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storiografie letterarie, non soltanto a proposito della poesia. Il 1956 se- gna l’inizio di una nuova fase nella ricostruzione storica dell’antologia di Mengaldo, molto più che il 1945 (cfr. l’Introduzione a Mengaldo,

1978, soprattutto pp. lvii-lix). Fortini non dà a questa fase una fun- zione strutturante all’interno della propria antologia, nella quale rima- ne centrale, piuttosto, la cesura causata dalla guerra; tuttavia nei suoi saggi parla di «mutamenti importanti, volontari o no», e li colloca proprio nella seconda metà degli anni Cinquanta. Le novità principali riguardano soprattutto i rapporti tra società letteraria e istituzioni cul- turali, da un lato, e quelli tra avanguardia, tradizione e sperimentazio- ne, dall’altro (cfr. Le poesie italiane di questi anni, 1959, ora in Fortini,

2003, pp. 548-606). Gli anni Sessanta sono un momento di cambia- mento per quasi tutte le storiografie letterarie (cfr. ad esempio Lupe- rini, 1981; Curi, 1999). Anche Raboni, che assume come momento di cambiamento il dopoguerra, come si è già visto, in realtà non dà spazio tanto alla poesia cosiddetta neorealista o postermetica (cioè alle opere pubblicate fra il 1945 e il 1956), quanto all’opera di Pasolini, Fortini, Sereni, Giudici, Bertolucci, Neri, Zanzotto, e ai Novissimi (gli autori di cui si parlerà in questo capitolo e nel prossimo). Altrove scrive che «negli ultimi anni, dopo la confusione in qualche modo feconda dell’immediato dopoguerra e la vera e propria crisi apertasi subito dopo quel periodo, anzi ancora all’interno di esso, e poi rimasta sola a testimoniare di sé e del bisogno della poesia sino al 1956, al 1957 (è difficile precisare), credo, dicevo, che si stia delineando ormai con una notevole chiarezza un movimento di polarizzazione di divisione del campo in due settori fluidi ma abbastanza caratterizzati» (cfr.

Novissimi, la provocazione centrista, ora in Raboni, 2005, pp. 336-43);

nelle pagine successive identifica il cambiamento principale in un nuovo e più problematico rapporto fra autore, linguaggio e oggetti; quindi argomenta l’attualità delle sperimentazioni sia dei Novissimi, sia di Pasolini, sia di Luzi, Sereni, Caproni e Bertolucci. In tempi più recenti, un saggio molto accurato e interamente dedicato alla poesia degli anni Sessanta è Posture dell’io di Damiano Frasca (Felici, 2014):

qui il 1956 è punto di inizio del lavoro critico proprio in quanto mo- mento di svolta per la poesia italiana. Gli anni Sessanta vengono con- siderati uno spartiacque (soprattutto per l’opera delle avanguardie) anche in Lorenzini (1999), Segre, Ossola (2003), e in alcune anto- logie recenti (cfr. ad esempio Piccini, 2005 e Testa, 2005). Queste ultime antologie leggono la fase successiva al 1960 nel segno di un

declino. In realtà i cambiamenti avvengono sia in continuità con il passato, sia in reazione a esso; e – come si vedrà – non determinano alcun esaurimento.

In questo periodo non ci sono un movimento né una koinè poeti-

ca dominanti: nessuna etichetta o categoria critica può far convivere

Laborintus di Sanguineti, Nel magma (Garzanti, 1963) di Luzi, Gli strumenti umani di Sereni e La beltà (Mondadori, 1968) di Zanzotto.

Tuttavia si possono notare tre fenomeni di carattere generale.

Il primo è che la poesia degli anni Sessanta tende a essere, con le parole di Montale, molto più «inclusiva»2 rispetto al passato. Non si

tratta solo di un allargamento linguistico, che pure è presente; cambia- no anche il tipo di situazione alla quale si dà spazio e la postura dell’io nei testi. Se per più di metà secolo la poesia è stata considerata «storia del cuore dell’uomo» e, in alcuni casi, «anticipo di verità» (Anceschi, 1943, p. 11), parola che si proponeva di mettere in contatto «con ciò che è più distante» (Ungaretti), ora queste idee appaiono definitiva- mente superate, insufficienti a definire il tipo di soggettività espressa nei versi di questi anni. Le esperienze storiche e i cambiamenti sia so- ciali sia culturali dell’Italia postbellica, nonché – per alcuni autori – la lettura delle opere centrali di Montale (Le occasioni nel 1939, La bufera e altro nel 1956) rendono persino quella lacerazione e quella solitudi-

ne interiore descritta dal modernismo non replicabile sulla pagina nel modo di un tempo. Nessuno dei poeti nati negli anni Dieci e Venti del Novecento può più «credere, evidentemente, alla portata automatica- mente universale della sua biografia nel senso della “bella biografia” di ungarettiana memoria; ma, per quanto non lo esibisca mai, crede anco- ra [...], problematicamente, alla poesia». Mengaldo usa queste parole per descrivere la situazione psicologica di Sereni nel dopoguerra, ma possono essere estese anche agli altri autori che verranno considerati in questo capitolo e nel successivo.

