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Configurazioni disciplinari: Medicina Tropicale, Salute Internazionale,

5. Da 'dimenticata' a 'emergente'

5.1 Configurazioni disciplinari: Medicina Tropicale, Salute Internazionale,

Prima di analizzare le logiche e le ricadute della rappresentazione del Chagas come fenomeno emergente, mi sembra necessario delineare la cornice teorica disciplinare all'interno della quale, in Europa, è andata prendendo forma la presa in carico delle infezioni connesse a luoghi 'altri'. Ciò può contribuire anche a una maggiore comprensione dell'approccio che ho utilizzato in questo lavoro, nell'analisi di una patologia ridisegnata da dinamiche globali.

Gli sforzi per conoscere e controllare la diffusione delle malattie infettive vanno indietro nel tempo, accompagnando i viaggi, le esplorazioni, le rotte commerciali e l'esposizione a patologie più e meno conosciute. Tuttavia è tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo che la “Medicina Tropicale” ha iniziato, come disciplina, a fronteggiare malattie vincolate ai contesti coloniali, con lo scopo di assistere innanzitutto milizie, funzionari pubblici, espatriati e -in maniera minore- la forza lavoro colonizzata (Inhorn, Brown, 1995). Non è un caso infatti che i centri specialistici di rilievo in Europa siano nati in grandi città portuali dove inizialmente attraccavano navi su cui si veniva curati e/o mantenuti in quarantena prima di poter sbarcare su suolo europeo (Grobush, 2011). La parola “tropicale”, come ci fa notare Stefanini (1998), aveva un'accezione morale precisa: se da un lato infatti indicava un gruppo specifico di malattie, dall'altro rimetteva a una forza civilizzatrice in grado di sconfiggerle. “La medicina funzionò in parte come un'agente dell'espansione coloniale” (1998:2). Sempre Stefanini rileva come in realtà i “tropici”, oltre a essere conquistati geograficamente, sono stati costruiti ideologicamente, sotto forma di gruppi umani, piante, frutti e malattie temibili, povertà connesse con un clima caldo e umido; all'inizio del XX secolo in campo medico, ma anche economico, politico, sociale, nessuno metteva più in dubbio l'esistenza dei tropici come spazio concettuale oltre che fisico e della Medicina Tropicale come paradigma scientifico. L'immaginario nel nord del mondo sulla medicina tropicale è stato dunque a lungo legato a rappresentazioni di parassiti non comuni e di altre infezioni “esotiche”. Progressivamente alcuni contenuti della disciplina, sotto il nome di “Salute internazionale”, sono di fatto ricaduti, nei Paesi europei, negli ambiti di gestione dell'Igiene e dell'Epidemiologia, dell'Infettivologia, della Dermatologia, della Veneorologia o della Medicina Genito-Urinaria (De Cock, 1995); d'altra parte una Salute Internazionale più concentrata sul sud del mondo ha continuato a dare centralità a problemi sanitari connessi alla povertà nelle aree rurali, all'urbanizzazione, ai problemi ambientali, alle ricadute -in termini di salute- di conflitti locali e migrazioni, operando nell'ambito di programmi di cooperazione sanitaria promossi da istituzioni governative e non governative.

I programmi moderni di Salute Internazionale sono diventati un fenomeno largamente diffuso dopo la II guerra mondiale, connessi alla politica estera delle nazioni industrializzate occidentali che continuavano a utilizzare gli interventi sanitari come strategia per tentare di conquistare o mantenere politiche nazionali di controllo in epoca post-coloniale. Mentre però le poche, grandi, agenzie internazionali a partire dagli anni Settanta si sono concentrate sempre di più sui problemi sanitari dei paesi a sud del mondo, il WHO è rimasto l'unico punto di riferimento per il controllo delle infezioni internazionali nell'emisfero settentrionale, con un budget piuttosto ridotto (Inhorn, Brown, 1995). Attraverso la creazione dello Special Programme for Research and Training in Tropical Diseases (TDR) nel 1975, il WHO ha tentato di superare la Medicina Tropicale coloniale che vedeva esperti europei andare “sul campo” per brevi periodi, iniziando a implementare programmi di formazione per studiosi nei Paesi in cui le infezioni erano endemiche. Non passò molto tempo che alcune grandi organizzazioni filantropiche (es. la Rockfeller Foundation) affiancarono il WHO nella battaglia contro alcune delle infezioni internazionali.120 Gli anni Ottanta e i primi anni Novanta assistettero a un partenariato importante tra WHO e UNICEF, insieme a una concentrazione delle risorse su programmi di riduzione della mortalità di donne e bambini. Gli anni Novanta furono gli anni in cui nuove malattie come l'AIDS e vecchie malattie come la Malaria e la Tubercolosi occuparono la scena principale in seno alla oramai definita Salute Internazionale. Un interlocutore importante nella battaglia alle principali malattie infettive alla fine del secolo era il Center for Disease Control (CDC) statunitense che, congiuntamente al WHO si prefiggeva di rafforzare le attività di sorveglianza; integrare la ricerca di base con programmi di ricerca applicata; produrre avanzamenti nei termini di prevenzione e controllo; rafforzare le infrastrutture dei sistemi sanitari.

