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4. Dalla costruzione del fenomeno alle sue interpretazioni

4.1 La malattia nel mondo di Alvaro

Alvaro sente che la sua salute è stata compromessa quando ha lasciato la Bolivia. “Noi immigrati non stiamo bene; non possiamo stare veramente bene”. La migrazione ha alterato, nelle sue percezioni, un equilibrio; quell'equilibrio con lo spazio, con le risorse naturali e familiari che è indispensabile per sentirsi sani. Alvaro riconfigura la salute attraverso degli elementi che sono emersi di frequente, durante questa ricerca, dalle testimonianze di molti interlocutori provenienti da Paesi andini. Le parole che sono state utilizzate più spesso per riferirsi alla condizione di benessere sono 'equilibrio', 'armonia', 'stabilità', 'essere parte di', 'sentirsi parte di'. Una nutrizione equilibrata; relazioni pacifiche con la famiglia e la comunità; la serenità emotiva; una buona capacità produttiva e lavorativa: il concetto di salute poggia, per molti miei interlocutori, su un senso di integrazione all'interno di un universo naturale che pare essere costantemente sacralizzato; sulla propria partecipazione a quello che viene definito medio ambiente, inteso come uno spazio storico, sociale e simbolico, denso di relazioni e di circostanze di vita.104

Alvaro esprime come la migrazione l'abbia reso più vulnerabile, esponendolo a tutta una serie di trampas, di trabocchetti, che gli richiedono un dispendio di energie quotidiano. “Una delle cose che mi fanno male è la forma di mangiare, qui. Noi abbiamo tutto un altro modo di fare col cibo.

104 Per alcune riflessioni sul concetto di “medio ambiente” in chiave antropologica si veda Campos, 2008 e Milton. 2001.

Conosciamo quello che mangiamo; sappiamo da dove viene (una conoscenza “storica”); c'è familiarità con le forme e i colori (si riferisce alle verdure e agli ortaggi); c'è un rispetto che viene dalla confianza, dalla fiducia. Quando manca fiducia, c'è controllo. […] Qui i processi naturali non esistono; si agisce su tutto in modo intensivo, in modo prepotente (si riferisce ad agricoltura e allevamento). […] Pensa a una relazione. Quale mela potrà mai darti la terra se le chiedi di più, di più, di più? Se non fai altro che violentarla con tutta quella chimica per costringerla a darti di più? Ti avvelenerà. Qui niente è degno di autonomia. Tutto deve stare sottomesso per essere consumato. […] Ancora adesso me pone mal, mi fa star male andare al supermercato e comprare le cose messe tutte lì, a pezzi pronti nelle buste: mi sembra di non mangiare. Come lo metto dentro (il cibo, indica la bocca) così se ne va; non (ne) resta niente. Capisci? Non mi nutre, mi indebolisce”.105

La relazione col cibo è soltanto uno degli aspetti che manifestano la complessità di quanto Alvaro definisce come benessere.

“Ci sono tante situazioni che mi mettono incomodo, a disagio, ma non te le so spiegare. Sono continue, di tutti i giorni”. Alvaro si riferisce a tutta una serie di circostanze, di modi di fare, di codici che non conosce. E per paura di non riuscire a gestire le situazioni, sceglie spesso di rimanere in disparte. La sensazione di vivere costantemente in tensione lo stanca. “È come se questa vita (la vita in Italia) mi stia succhiando la vita da dentro”: la migrazione ha minato quell'equilibrio sano, salutare, tra Alvaro e il mondo.

Tutta la famiglia ha vissuto per otto anni a Bergamo. “Eravamo in difficoltà. Mia sorella ha tre figli e voleva che potessero studiare. Ha pensato di andare subito lì, a Bergamo. Abbiamo raggiunto l'altro fratello. Sapevamo che in Italia i boliviani sono là. Io non ho deciso niente. […] A Bergamo si stava meglio, a Modena è un po' diverso”. Alvaro si riferisce a una nuova migrazione interna, recente, iniziata qualche anno fa, quando alcune famiglie hanno iniziato a spostarsi dalla Lombardia all'Emilia-Romagna. Dalle fonti demografiche emerge che la presenza boliviana rappresenti la sesta presenza straniera nella provincia di Bergamo; conta circa 8890 presenze e continua a registrare un incremento106 se si confrontano le ultime due rilevazioni (2010 e 2011) provinciali, con un tasso di irregolarità (18%) che, contrariamente ad altre provenienze, non sembra essere in calo.107 I dati che si riferiscono alla provincia di Modena indicano un numero di boliviani residenti inferiore al centinaio108. Tuttavia rilevano un incremento di circa il 50% tra il 2010 e il 2011 cui è da aggiungere che si tratta di dati aggiornati al 2011, che quindi non contemplano variazioni più recenti. Inoltre i miei interlocutori hanno spesso riportato che molti