Molti, fra quelli che vivono in prima persona o assistono a questi cambiamenti, parlano di un avvicinamento tra poesia e prosa3. Ma in

2. Montale usa questa definizione in un celebre articolo pubblicato sul “Corriere del- la Sera” il 21 giugno 1964, intitolato Poesia inclusiva. Successivamente confluisce in Sulla poesia (a cura di G. Zampa, Mondadori, 1976); ora si legge in Montale (1996a, pp. 2631-3).

3. Ad esempio Pasolini in La libertà stilistica del 1957, Fortini in Le poesie italiane di questi anni del 1959, Montale in Poesia inclusiva del 1964; ma sarà anche una que- stione centrale in Berardinelli (1994) e Testa (1999).

che senso «la lingua che era stata portata tutta al livello della poesia, tende a essere abbassata tutta al livello della prosa, ossia del razionale, del logico, dello storico» (Pasolini, 2003, p. 1235)?

Ogni volta che la soffitta, i quadri e «le buone cose di pessimo gusto»4

compaiono nelle poesie di Gozzano, è sempre come se fossero messe tra virgolette, non hanno mai un valore neutro; analogamente, la città mostrata da Palazzeschi appare concreta, ma deformata. Le ambien- tazioni dei libri di Sereni, Giudici, Luzi, Majorino, Pagliarani, inve- ce, spesso coinvolgono uffici, treni, periferie, senza pose caricaturali, e riguardano individui che hanno esistenze del tutto ordinarie. Dopo la Seconda guerra mondiale a molti poeti italiani è comune l’ansia di non rendere i propri libri un riflesso depurato del mondo in cui vivono. La città di Milano, che fa da sfondo alle poesie di Majorino, Giudici e Pagliarani, non è meno realistica di quella descritta nei romanzi coevi. Un’antologia degli anni Settanta dedicata alle raccolte del ventennio precedente si intitolerà Poesie e realtà ’45-’75 (Majorino, 1977): di fat-

to, l’antologia di Majorino testimonia un’esigenza diffusa e trasversale ai libri di poesie di quegli anni.

Il secondo cambiamento riguarda la voce dei testi: se il risultato più evidente del modernismo italiano è l’espressione di una scissione interiore, negli anni Sessanta questa scissione diventa concreta, in al- cuni casi determina la forma delle poesie. Si parla, infatti, di una ri- emersione della tendenza modernista5. Ma cosa cambia all’interno

del testo, in concreto? Nelle poesie di questi anni, innanzitutto, sono molto frequenti gli inserti dialogici (Sereni, Luzi) e teatrali (Caproni, Giudici); talvolta il montaggio delle scene è più simile a quello di un film che non a quello di una lirica (Pagliarani). Quando viene usata la prima persona, è ormai irriconoscibile, poiché si trova in mezzo a frammenti del mondo fisico e di quello inconscio (Sanguineti defini- sce Laborintus un’opera junghiana, mentre La beltà di Zanzotto è «un

poema lacaniano-junghiano»; ma si pensi anche a Variazioni belliche

di Rosselli). La riflessione sulla ripetizione dell’esistenza nelle poesie di Sbarbaro e di Montale avviene come una rivelazione improvvisa e solitaria, ed è comunicata sempre usando il pronome “io”; la tautologia del vivere negli Strumenti umani di Sereni può essere espressa usando

4. Cfr. L’amica di nonna speranza (Gozzano, 1980, p. 183). 5. Cfr. cap. 1.

più voci (Il muro; Intervista a un suicida; Il piatto piange). Infine, per

alcuni di questi poeti non è più possibile parlare del mondo senza una decomposizione della forma. Si tratta degli autori affrontati in questo capitolo.

