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4. Dalla costruzione del fenomeno alle sue interpretazioni

4.2 Il Chagas di Sami

Sami è quella che ha avuto la reazione peggiore. Nonostante i quattro fratelli abbiano ricevuto tutti la stessa diagnosi, le “attenzioni” familiari si sono concentrate su di lei. È Alvaro il principale narratore delle condizioni di salute di sua sorella, chiedendomi di evitare di parlarne con lei che si sarebbe “agitata”. Nel ricostruire la sofferenza di Sami, Alvaro lascia emergere un elemento centrale che ho ritrovato, sia pur con diverse peculiarità, nelle storie di altri miei interlocutori. Il fatto cioè di rivolgersi al servizio sanitario sentendosi bene, sani, in forma, e di ricevere la diagnosi di Chagas. La contraddizione consiste nel fatto che, mentre consegna al paziente una diagnosi di positività, comunicando l'esistenza di un'infezione cronica, il servizio dice anche che, nonostante la diagnosi, non bisogna sentirsi malati. Il paziente, che prima di fare il test si sentiva bene, torna a casa con la sua diagnosi di sieropositività e col passare dei giorni comincia a sentirsi male. Il servizio sanitario non pare essere un buon interlocutore rispetto a queste nuove percezioni di malessere, in quanto continua a sostenere che -nonostante quella “carta che parla” (Alvaro, diagnosi)- il paziente sta bene. Anche la letteratura riporta alcuni casi di pazienti in fase indeterminata che a detta dei medici “sono a-sintomatici; non sentono niente”, e che tuttavia hanno delle sensazioni corporee che generano confusione (Sanmartino, 2009a ). Nel caso di Sami, ma anche di Alvaro, la diagnosi ha attivato un processo in cui il malessere sembra avere delle forme -cause eziologiche, ragioni, sintomi- molto più complesse rispetto a quelle che uno sguardo biomedico attribuirebbe alla Malattia di Chagas.

Sami inizia a manifestare dolori al petto, mancanza di respiro, insonnia; la sensazione di avere un nodo in gola. Si rivolge al servizio del Sant'Orsola dove le è stata comunicata la diagnosi ed esegue una serie di controlli cardiologici e gastro-intestinali in concomitanza con la somministrazione del farmaco antiparassitario per l'infezione. La terapia farmacologica viene data anche ai suoi fratelli (la sorella ha deciso, per il momento, di non farla). In loro produce alcuni effetti collaterali, tuttavia non si ritiene necessario interromperla. Le indagini confermano che il cuore di Sami “sta bene”; che la sua malattia è nella fase “indeterminata”. Torna a casa con una sensazione che mi ha descritto diverse volte; questa indeterminatezza con cui le si chiede di aspettare, di non agire, de hacer como si nada, di fare come se niente fosse. Sami però continua a sentirsi male, perde l'appetito e diventa sempre più debole, non riuscendo neanche più a lavorare. “Eppure è sempre stata una donna fortissima, vincente”, dice Alvaro; i suoi fratelli non la riconoscono. Sami si è sempre occupata di tutto; “è lei che sa come funziona; cosa mandare a casa (in Bolivia); come gestire la situazione”. Suo marito, che lavora come guardiano in una ditta di sicurezza privata, chiede ad Alvaro di provare a sostituirla nel lavoro come badante. Nessun

altro può prendere il suo posto; Alvaro è l'unico a “non avere di meglio da fare”. Lui si sente in difficoltà perché si tratta di un tipo di occupazione che non ha mai svolto e che “coinvolge delle persone di cui prendersi cura”, tuttavia “è troppo importante che Sami non perda le sue entrate mensili”.

Il gruppo familiare è responsabile del sostentamento dei figli rimasti in Bolivia; Sami ne ha tre, di cui uno appena laureato in medicina che andrà presto a fare una specializzazione in Brasile (mi viene ripetuto spesso questo dettaglio, come a dimostrare il livello socio-culturale della famiglia di Sami e la sua familiarità con il mondo della biomedicina). Il fratello maggiore ha lasciato a Cochabamba la moglie con due figli. La sorella più giovane ha una bambina di un anno che è con lei a Modena, insieme al marito. “Sami non è quella che lavora più di tutti, ma è quella che gestisce le risorse. Riesce sempre a farci stare tutto, per noi e per la famiglia a casa. Prende, divide, paga, tra qui e lì: è una contabile!”.

Trascorrono dei mesi. Sami continua a indebolirsi. “Non è voluta andare da nessun altro medico”.