105 Mio il testo tra parentesi.

106 Variazione assoluta: +2.140; variazione percentuale: +31,7%.

107 http://www.provincia.bergamo.it/provpordocs/annuario%202011.pdf

parenti e amici non sono ancora riusciti a regolarizzarsi o che risultano ancora residenti a Bergamo.109

Alvaro racconta che la quotidianità a Modena è più noiosa; la decisione di spostarsi era seguita all'ipotesi di trovare maggiori possibilità lavorative poiché sua sorella era entrata in contatto con agenzie che aiutavano a trovare lavoro come collaboratori domestici e assistenti alla persona, mediando con le famiglie. La situazione lavorativa però non sembra decollare per Alvaro. “Ciò dev'essere dovuto non alla situazione di Modena ma alla crisi in generale”.

Quello che Modena ha di positivo è che i boliviani, essendo molti meno, hanno costruito “un gruppo più unito”. La maggior parte arriva da Cochabamba. Molti hanno affrontato in precedenza altre migrazioni, da zone rurali a centri cittadini, sia città boliviane che di altri paesi latinoamericani, in particolare argentine. La scelta di migrare è avvenuta per la maggior parte dopo aver terminato le scuole superiori110 e aver già lavorato per alcuni anni in Bolivia. La migrazione in Italia è avvenuta, quasi per tutti, grazie a un qualche conoscente che ha promosso strategie di accoglienza e di solidarietà, come la condivisione di appartamenti e di contatti di lavoro, o la collaborazione nella cura dei figli. “Parliamo in quechua. Questo mi piace molto. […] ci sentiamo isolati (come gruppo) ma tra di noi cerchiamo spesso occasioni per incontrarci e passare il tempo libero in compagnia. […] siamo soprattutto adulti ma oramai i bambini non mancano e neanche gli anziani”.

Tra gli “anziani” c'è un signore che rappresenta un importante punto di riferimento, non solo per Alvaro. È con lui che in tanti si confrontano quando c'è un problema; quando si è in difficoltà o si hanno dei dubbi. Dionisio -il nome è fittizio come tutti quelli utilizzati in questo lavoro- “si preoccupa per la comunità (dice Alvaro); è instancabile. Quando c'è il sole, organizza delle grigliate in un parco, o delle cerimonie in chiesa, o una raccolta per aiutare qualcuno che si trova in un momento di difficoltà. Noi sappiamo che lo fa per farci stare uniti; per non farci sentire soli. Lo fa anche per monitorare, perché è importante sentirsi bene”. Lo star bene, ancora una volta nella percezione di Alvaro, emerge come una condizione che dipende dalle relazioni con il mondo collettivo.

L'autorità che Alvaro riconosce a Dionisio si fonda su una serie di elementi significativi: Dionisio

109 Relativamente ai dati connessi con l'immigrazione in Italia, le fonti demografiche principali sono: l'Istat (http://demo.istat.it/); i Dossier Statistici sull'Immigrazione (http://www.dossierimmigrazione.it/;

http://www.caritas.it/home_page/tutti_i_temi/00000404_Dossier_Statistico_Immigrazione.htm); i dati pubblicati dalle regioni e dalle province. Un esempio sono i dati della Regione Emilia -Romagna http://sociale.regione.emilia- romagna.it/immigrati-e-stranieri/approfondimenti/archivio-dati/immigrazione-straniera_ER_2013 e della Provincia di Bologna

http://www.provincia.bologna.it/sanitasociale/Engine/RAServePG.php/P/638111180700/M/257211180706/T/Pr ofilo-socio-demografico-dei-cittadini-stranieri-in-provincia-di-Bologna-edizione-2013

110 Oltre il 50% degli interlocutori (tutte le provenienze) aveva un titolo superiore; oltre il 10% aveva un titolo universitario; la parte restante aveva seguito e terminato la scuola primaria.