Quella di salute “internazionale” è una categoria che quindi è stata ampiamente utilizzata per riferirsi principalmente alle strategie di sorveglianza e di controllo dei confini nazionali (“inter- nazionale”) rispetto alla diffusione di possibili epidemie.

Brown, Cueto e Fee (2006) evidenziano come il passaggio dal paradigma della salute internazionale a quello della salute “globale” sia avvenuto sotto la spinta del WHO che aveva la necessità di ritagliarsi un nuovo ruolo all'interno di una cornice in cui i poteri erano mutati; il WHO, pur cedendo la leadership di potenti iniziative in mano ad altri partner, tentava di “salvare” una posizione di coordinatore, facilitatore, consulente tecnico o anche semplice osservatore. Il termine “globale” non è recente, nel senso che il WHO lo ha sporadicamente utilizzato fin dagli anni Cinquanta per lanciare alcuni dei suoi programmi.121 Tuttavia è dalla metà

120 Per un inquadramento sel ruolo della Banca Mondiale e dei piani di aggiustamento strutturale nei cosiddetti paesi in via di sviluppo (PSV) si veda Stefanini, 1998 e Markel, 2013.

degli anni Novanta che è stato ampiamente utilizzato da attori diversi che operano nel campo della salute, con significati differenti tra loro (Bozorgmehr, 2010), non solo in contesti anglofoni, ma anche francofoni e ispanofoni. La popolarità del termine “globale” potrebbe essere attribuibile alla sua facile applicabilità, per quanto in alcune circostanze sembri piuttosto un "marchio" che un concetto posizionato; un termine di ampia portata, politicamente corretto per indicare qualsiasi programma che si occupi di salute con variabili che si collocano al di fuori dei propri confini (Garay et al., 2013); un “significante” che a prescindere dall'oggetto a cui si riferisce, trasmette un'idea di cambiamento, di post-modernità (Fassin, 2012).

Yach e Bettcher (1998) evidenziano come il paradigma si riferisca al processo di globalizzazione della salute e della sanità pubblica, interpretando la globalizzazione come un processo di crescente interdipendenza e integrazione economica, politica e sociale tra capitali, beni, persone, concetti, immagini, idee tra confini nazionali. Globale si riferisce anche alla natura sovranazionale dei vincoli tra gli attori coinvolti, e dell'uomo con l'ambiente circostante.

Stuckler e Mc Kee (2008) tentano di ricostruire le differenti accezioni che il paradigma attualmente assume. In alcuni casi “salute globale” coincide con 'politica estera' e con obiettivi strategici orientati a promuovere alleanze con paesi verso cui si hanno interessi politici; ad aprire nuove rotte commerciali o a proteggere le aziende farmaceutiche locali.

Altre volte salute globale coincide con 'sicurezza', ed è alla base di politiche sanitarie orientate a proteggere la propria popolazione da malattie trasmissibili che rappresentano una minaccia, o dal bioterrorismo. Tra le malattie dei paesi poveri, è comune che ci si concentri su quelle che possono potenzialmente raggiungere i paesi ricchi. In tal senso non è un caso l'interesse per la sindrome respiratoria acuta, l'influenza aviaria, la tubercolosi resistente ai farmaci, rispetto a patologie neglette come la lebbra.