Alvaro racconta che, senza neanche chiedere esplicitamente una consultazione, Dionisio comincia a fare visita a Sami quotidianamente. Lo stesso Dionisio ha fatto il test per il Chagas nello stesso periodo degli altri, ricevendo un risultato negativo, tuttavia sa bene di cosa si tratta, avendo avuto accesso a tutte le informazioni. Ho avuto modo di incontrare Dionisio a casa di Sami, insieme a suo marito e ad Alvaro. Ho preso parte alle discussioni sulla situazione di Sami, tentando di contribuire in qualche modo alla lettura della sua sofferenza e di provare a comprendere le strategie di azione che gli uomini mi delineavano. La donna, a cui hanno spesso dato parola affinché descrivesse le sue sensazioni, non ha mai partecipato alla negoziazione sulle possibili soluzioni.

La ricostruzione del vissuto di Sami da parte di Dionisio e Alvaro sembra intrecciare un insieme di fili di cui il Chagas ne rappresenta soltanto uno, con delle caratteristiche che in alcuni momenti del racconto si fanno visibili. Sami “ha una malattia che circola per il sangue, senza sapere in che direzione va e dove pensa di fermarsi” (ho rilevato con frequenza descrizioni simili del Chagas). La diagnosi ha scatenato in Sami un senso profondo di insicurezza e di paura. Sami è stata “attaccata dal timore di non poter tornare a vedere i suoi figli, specie la bambina più piccola, e di morire in una terra che non è sua, lontana da casa e dai suoi defunti” (Dionisio). Ciò ha scatenato una serie di sintomi tra cui uno stato di nostalgia perenne; “un vuoto”, dice Dionisio, che oltre alle palpitazioni, alla mancanza di respiro, alla perdita di appetito -Sami ha smesso di prendersi cura della sua persona- rischia di spingerla a pensieri suicidari. Una sola volta Dionisio dà un

nome alla condizione di Sami: Amartelo113, una categoria culturale che in Bolivia rimanda a tutta una serie di manifestazioni patologiche da parte di chi soffre la lontananza o la perdita di qualcuno che gli è profondamente caro (ORAS, CONHU, 2010). È significativo che i sintomi che Sami manifesta siano riconducibili a quelli rilevati nelle descrizioni del Chagas (dolore al petto, palpitazioni, formicolio, cuore in gola) piuttosto che a quelli comunemente attribuiti all'Amartelo, rispetto al quale è comunque possibile rintracciare delle caratteristiche comuni (insonnia, inappetenza).

Dopo aver parlato a lungo con Sami, Dionisio chiede al marito della donna di chiamare la famiglia in Bolivia e di informarla della situazione. Dice anche di farsi inviare un pacco con diversi oggetti tra cui alcuni vestiti della bambina più piccola oltre a numerosi semi di Huayruro (Ormosia coccinea). La famiglia si organizza in modo tale che Alvaro possa sostituire Sami a lavoro, rassicurando la coppia di anziani che la donna assiste da quattro anni, del fatto che lei sarebbe rientrata presto. È lo stesso Dionisio a interagire con gli anziani; ad accompagnare Alvaro per presentarlo e per farsi garante degli accordi. Alvaro si carica responsabilmente del suo ruolo. Quando il pacco arriva, Dionisio compie una serie di azioni a cui ho avuto modo di assistere solo in parte. Si tratta di alcune pratiche terapeutiche che si sono ripetute durante un mese intero. Alvaro mi ha poi raccontato che Dionisio ha innanzi tutto fatto bollire alcuni vestiti della bambina, facendone bere l'acqua a Sami. Ha inoltre preparato diversi decotti con le erbe inviate dalla Bolivia. “Dionisio ha messo i semi rossi (Huayruro) nella federa del cuscino di Sami, e -con gli stessi semi- ha costruito una collana e un bracciale. Ha legato il bracciale al polso di Sami e ha chiesto a mio cognato di rispedire la collana a Cochabamba perché la mettesso al collo della mia nipotina. E così abbiamo fatto”. Dalle parole di Alvaro rilevo fosse emersa la necessità di ropristinare in qualche modo la vicinanza tra Sami e la sua figlia più piccola; un legame che evidentemente era stato messo in discussione dalla lunga assenza della madre che tuttavia desiderava continuare a occuparsi dei suoi figli.

Col passar del tempo (da agosto a novembre), Sami inizia a star meglio e riprende a lavorare. La famiglia si organizza in modo tale che Alvaro continui ad assistere la coppia di anziani. Prima della malattia infatti Sami lavorava tutti i giorni fino alle dieci di sera, tranne il mercoledì pomeriggio e la domenica. Adesso Alvaro la sostituisce il venerdì pomeriggio e il sabato, e lavora la domenica e il mercoledì pomeriggio -giorni in cui Sami comunque era a riposo- oltre a lavorare anche durante due o tre notti a settimana. Attraverso questa riorganizzazione, in cui le indicazioni di Dionisio hanno avuto un ruolo rilevante, Sami riesce a lavorare meno ore e ad avere maggior tempo per sè e da trascorrere con suo marito. Tuttavia il nucleo familiare ha incrementato le

113 Non sono riuscita a reperire letteratura utile per approfondire il tema che d'altra parte non rappresenta un oggetto di interesse specifico di questo lavoro.

entrate economiche, dal momento che Alvaro non si limita a sostituire sua sorella al venerdì e al sabato, ma lavora durante la notte o nei giorni in cui Sami era a riposo e che quindi non le venivano retribuiti. Alvaro non è più disoccupato. Sente di avere, adesso, un ruolo centrale all'interno del sistema familiare. Almeno uno di quei “segni” negativi, è diventato positivo.

