno visibile», Declivio su Lorna). I primi te-

sti mostrano anche un’influenza del simbolismo europeo (Baudelaire, Rimbaud, Hölderlin) e del surrealismo (Lorca, Éluard). La Seconda guerra mondiale è evocata dalla sua assenza, dalla rimozione dell’ele- mento storico e umano: Dietro il paesaggio parla anche di un trauma le-

gato alla guerra, nonostante lo faccia in modo molto diverso da Diario d’Algeria o da La meglio gioventù. La soluzione provvisoria di Zanzotto

è l’annullamento della soggettività della voce, che può parlare soltanto per vie traverse: attraverso – anzi, dietro – il paesaggio naturale. Nel 1951 esordisce un giovane autore lombardo, Luciano Erba (1922- 2010), con Linea K (Guanda, 1951); nello stesso anno, Attilio Berto-

lucci pubblica il suo terzo libro, La capanna indiana (Sansoni). Ma la

reale maturità poetica di Bertolucci avverrà solo con Viaggio d’inverno,

nel 1971. Il periodo compreso fra il 1939 e il 1956 si chiude con altri due libri d’esordio: Fiorì d’improvviso di Giovanni Giudici (Edizioni

del Canzoniere, 1953) e Cronache e altre poesie (Schwarz, 1954) di Elio

5.1