Gli autori rilevano che salute globale talvolta possa essere intesa anche come 'beneficenza' implicando la promozione della salute come elemento chiave nella lotta contro la povertà. Le priorità sono spesso identificate in base alle visioni che i benefattori hanno sulle vittime, sulla fragilità, sulla meritevolezza di un beneficiante piuttosto che un altro. Da ciò sembra derivare per esempio l'attenzione sulle donne e i bambini, o sulle vittime di catastrofi naturali. Molte delle iniziative in questione enfatizzano la partnership tra soggetti pubblici e privati, finendo in alcuni casi per sovra-rappresentare gli interessi delle istituzioni da cui partono gli aiuti, senza una reale rappresentanza democratica delle persone che intendono sostenere (Garay et al., 2013), alimentando le critiche di chi auspica una maggiore problematizzazione delle relazioni nord-sud del mondo, delle ripercussioni delle politiche storiche occidentali in certi contesti e delle strategie da “internazionale” a “globale” si veda Brown et al., 2011.

che spesso paiono andare a tamponare gli effetti prodotti da azioni che sono -se si va a guardare in profondità- di responsabilità degli stessi attori che si occupano, poi della beneficenza.122

Un'altra delle metafore rilevate da Stuckler e Mc Kee (2008) riguarda la salute globale intesa come 'sviluppo economico'; da ciò deriva l'attenzione sanitaria per i giovani in età produttiva, e per patologie che possono rappresentare un freno alla crescita economica come l'AIDS, la malaria o alcune malattie veterinarie. Infine salute globale può essere intesa come 'sanità pubblica', con lo scopo di ridurre il carico mondiale di malattia andando alla ricerca dei principali fattori di rischio. Gli autori enfatizzano come raramente si segua soltanto un principio, e come il risultato finale sia frutto di interessi da parte di attori diversi che non sempre esplicitano la metafora che stanno utilizzando, con l'effetto di produrre politiche sanitarie anche contraddittorie. In tal senso Fassin (2012) -che parla di salute globale come di un oggetto “oscuro”- invita a pensare la globalizzazione della salute come fenomeno tutt'altro che omogeneo, ma eterogeneo, storico, locale. La salute è anche e soprattutto un “affare” nazionale, e può essere riconfigurata come bene comune all'interno di quei contesti che definiscono di volta in volta le condizioni che separano chi vi ha accesso da chi vi è escluso.

Nel tentativo di definirlo non solo come 'significante' ma anche come 'significato', lo studioso francese rileva come parlare di salute globale si riferisca a tutta una serie di fenomeni. Innanzitutto a fenomeni epidemiologici, alla luce di una duplice trasformazione del profilo della popolazione vincolato sia all'aumento delle disuguaglianze -tra paesi e dentro alle singole nazioni-, sia al peso crescente delle malattie cardiovascolari e metaboliche insieme alla diffusione delle infezioni e al rilevamento dei problemi di salute mentale, a lungo ignorati nei paesi più poveri. La salute globale si riferisce anche a questioni demografiche, e di “mobilità” transnazionale, alla luce delle migrazioni accelerate dall'impatto di guerre, violenze, miseria. A ciò si aggiunge la mobilità dei professionisti sanitari che migrano alla ricerca di contesti lavorativi migliori, e di pazienti che si spostano in contesti sanitari più sostenibili.

Fassin individua un altro aspetto significativo in seno a quella che definiamo salute globale, che sono i fenomeni economici connessi alle multinazionali farmaceutiche, agli interessi inerenti farmaci e brevetti, e anche alla monetizzazione di “parti del corpo” come esplicitato da ricercatori che si sono occupati, per esempio, di trapianti di organo (Scheper-Huges, Wacquant, 2005). Si pensi anche all'esportazione di competenze e tecnologie, alla base di molti programmi di sviluppo e di iniziative di cooperazione sanitaria. Fassin invita a pensare al fatto che la salute globale esiste grazie a un enorme apparato istituzionale e burocratico che coinvolge agenzie internazionali,

122 Il termine globale, per esempio, viene ampiamente utilizzato anche da grandi filantropi che hanno una enorme influenza nella gestione delle risorse sanitarie, come la Bill e Melinda Gates Foundation. Si veda Markel, 2013.

ONG, attori filantropici e religiosi, Università, fondazioni, industrie. Infine la salute globale presuppone un network sociale su scala transnazionale che plasma azioni, valori, lotte.

Coerentemente con quanto enfatizzato da Stuckler e Mc Kee (2008), Fassin (2012) rileva come i discorsi di salute globale vengano indirettamente associati a due distinte configurazioni semantiche; una vincolata all'idea di sicurezza, controllo e sorveglianza (cambiamenti climatici, terrorismo, pandemie etc.), l'altra a sentimenti di compassione e solidarietà (vittime di violenze, disastri, carestie etc.). I due orizzonti semantici non si escludono necessariamente; basti pensare alle frequenti e contraddittorie sovrapposizioni dei discorsi umanitari e militari (Fassin, Pandolfi, 2010).