è da più tempo in Italia e ha una rete sociale solida; conosce i percorsi da fare; i documenti necessari; le soluzioni più sostenibili economicamente. Ma Dionisio è anche uno tra quelli che ha trascorso maggior tempo in Bolivia; lui sa sempre “qual è la giusta soluzione tra chi siamo (boliviani, quechua) e quelli che dovremmo essere (in Italia)”. C'è poi un altro aspetto che è centrale nella percezione di Alvaro: Dionisio sa curare.

Non è uno scopo di questo lavoro addentrarsi nell'ampia e variegata trattazione che la disciplina antropologica ha dedicato alle cure e ai curatori tradizionali, alle medicine popolari e alle relazioni eterogenee che intercorrono con la biomedicina.111 In questa sede è più che altro importante far emergere la molteplicità degli elementi che affiorano dalla testimonianza di Alvaro. Le capacità di cura che egli attribuisce a Dionisio rimandano alla sua disponibilità ad ascoltare e a “sentire”; alla sua abilità nel cogliere le tensioni emotive, il peso delle norme sociali e degli obblighi familiari; alla sua perspicacia nel dare un senso agli eventi negativi. Oltre al possedere quel patrimonio di saperi tradizionali legati alle proprietà delle piante su cui riposa un senso di “fiducia” che si è andato costruendo storicamente. Pizza (2005: 213) rileva come l'attenzione non riguardi tanto gli esiti nei termini della guarigione, quanto il processo che viene messo in atto, coinvolgendo l'intera comunità e la costruzione storico-politica dell'identità. Al pari di Alvaro, molti interlocutori mi hanno riferito come in numerosi contesti latinoamericani gli itinerari terapeutici prevedano un insieme di saperi, di figure, di ruoli che non paiono essere in conflitto o in competizione. Quella stessa modalità di posizionarsi nei confronti della malattia è rintracciabile, sia pur in forme diverse, anche nei contesti di immigrazione. Spesso infatti, di fronte a una manifestazione di malessere percepita in senso non puramente biologico, si mettono in atto strategie di ricorso terapeutico “multiplo”, tentando di operare su più piani e, non di rado, affidandosi a specialisti di diverso tipo. La nozione stessa di itinerario terapeutico sta a designare, in chiave antropologica, i processi di “richiesta di aiuto” messi in atto dai pazienti e dai loro familiari in uno scenario di risorse e funzioni diversificate (Pizza, 2005:191). Il patrimonio tradizionale viene reinventato in maniera eterogenea, rinegoziandone valori e simboli nei rinnovati scenari sociali (Vulpiani, 2013). Con frequenza mi sono state riportate telefonate intercontinentali con cui si chiedeva a un parente di mediare nella consultazione di un esperto, o di farsi inviare (per posta o attraverso un qualche conoscente in viaggio) erbe, piante e semi con proprietà terapeutiche. Quella con le piante mi è stata descritta come una prima fase di cura o immediatamente successiva a quella che Menéndez (2003) definisce autoatención, autocura, intesa come una pratica di diagnosi e assistenza realizzata dalla persona malata o da qualcuno che appartiene alla cerchia più stretta di familiari e conoscenti, senza il ricorso a un curatore professionale. L'utilizzo delle piante tradizionali -facili

111 Alcuni testi di riferimento sull'interazione tra sistemi medici diversi, tra tentativi di integrazione e ambiguità: Comelles, 1996, 2000; Pizza, 2005; Schirripa, Vulpiani, 2000; Seppilli, 1983, 1989.

da reperire in molti contesti di origine, economiche e di conoscenza piuttosto diffusa- dal canto suo, può essere amministrato sia in un regime di autocura, sia necessitare un esperto.

Se il malessere persiste, segue il ricorso ai servizi sanitari, le cui possibilità di accesso dipendono dalla loro distanza e sostanzialmente dai costi, che mi sono stati descritti spesso come insostenibili, specie da interlocutori provenienti da Perù ed Ecuador. Una percezione invece rilevata in modo particolare tra gli informatori boliviani è che, tra i servizi sanitari, l'ospedale sia quello più temuto, rappresentato come un luogo che “può far bene ma anche male” (Alvaro); dove si decide di andare quando non c'è più niente da fare, solo per lasciarsi morire (Goldberg, 2013).