5.2

I Novissimi

Novissimi. Poesie per gli anni ’60 viene pubblicato nel 1961, e rappre-

senta l’antologia-manifesto della Neoavanguardia. Vi sono inclusi testi di Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani (1924-2007), Elio Paglia- rani, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti; due anni dopo, questi au- tori saranno a Palermo per il convegno che dà vita al Gruppo 63. A pubblicare i Novissimi è Rusconi e Paolazzi, la stessa casa editrice che

in quegli anni diffonde i saggi di Nathalie Sarraute (1900-1999) e Alain Robbe-Grillet (1922-2008), e che stampa “Il Verri”, diretto da Anceschi. Balestrini, Giuliani, Pagliarani, Porta e Sanguineti sono tutti redattori del “Verri”, che diventa la rivista di riferimento della Neoavanguardia; Anceschi è fra i primi sostenitori dell’antologia di Giuliani.

Nell’Introduzione Giuliani chiarisce un punto fondamentale: la

poesia che per Luzi, Giudici, Caproni, Fortini e Sereni è ancora un mo- dello, in quanto permette di conciliare esperienza reale e «memoria d’assoluto» (Sereni, 1996, pp. 59-60), per i Novissimi è ormai soltanto

un passato dal quale è necessario prendere le distanze:

Quando lessi i Lirici nuovi di Luciano Anceschi, gran parte di quella poesia

mi parve tanto eccitante che potei collegarla al Rimbaud letto fortuno- samente tra ginnasio e liceo, e rimasto irrelato in una specie di memoria tropicale. I «nuovi» erano fatti apposta per piacere a vent’anni: preziosi, ariosi, antieloquenti, pudicamente patetici, sembravano vivere una miste- riosa e intensa vita privata in un mondo tutto emblematico e sensitivo. For- se proprio per queste virtù, dopo appena qualche tempo il loro linguaggio imprigionava tutti i nostri slanci e non riusciva a contenere ciò che per noi stava diventando l’esperienza. […] Finiti i tempi del benessere stilistico,

nati (è opportuno ricordarlo) all’epoca del liberty, l’essere contemporanei è divenuto più difficile e, sotto molti aspetti, più appassionante (Giuliani, 1965, p. 17).

Giuliani fa riferimento a Lirici nuovi, quella stessa raccolta in cui si

leggono poesie tratte dal Diario d’Algeria e da Frontiera, oltre che dalle Occasioni. Certo, tra la recensione entusiasta di Sereni a Montale e i Novissimi sono trascorsi vent’anni; ma si è verificata una frattura più

forte di quella indotta da un cambiamento generazionale. La tradizio- ne italiana – schiacciata sull’ermetismo – e il suo repertorio metrico e stilistico devono essere distrutti; tutt’al più se ne può fare un uso parodico o manieristico: questi due princìpi saranno alla base di molta poesia dei decenni successivi.

Mentre considerano necessaria la rottura con la tradizione, i poeti del Gruppo 63 avvertono come contemporanei e decisivi per la pro- pria poetica i dibattiti in campo filosofico, linguistico e psicoanaliti- co del periodo 1961-67 (da Heidegger a Lacan, dallo strutturalismo e dalla semiologia francese al formalismo russo). La Neoavanguardia nasce con obiettivi molto ambiziosi: il linguaggio deve essere sovver- tito, affinché la poesia riveli una visione «schizomorfa» (Giuliani, 1965, p. 19) della realtà. La lingua, dunque, non è solo un mezzo co- municativo, ma un soggetto autonomo nel testo. Evidenziare questo aspetto dovrebbe servire a sottrarlo all’alienazione e all’ideologia del mondo contemporaneo, ormai introiettate nella figuralità media della poesia. La poesia «deve essere mimesi critica della schizofrenia universale» (ibid.).

Molte dichiarazioni teoriche o programmatiche del Gruppo 63 sono costruite in reazione alla poesia della tradizione italiana e ai suoi epigoni, oppure allo sperimentalismo di “Officina”. Se Pasolini liqui- da in breve Laborintus, e considera Sanguineti e i poeti del Gruppo

63 soltanto epigoni, ad esempio, nella seconda edizione dei Novissimi

del 1965, sarà Sanguineti a prendere come bersaglio Pasolini, alluden- do a una poesia neocrepuscolare. Il Gruppo 63 vuole mettere in crisi il sistema letterario italiano, ma senza produrre una nuova ideologia: rivendica una dimensione di novità, di progresso, e di antistituziona- lità. L’avanguardia deve diventare, finito il suo compito, «un’arte da museo» (Sanguineti, in Giuliani, 1965, p. 203). Di fatto, riesce a intro- durre un elemento di problematicità nell’uso del codice formale della poesia. Dove il futurismo ha raggiunto soltanto un effetto superficiale, la Neoavanguardia ha un impatto di rottura e di svecchiamento mag- giore. Ciò che non riesce a evitare, tuttavia, è proprio l’istituzione di una nuova ideologia.

5.3