Garay, Harris e Walsh (2013) enfatizzano come, quando applicato alla salute, definita dal WHO (1946) come uno stato di completo benessere fisico, mentale, sociale e non mera assenza di malattia o infermità, il termine globale possa riferirsi innanzitutto alla salute della popolazione mondiale nel suo complesso: una salute per tutti, configurata in termini di equità, e anche al coinvolgimento di una vasta gamma di attori che operano nell'ambito della salute, una salute da parte di tutti, quindi, in termini di partecipazione. Entrambi questi principi presuppongono un coinvolgimento attivo, informato, inclusivo delle persone e dei gruppi alle strategie sanitarie. Infine, globale può inoltre riferirsi a un concetto ampio, olistico delle dimensioni e dei determinanti della salute (Commission on the Social Determinants Of Health, 2008; Stefanini, 1999a) che richiede un approccio multi-settoriale: una salute in tutto (in tutte le politiche), configurata in termini di coerenza. Questi tre principi "globali" sono stati di recente riaffermati nel World Health Report del 2009 (WHO, 2009b), riconfermando quelli stabiliti nel 1978 dalla conferenza di Alma-Ata (WHO, 1978). Tuttavia spesso i programmi e le strategie sono sbilanciati su specifiche patologie o gruppi, quindi “non per tutti” né “in tutto”, attraverso una serie di attori la cui rappresentanza è distorta dal loro peso politico-economico, dunque “non da tutti” (Garay et al., 2013).

Per tirare le fila su un discorso tanto variegato, voglio enfatizzare il fatto che la complessità del concetto e la sua “utilizzabilità” teorica e pratica, impiegato da soggetti molto diversi, rischia di far perdere quei connotati di critica sociale che io rilevo centrali e con cui lo utilizzo in questo lavoro, come cornice in cui riconfigurare la mia pratica di ricerca scientifica. Ciò deriva da una serie di riflessioni attraverso cui, insieme ai colleghi del CSI, si è tentato di arrivare a una definizione condivisa del paradigma di salute globale. Un paradigma che, superando il concetto medicina tropicale prima e di salute internazionale poi, tenta di “tenere insieme” le componenti socio- economiche, politiche, demografiche, giuridiche e ambientali della salute e dell'assistenza sanitaria, indagando il rapporto tra globalizzazione e salute in termini di equità, diritti umani, sostenibilità. L'adozione di una visione transnazionale permette di rileggere attraverso la lente della giustizia

sociale le disuguaglianze di salute esistenti all'interno dei singoli contesti e tra paesi; disuguaglianze che permettono di riformulare il concetto di “rischio” in epidemiologia, spostando l'attenzione dai comportamenti individuali ai fattori strutturali che determinano quei comportamenti (Farmer, 1999, 2004; Janes, Corbett, 2009).

Attraverso questa riformulazione, parlare nei termini della salute globale significa parlare di etica, di responsabilità sociale estesa ai diversi settori del campo della salute che attraverso un moto circolare (la ricerca dovrebbe dare “sostanza” alla formazione dei professionisti sanitari che a loro volta dovranno traslare visioni e obiettivi nelle pratiche quotidiane di assistenza socio-sanitaria) tentano di partecipare ai fenomeni sociali e contribuirne al cambiamento. In questa accezione “globale” è da intendersi come “pubblico”, a disposizione -cioè- di tutti. Tale approccio non sempre è contemplato nei discorsi che fanno appello alla salute globale, né tanto meno soddisfatto. Questa è la ragione per cui una salute globale così posizionata assume connotazioni di attivismo, recuperando quel significato originario con cui la sanità pubblica era nata. «È questa la potente affermazione che emerse negli anni a cui si può fare risalire la nascita di questa disciplina, sia come movimento moderno di idee che come professione: la metà del secolo diciannovesimo. Una tale affermazione riflette infatti lo spirito del 1848, anno in cui movimenti e proteste popolari in tutto il mondo si facevano portatori di ideali quali equità, democrazia, abolizione della schiavitù, emancipazione delle donne, diritti sindacali e lotta all’imperialismo» (Stefanini, 2001:139).

Un'analisi che prevede una molteplicità di sguardi e di strumenti: quello della salute globale è un campo che si struttura in maniera trans-disciplinare. Alcuni studiosi si stanno interrogando su quelli che possono essere i possibili contributi da parte della disciplina antropologica. Ritengo che l'antropologia abbia la grande capacità di guardare alla globalizzazione attraverso una prospettiva locale, e di far emergere quanto locali siano i processi globali, in termini di peculiarità nell'impatto, nei significati, nelle interpretazioni da parte dei soggetti.