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La cessione di invenzioni accademiche

2. GLI ACCORDI DEL TRASFERIMENTO TECNOLOGICO NELLA RICERCA

2.2. G LI ACCORDI DEL T RASFERIMENTO T ECNOLOGICO NELLA RICERCA UNIVERSITARIA ( IN

2.2.1. La cessione di invenzioni accademiche

quadro normativo specifico all’interno del quale gli operatori si muovono nel trasferire o acquisire tecnologia è sempre più composito e dinamico.

In ogni caso, per quanto tale processo possa apparire complesso (e per certi versi insidioso), esso – se affrontato con la dovuta prudenza e perizia – rappresenta di certo un fattore fondamentale per garantire la competitività di moltissime imprese: è per tale ragione che la scelta della tipologia contrattuale corretta per perseguire gli scopi che si cercano con il trasferimento tecnologico è oggi così importante nella prassi commerciale. Questo ultimo fattore, in particolare, ha spinto gli operatori economici a confrontarsi con la problematica rappresentata dalla necessità di proteggere, acquisire e sfruttare tecnologia e di conseguenza un tipo di proprietà, quella industriale, legata alla conoscenza scientifica e caratterizzata dalla intrinseca immaterialità.

2.2. Gli accordi del Trasferimento Tecnologico nella ricerca

63 mantenimento del titolo solo come un costo (economic burden) e non sia interessata ad esserne parte attiva nella commercializzazione.

La particolarità di questo contratto, rispetto ai tradizionali modelli di cessione, è, ancor qui, la specialità della tecnologia ceduta, per la quale cioè l’oggetto contrattuale diventa automaticamente incerto e non ben definito. Specie se si pensa al fatto che la cessione può avvenire in momenti assai diversi dello stadio evolutivo della tecnologia-titolo ceduto. Il che significa, come si accennava sopra, che il titolo può essere ceduto solo allo stadio di domanda di cui può essere riscontrata successivamente l’invalidità, o comunque la non accettazione presso i competenti Uffici, oppure che la tecnologia licenziata sia ancora allo stato embrionale per cui la domanda di registrazione non è stata neanche presentata. In quest’ultimo caso, evidentemente, saremo di fronte alla cd. cessione di know-how che potrebbe, eventualmente, portare al deposito di una privativa industriale in uno step successivo. In tutti i casi, comunque, la “res ceduta” non è certa, e di tale incertezza la cessione non può non risentire.

Proprio per minimizzare l’incertezza dell’ oggetto, allora, nella cessione – in quanto trasferimento a titolo definitivo di un titolo o di una tecnologia embrionale– si fa particolarmente urgente e delicata la fase della due diligence contrattuale, ovvero dell’accertamento della titolarità dei diritti di proprietà intellettuale, dello status della procedura di protezione e del controllo sulla corretta formazione dei titoli. Dal quale accertamento, poi, deriva conseguentemente anche la successiva architettura delle garanzie contrattuali da parte dei due contraenti. È chiaro che i partner strategici pretendano normalmente di avere la ragionevole certezza che l’ente di ricerca sia l’unico soggetto titolato a cedere il titolo e che gli inventori/ricercatori abbiano legittimamente concesso al primo lo sfruttamento del titolo. Nei casi di invenzioni accademiche, infatti, più che mai è necessario un meticoloso e puntuale accertamento sulla vita del titolo preesistente alla cessione (rapporto Università/ricercatori; rapporto Università/ricercatori/finanziatori;

rapporto Università/ricercatori/committenti pubblici o privati).

Vari studiosi italiani92 si sono poi posti il problema se assemblare la cessione di un titolo in fase di domanda o della tecnologia non ancora oggetto di deposito brevettuale al

92 Tra gli altri, si vedano M. Granieri, La gestione della proprietà intellettuale nella ricerca universitaria: invenzioni accademiche e trasferimento tecnologico, Il mulino, 2010; L. Viola, (a cura di), Trattato, Il contratto. Validità, inadempimento, risarcimento, 2009; G. Sena, I diritti sulle invenzioni ed i modelli di utilità, Giuffrè, 2011; A. Musio- F.

Naddeo (a cura di), “La compravendita”, Cedam, 2009.

negozio del contratto di vendita di cosa futura, con le conseguenze giuridiche di siffatto inquadramento. La compravendita di cosa futura è disciplinata in Italia dall'art. 1472 Codice Civile93, il quale, nel prevederne gli effetti, stabilisce che l'acquisto del diritto si verifica non appena la cosa viene ad esistenza. La figura costituisce l'applicazione alla vendita del principio generale contenuto nell'art. 1348 Codice Civile: la prestazione (rectius, nella fattispecie: l'attribuzione traslativa) di cose future può essere dedotta in contratto, salvi i particolari divieti della legge. Occorre innanzitutto chiarire che di vendita di cosa futura si può parlare in relazione ad una duplice eventualità, l'una attinente alla sfera della patologia dell'atto, l'altra a quella del modo in cui le parti ne hanno concepito l'oggetto. Nel primo senso l'acquirente può non essere a conoscenza dell'attuale inesistenza della res , destinata nelle intenzioni dell'alienante a venire in futuro ad esistenza. È palese che il contratto non potrebbe non ritenersi viziato: si tratta soltanto di individuare positivamente la patologia della quale esso è affetto. A questo proposito si potrebbe fare riferimento all' annullabilità per errore ovvero per dolo. Completamente diverso è invece il caso in cui le parti siano consapevoli dell'inesistenza attuale della cosa che è oggetto della vendita. A questo proposito il menzionato art. 1472 del Codice Civile italiano contiene il riferimento a due distinte figure: la c.d. emptio rei speratae, in relazione alla quale le parti concepiscono l'oggetto nell'ambito di una contrattazione commutativa, connotata da un grado normale di alea e la c.d. emptio spei, nella quale invece è usuale il riferimento alla natura aleatoria94. Nel primo caso la vendita ha ad oggetto una cosa futura, vale a dire non esistente al tempo in cui si perfeziona il contratto che la prevede. È chiaro che, ogniqualvolta le parti di una compravendita si accordano nel senso che l'oggetto dell'atto consista in un quid insussistente nel momento dell'accordo, in una qualche misura prevedono un evento (il venire ad esistenza del bene) la cui verificazione non può essere considerata come assolutamente sicura e certa. Tale previsione può essere variamente modulabile nella rappresentazione dell'equilibrio contrattuale che le parti hanno raggiunto. Questa è la considerazione in base alla quale si distingue la vendita di cosa futura che le parti reputano debba venire ad esistenza secondo il normale svolgersi degli eventi (emptio rei speratae, contratto commutativo, ponendo così il rischio della successiva invalidità a carico del venditore; si dice, infatti, che all’invalidità sopravvenuta del contratto consegue l’obbligo

