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Chagas: “buono per” ripensare la categoria di latinoamericano?

5. Tra le altre cose, il Chagas

5.1 Chagas: “buono per” ripensare la categoria di latinoamericano?

È Desideria a voler affrontare ripetute volte un confronto sui termini su cui poggia la presunta matrice identitaria “latinoamericana”. Lei, che con il suo instancabile lavoro “interculturale” (così come lo definisce), evidenzia come a Bologna manchino politiche locali che alimentino tale confronto, che resta declinato alla “buona volontà” personale, specie in seno all'attuale momento storico in cui – piuttosto – si acuiscono le separazioni “tra classi e tra origini”. Rilevo che, se da un lato è più semplice per lei esaltare le anime e i colori diversi di quella che chiamiamo “America latina”, dall'altro il nodo che sembra difficile da esplorare, sviscerare, ma che lei desidera condividere, riguarda la discriminazione che spesso segna, divide, separa – in America latina – coloro che sanno di discendere dagli europei da quelli che visibilmente discendono dagli africani o che si percepiscono indios. Mignolo sostiene a riguardo che «l'“idea” di America latina è stata in realtà un progetto sorto dai conflitti imperiali. Tale “idea” ha replicato nelle Americhe la divisione tra il nord e il sud dell'Europa. Oggi, l'“idea” di America latina è stata assunta dai mezzi di comunicazione di massa controllati dall'intellettualità di origine europea. Risulta molto meno convincente per le popolazioni di origine indigena e africana. È un'idea eurocentrica, contestata da coloro che non sentono di appartenervi né sono interessati a parteciparvi». Un'“idea”, aggiungo, che d'altra parte viene difesa da coloro che non vogliono metterne a rischio alcuni tratti significativi.

Un elemento rilevante, emerso dal resoconto di numerosi testimoni, è la tendenza a vedere nella migrazione un processo che permette di lasciarsi alle spalle le ragioni della discriminazione a cui allude Desideria; rilevante se comparato alle testimonianze di persone immigrate da altri contesti – africani o asiatici – che al contrario denunciano spesso di aver iniziato a sperimentare la discriminazione, la “diversità” (di cui sono portatori) proprio nel contesto di approdo.

Coloro che provengono invece da centro e sud America, da me sollecitati su questi temi, non hanno mai riferito episodi esplicitamente riletti come discriminatori se non quando “confusi” con altre provenienze (es. nordafricani).

Gli elementi che entrano in gioco in tale rappresentazione sono tanti e afferiscono a molteplici piani. Tra gli altri, potrebbero esserci le tracce di quella storia coloniale che, come rileva Mignolo (2013), a partire dal XVII secolo delineò in America un nuovo gruppo sociale, i creoli di origine spagnola e portoghese che «benché non avessero subito la stessa emarginazione di indigeni e africani, non facevano parte della storia, poiché erano un gruppo collocato tra i limiti dell'umano

– oltre i quali c'erano gli indigeni e gli africani – e l'umanità propriamente detta, rappresentata dagli europei» (2013: 39). Senza voler entrare in un discorso che ci porterebbe lontano, indico solo come numerose fonti letterarie evidenzino che in epoca coloniale, con particolare riferimento alle colonie spagnole, la costruzione identitaria andava poggiandosi su elementi biologici ed economici insieme. L'applicazione di categorie come meticcio o mulatto per esempio non era indirizzata solo a chi lo fosse biologicamente, ma anche ai bianchi poveri, non educati o di cattiva condotta, così come ci si riferiva col termine bianco anche a coloro che, a prescindere dal colore della pelle, facevano fortuna o palesavano una buona educazione. Secondo Assadourian, ancora alla fine del XIX secolo, parlando della città di Cordoba un uomo dichiarava che «non importa che siano bianchi, biondi o che corrispondano al profilo preciso della razza, noi li chiamiamo mulatti perché il padre o la madre, la nonna o lo zio sono state persone di servizio o famiglie di poco credito» (Assadourian et al., 1986). Tale digressione rispetto a temi di un'ampiezza tale da non poter essere qui affrontati, ha il solo scopo di problematizzare la complessità storica, culturale, che dà forma e sostanza – sempre – alle costruzioni identitarie e alle relazioni io/altro. Tale complessità deve essere costantemente contemplata, considerando anche il potenziale trasformativo esercitato su tali processi dalle dinamiche migratorie. Quel che qui è necessario mostrare è come la categoria di latinoamericano possa evocare per alcuni un universo rappresentativo da caratterizzare, promuovere, difendere; per altri una classificazione escludente rispetto alla molteplicità delle storie, delle lingue, delle religioni, dei saperi, delle memorie. Per altri ancora rappresenta un riferimento labile, effimero, improduttivo.