Quando il problema sembra essere molto complesso, è frequente che si richieda la partecipazione di un altro tipo di esperto che, come Dionisio, sa operare a un livello più simbolico. Dalle diverse testimonianze è emerso come ogni forma di consultazione preveda una qualche restituzione materiale. In diverse occasioni mi sono ritrovata a pensare che, in alcuni casi, la reticenza a interagire col nostro sistema sanitario, anche se pubblico, possa dipendere -insieme ad altri fattori- anche da questo immaginario condiviso secondo il quale sia sempre necessario dare qualcosa in cambio. In circostanze di ristrettezze economiche, se non è indispensabile, si sceglie di non rivolgersi a nessun terapeuta.

Alvaro non immaginava di poter avere il Chagas. Nonostante sapesse che sua madre era morta a causa di questa patologia, non pensava che sarebbe tornato ad ascoltare questo “strano nome, Chagas. […] È stata mia sorella maggiore a costringermi a fare il test. Si chiama C. ma noi la chiamiamo col nome che usava nostra madre, Sami. […] è un nome quechua che significa 'fortunata', 'vincente'. Sami mi dice sempre che sono un fifone; che ho paura di tutto, quindi mi ha accompagnato lei a fare il prelievo, insieme a nostro fratello e all'altra sorella. Abbiamo saputo di questa cosa da una sua amica che aveva fatto la prova a Bergamo. È una ragazza che non sta bene, è ammalata. Ci ha detto di approfittare perché è una prova che non si può fare sempre o dovunque. A Bergamo la facevano perché lì ci sono i boliviani!”.

Alvaro, suo fratello e le sue due sorelle sono risultati tutti sieropositivi al T.cruzi. “Non ce l'aspettavamo. Questa è una cosa di famiglia. […] Noi abbiamo sempre vissuto in città. Mia mamma e mio padre sono quelli che hanno passato più tempo in campagna. Ci lasciavano soli, con la zia. Restava solo lei con tutti i bambini, e gli altri adulti andavano a fare la raccolta. Mia madre diceva che dormivano, durante quei periodi, in case tipo cabañas, capanne, con il tetto di rami. Raccontava che di notte facevano bruciare l'eucalipto per fare fumo e allontanare gli insetti. […] Non ci ha mai parlato di disinfestazioni, e nemmeno delle vinchucas in particolare”. Non sono numerose le fonti letterarie che indagano le conoscenze sull'infezione in possesso dalla gente. I

maggiori contributi provengono dall'Argentina (Sanmartino, 2009abc; Streiner et al., 2007) e dal Brasile (Ballester-Gil et al., 2008; Uchoa et al., 2002; Villela et al., 2009), confermando la diffusione di informazioni utili per mantenere le abitazioni libere dagli insetti, coerentemente con l'immaginario a cui ho accennato in precedenza (Ramos et al., 2001). I miei interlocutori hanno manifestato solo in alcuni casi di ricordare l'insetto, sostenendo che si trattasse di un essere molto fastidioso in quanto la sua puntura lasciava una ferita dolente per alcuni giorni, oltre a una sensazione di debolezza a causa della notevole quantità di sangue di cui si alimentava notte dopo notte. Un elemento interessante è che l'insetto mi sia stato più volte rappresentato (specie da persone provenienti dalla Bolivia) come una “bestia del diavolo”. A differenza del cane o della pecora, animali descritti come “benevoli”, la vinchuca è stata spesso associata alla vipera e ad “altre bestie estremamente intelligenti”, che “attaccano approfittando della notte”, che “cambiano di forma”, che “non muoiono mai”, che “preferiscono come alimento le donne mestruate e i bambini”. Ho ritrovato alcuni tratti comuni in un lavoro di Sosa Estani (2006) realizzato in un contesto indigeno Pilagá dell'Argentina, ove la malattia di Chagas viene rappresentata come il prodotto della violazione di tabù e norme sociali. Inoltre alcuni tratti comuni emergono da un testo di Caballero Zamora e De Muynck (1998:185-186) che riporta delle percezioni rilevate in una comunità quechua boliviana. La vinchuca viene descritta come un insetto che insieme al sangue succhia via l'anima; come una piaga che non può che derivare da un castigo degli dei per il mal vivir, il vivere male. Nello stesso testo gli autori riportano una certa ambivalenza nelle percezioni, avendo rilevato che, secondo alcuni, la vinchuca avesse il potere di succhiare via, insieme al sangue “cattivo”, alcune malattie o di far risvegliare i moribondi. Personalmente non ho avuto modo di rilevare questa seconda tipologia di rappresentazione tra i miei informatori, tuttavia ho potuto riscontrare come in alcuni contesti indigeni di Argentina e Bolivia un certo tipo di potere venisse rappresentato in maniera ambivalente, come strumento capace sia di curare che di ammalare (Ciannameo, 2006).