93 R.D. 16 marzo 1942, n. 262.

94 Cfr. F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1972.

65 per il cedente di restituire il prezzo) e la vendita di cosa futura che ha piuttosto per oggetto la semplice speranza del venire ad esistenza della cosa, la cui mancanza non potrebbe, dunque, essere considerata come evento straordinario ed imprevedibile (emptio spei, contratto aleatorio95). A fronte di quanto sopra, ci pare che nel caso di cessione di una domanda di brevetto o di tecnologia ancora non depositata, si debba piuttosto parlare di contratto aleatorio, dal momento che le parti non possono non aver chiaro che la res può anche non venire ad esistenza, essendo solo in fase di deposito o embrionale, e che siffatta eventualità non può considerarsi come un evento straordinario ed imprevedibile. In tal senso, allora, a parere della scrivente dovrebbe trovare applicazione l’art. 1472, comma 2, Codice Civile, con la conseguenza che la mancata previsione del carattere aleatorio dello scambio determina la nullità del contratto qualora la tecnologia non venga effettivamente a esistenza.

Analoghe considerazioni devono essere condotte in caso di invalidità del titolo brevettuale successiva alla sua cessione. Ancor qui, il problema della sorte del contratto per successiva invalidazione del brevetto ceduto è legato alla qualificazione dell’operazione, se cioè le parti l’hanno intesa come contratto aleatorio o semplicemente commutativo. Ed anche in questo caso si propende per la tesi dell’aleatorietà del contratto poiché a nostro avviso la più rispondente alla ratio sottesa al trasferimento di tecnologia. Ciò significa, dunque, che per massimizzare i risultati del trasferimento tecnologico, dovrebbe essere l’Università/ricercatore a qualificare la cessione come contratto aleatorio. E che dunque alla fine risiede nella libera autonomia delle parti la determinazione convenzionale delle clausole del contratto. Nella pratica si assiste per lo più al fatto che il cedente si esonera convenzionalmente dai rischi derivanti dal mancato o inadeguato funzionamento della tecnologia, e da questioni relative al successo commerciale della medesima, alla validità del brevetto, alla non contraffazione e, per quanto riguarda domande depositate, alla sussistenza dei requisiti di brevettabilità. A conferma dell’interpretazione della aleatorietà del contratto, ci sia consentito ricordare quanto a tal proposito conclude sul punto autorevole dottrina96 “(…) invero, se come conseguenza dell’invalidità il cessionario ha diritto di ottenere la restituzione del prezzo pagato (o, nel caso di licenza, a interrompere il pagamento dei canoni

95 D. Rubino, La compravendita, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da Cicu-Messineo, vol. XVI, Milano, 1971, p.172.

96 M. Granieri, “La gestione della proprietà intellettuale nella ricerca universitaria: invenzioni accademiche e trasferimento tecnologico”, Il mulino, 2010.

periodici) sarebbe forte l’incentivo a causare una pronuncia di invalidità proprio ad opera del cessionario, dopo aver usufruito della privativa per un certo periodo di tempo”97.

A completamento del quadro generale sopra delineato ci preme inoltre aggiungere che, pur trattandosi di un trasferimento a titolo definitivo, la cessione del titolo/della domanda/del know-how in ambito accademico viene tendenzialmente accompagnata dalla previsione della collaborazione degli inventori-ricercatori anche nella fase successiva al trasferimento. E ciò normalmente per cercare di agevolare il passaggio della tecnologia, e consentire al cessionario-acquirente di realizzare al meglio la tecnologia acquisita. Nel caso in cui, poi, unitamente alla cessione non venissero previste obbligazioni di collaborazione in capo ai ricercatori, possono essere stipulati dei contratti di consulenza professionale ex post con i ricercatori-inventori della tecnologia licenziata (di cui parleremo ampiamente per ciò che riguarda la licenza).

In merito, infine, al quantum volto a compensare il trasferimento di tecnologia a titolo definitivo, normalmente nella cessione si registrano pratiche di pagamenti una tantum (anche detti lump-sum payment)98. Più difficilmente, infatti, si ricorre alla tecnica della royalty, o comunque a pagamenti continuati e variabili che, se previsti, vengono legati al verificarsi di fattori esterni o di condizioni rimesse al comportamento di terze parti.