Tornando alle rappresentazioni di cui è stata data testimonianza nel terreno di ricerca, numerosi interlocutori hanno affermato una certa legittimità a stare in Italia, come parte di una migrazione “buona”, “positiva” e differente rispetto ad altre immigrazioni. Chi sente di essere a realizzare quello scarto sociale che lo affranca dalle ragioni di una possibile stigmatizzazione, pur esaltando in alcuni momenti la propria diversità culturale, non intende mettere in discussione la “strada fatta” né finire per essere imprigionato in quell'immaginario diffuso che dipinge l'immigrato in termini privativi o difettivi. Da ciò sembrano derivare frequenti giustificazioni a quell'atteggiamento di chiusura da parte di molti italiani nei confronti di un'immigrazione “negativa”, “criminale”, delegittimata, di cui non fanno parte coloro che ne parlano. Mi ritrovo a pensare a come certe retoriche nazionaliste diffuse e propagandate anche in Italia, vincolate a quella che Pinelli (2013) definiva “cultura dell'immigrazione”, abbiano tra i loro destinatari – quali prodotti e riproduttori – anche molti immigrati. Il progressivo “peggioramento” di Bologna e quindi dell’Italia in generale, e la relativa chiusura da parte degli italiani, pare essere rilevata e giustificata da molti dei miei interlocutori che finiscono col sostenere delle gerarchie di immigrati

rispetto alle quali loro si situano subito “sotto” gli italiani (o a pari livello in taluni casi). In coda a tale gerarchia, nelle testimonianze da me raccolte, sono situati coloro che, oltre a essere immigrati, non hanno un ruolo sociale definito o socialmente accettato (vita di strada, nomade, transessuale81, migrazione vincolata a progetti emergenziale/umanitari); soggetti che si ritrovano a essere ulteriormente 'fragilizzati' in seno a un immaginario che li carica, li responsabilizza di molte delle contraddizioni della realtà sociale. Gli stessi connazionali vengono condannati quando assumono comportamenti che li rendono simili “a quegli altri immigrati”; quando bevono o non lavorano; quando delinquono: ciò non viene quasi mai analizzato nei termini dei condizionamenti socio-strutturali, ma interpretato come una scelta liberamente assunta, da cui si intende prendere immediatamente le distanze.

Restituisco con le parole di Milagros, figlia di Dolores, una visione che Desideria, quotidianamente, prova a decostruire: “Fanno bene gli italiani. Li capisco. Perché tanti vengono qui a rubare o a fare altre brutte cose – sì, ma le fanno anche gli italiani – sì, ma sono a casa loro. Ci sono squadre di rumeni o albanesi che ti rubano nell'autobus. Noi siamo diversi. Non partecipiamo, piuttosto siamo chiusi. È vero però che anche tra i peruviani ci sono quelli con poca istruzione, con diferente medio social, differenti risorse sociali. Sono persone che spesso creano una cattiva immagine dei sudamericani: perché se Carlo fa cose sbagliate ed è svedese, non è solo Carlo a essere accusato, ma tutti gli svedesi”. Discutiamo a lungo di come certe circostanze siano spesso connesse a condizioni precarie di vita, a problemi di ordine più ampio e non vincolati necessariamente all’essere immigrati da una certa zona. Milagros annuisce, ma non sembra troppo convinta. La sua testimonianza però, al pari di altre, può contribuire alla comprensione delle modalità differenti con cui categorie ampie come quella di “latinoamericano” vengano percepite, o subite, talvolta contestate. Desideria – e non è la sola – rileva un'operazione “violenta” quando tale categoria si carica di elementi fissi, omologanti, quale il vincolo con un fenomeno di malattia come il Chagas che – come vedremo più avanti nel testo – può evocare un'idea di povertà, di ignoranza, di origini indigene e di alterità che va a gravare su quegli equilibri – fluidi, molteplici, precari – su cui quotidianamente si costruiscono le proprie e altrui rappresentazioni.

81 Un frammento del diario di campo condiviso con le colleghe del CSI: “Uno degli aspetti inattesi della ricerca riguarda il numero elevato di transessuali peruviani, molti dei quali coinvolti in attività di prostituzione. Ne abbiamo conosciuti tanti, quasi tutti irregolari. Testimoniano frequenti episodi di violenza, di discriminazione, subiti soprattutto nel Paese di origine, e di solitudine connessa alla difficoltà a condividere con qualcun altro aspetti di vita che non siano vincolati al sesso e alle attività lavorative. Gli eventi di violenza ci sono apparsi numerosi e gravi (percosse, accoltellamenti, a una persona è stato dato fuoco); sono però stati in qualche modo sminuiti nella comparazione delle circostanze in Perù ove erano "costretti a nascondersi". Tra le altre cose, rileviamo grande disinformazione rispetto alle malattie a trasmissione sessuale su cui ci sono state spesso richieste informazioni. Tuttavia, ogni volta che ci si doveva incontrare, i numeri di telefono erano irraggiungibili e gli appuntamenti venivano elusi (luglio 2012 ).