Torno al racconto di Alvaro. “[…] Quando si è ammalata, mia madre ha pensato che avevano ragione i suoi genitori; che non avrebbe dovuto sposare mio padre perché non era una buona persona”.

All'interno del nucleo familiare, il malessere della mamma era stato inquadrato nell'orizzonte delle sue scelte e dell'infrazione di alcune norme parentali e voleri genitoriali. Questo “fardello” viene ora associato in maniera piuttosto lineare al fatto di avere ereditato da lei l'infezione. Ciò sembra emergere chiaramente sia dalla testimonianza di Alvaro che da quella delle sue due sorelle con cui ho avuto modo di interagire numerose volte. “Noi non siamo gente de campo, gente di campagna. Ce l'ha passata nostra madre”.

Ricevuta la diagnosi, oltre a tutta una serie di informazioni sull'infezione, Alvaro manifesta una sorta di delusione, per altro condivisa con altri informatori, rispetto alla fiducia che ha sempre nutrito nei confronti della biomedicina. L'idea di aver fatto più di una volta dei controlli ematici di routine, e di aver donato il sangue numerose volte, sia in Bolivia che in Italia, fa sorgere una serie di domande che non trovano risposta: “Perché non me l'hanno detto prima? Possibile che non se ne siano mai accorti? Neanche di mia sorella mentre era incinta? E perché adesso?”. Quella “tecnica infallibile” con cui la biomedicina riesce a guardare dentro al corpo viene messa in discussione.

Si ha la percezione che il Chagas sia qualcosa di grave perché può compromettere degli organi importanti e densi di significato, come il cuore. Inoltre quello che atterrisce è la sua natura cronica, il fatto che “non c'è modo di interrompere il processo” (Alvaro); la percezione quindi di un destino immutabile che alimenta sentimenti di tristezza e preoccupazione. La diagnosi viene percepita come qualcosa che può avere un impatto potenzialmente rischioso non solo per la salute personale, ma per le ricadute che potrebbero esserci qualora non venisse rispettata la privacy. Alvaro -come altre persone di origine boliviana- inizia a telefonare continuamente nel reparto dove ha svolto le analisi con il timore che i risultati possano finire -subito o in un eventuale futuro- nelle mani dei suoi datori di lavoro. “Mi licenzierebbero subito, questo è certo”. Pertanto vengono attivate delle piccole strategie protettive come per esempio il comunicare in gruppo tutti lo stesso indirizzo postale in modo da poter ricevere i risultati del test e in qualche modo “custodirli” collettivamente. Il fatto che il Chagas sia controllabile ma non eradicabile fa pensare all'HIV. La stampa di molti paesi sudamericani, e di qualcuno europeo, ne ha spesso parlato come “l'AIDS dei poveri”112, un paragone che amplifica il timore di stigmatizzazione.

112 Ritengo che si tratti di una comparazione mediatica pericolosa nei termini delle possibili ricadute sull'immaginario delle persone e poco fondata alla luce delle differenze sostanziali tra le due patologie. Per riportare alcuni esempi: http://www.pagina12.com.ar/diario/ultimas/20-75431-2006-10-31.html http://es.shvoong.com/medicine-and-health/1617635-el-sida-los-pobres/ http://www.alternativos.cl/2012/05/30/el-mal-de-chagas-propagado-por-insectos-es-el-nuevo-sida-de-las- americas/ http://www.jornada.unam.mx/ultimas/2014/02/10/chagas-enfermedad-mas-costosa-y-compleja-que-el-vih-senala- experto-de-la-unam-6049.html http://www.bbc.co.uk/mundo/noticias/2012/05/120530_salud_chagas_sida_amenaza_enfermedad.shtml http://www.heraldo.es/noticias/suplementos/cooperacion_para_desarrollo/2013/12/03/estrategias_contra_chagas _sida_america_latina_259331_1451024.html