Sono state frequenti le testimonianze di interlocutori che mi hanno descritto la malattia, il Chagas nello specifico, come un evento che scatena tutta una serie di timori vincolati al rischio di mettere in discussione la possibilità di lavorare e di sostentare la famiglia (Avaria, Prat, 2008), oltre a rendere ancora più tangibile la distanza che separa gli “ammalati” dalla loro casa e dagli affetti. Nella testimonianza di Sami e della sua famiglia è infatti possibile rilevare come la diagnosi di Chagas abbia messo in crisi il suo senso di responsabilità nei confronti dei figli, cui garantire le risorse “per crescere, studiare e avere una vita serena” (Alvaro). La malattia ha messo in discussione il ruolo genitoriale di Sami specie nei confronti della figlia più piccola, con cui ha trascorso meno tempo rispetto ai due ragazzi; ha messo in crisi l'intero progetto migratorio, che è quello che “vale” nel sopportare gli sforzi e le pene della distanza dai figli.

Il disagio emotivo che spesso caratterizza la vita degli immigrati è un tema ampiamente indagato dall'antropologia. Beneduce (2006a, 2006b, 2007) lo riconfigura nella cornice delle aspettative che la comunità di origine ripone in chi migra, proporzionali alle sofferenze che la distanza produce. Soltanto il buon esito del progetto migratorio può giustificare la perdita, il vuoto. Quando il progetto subisce un “incidente di percorso”, una “deviazione”, è frequente che emerga il senso di colpa rispetto a quel peccato originario consustanziale (2007: 255) che potrebbe essere identificato nel vissuto di Sami, come l'abbandono dei propri figli da parte della madre. Probabilmente Sami non riesce a trovare delle modalità esplicite per rappresentare tale sofferenza che riaffiora attraverso idiomi corporei. Le rimesse stesse, lungi dal veicolare un valore solo economico, rappresentano l'impegno a esserci, come madre, e a rendere manifesto che il legame genitoriale non sia spezzato. La malattia di Sami e dell'intera famiglia di Alvaro va riletta come un tentativo di posizionamento nei confronti di una diagnosi (Chagas) che allude a una patologia potenzialmente invalidante che già precedentemente aveva prodotto un lutto familiare; la morte della madre di Alvaro e di Sami che aveva svelato il vincolo morale che unisce i genitori ai propri figli. E va riletta nella cornice del progetto migratorio familiare calato nell'attuale momento storico-economico italiano, ove la precarietà lavorativa richiede a ogni membro del nucleo familiare maggiori sforzi, fatiche e nuove negoziazioni del proprio ruolo produttivo.

La malattia emerge in tal senso come una rielaborazione dinamica all'interno di quella che Rubel e Garro (1992) definiscono una cultura della salute, riferendosi a quell'insieme di saperi che i soggetti hanno appreso dentro al proprio contesto socio-storico inerenti la natura del problema, le sue

cause, le sue implicazioni. I malati utilizzano le loro culture della salute per interpretare i propri sintomi; dare loro un significato; attribuirne la gravità; organizzarli all'interno a una categoria diagnostica; decidere chi consultare nella ricerca di aiuto. La vicenda di Sami ha il potere di svelare come i dettagli tecnico-scientifici (la configurazione bio-medica del Chagas e la sua diagnosi) possano essere rielaborati in forme incorporate (i suoi sintomi) (Csordas, 1999) attraverso configurazioni culturali (rappresentazione della vinchuca, categoria di Amartelo); risorse tradizionali (il sapere e la figura di Dionisio); esperienze individuali (il ruolo di Sami nel sistema familiare); sensibilità personali (tornerò poco più avanti sul vissuto di Alvaro e le sue reazioni). I riferimenti socio-culturali sembrano quindi tracciare quello spazio all'interno del quale i soggetti cercano le modalità con cui rispondere al proprio destino. Diventa in tal modo manifesto come le rappresentazioni della malattia di Chagas si spingano notevolmente oltre la percezione di un fenomeno che interessa la sfera meramente biologica, andando a modellare le relazioni sociali e a manipolare le identità di chi ne soffre.