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Un passo indietro Una riconfigurazione più generale di alcune

Numerosi studi sulle migrazioni in Europa individuano una fase significativa negli anni Cinquanta, momento storico in cui si configurarono due poli migratori, uno di emigrazione dai paesi meridionali e uno recettore nel centro e nord Europa. In tale fase la migrazione era per lo più economica, transitoria e tendenzialmente maschile. Cachón (2002) rileva che tra il 1955 e il 1974 circa quattro milioni di italiani, due milioni di spagnoli, un milione di portoghesi, un milione di jugoslavi e quasi un milione di greci emigrarono verso i paesi del centro e del nord Europa, oltre che verso destinazioni extra europee. Contemporaneamente si intensificò l'emigrazione dal Maghreb e dalla Turchia che, secondo l'autore, enumerava nel 1987 due milioni di magrebini e due di turchi. Tali processi migratori fanno capo soprattutto al crescente sviluppo economico dei paesi di destinazione che, alla luce di richieste di manodopera dei mercati interni, gestirono i flussi

umani secondo le proprie regole ed esigenze.

Lo stesso Cachón (2002) individua una nuova fase negli anni Settanta in cui si assiste a processi di sedentarizzazione da parte degli immigrati. I flussi migratori, in un primo momento temporanei, per lo meno così interpretati dalle società di approdo, divennero sempre più permanenti, nonostante i numerosi rientri nei paesi di origine, più o meno volontari. Le politiche in materia di immigrazione si fecero progressivamente più restrittive, e la sedentarizzazione sempre più normata.

Intorno alla fine degli anni Ottanta si produsse una fase che vide anche nazioni dell'Europa meridionale come Spagna, Italia, Portogallo, Grecia –contesti di storica emigrazione– diventare lentamente paesi ricettori. Ciò fu dovuto a una serie di circostanze tra cui un aumento delle misure restrittive delle destinazioni tradizionali; la crescita economica che investì anche il sud Europa; i vincoli storico-economici che legavano scambievolmente molti paesi mediterranei, oltre a tutta una serie di ragioni strutturali peculiari nei differenti contesti di emigrazione.

È dunque a partire dagli anni Ottanta, quando l'immigrazione in Italia appariva un fenomeno ormai strutturale, che si rese manifesto in ambito pubblico un interesse sistematico per le dinamiche migratorie. Pinelli (2013) evidenzia come da quel momento, progressivamente, siano andate configurandosi categorie come quelle di 'irregolare', 'extra-comunitario', 'clandestino', e un immaginario connesso alle differenze di genere, di provenienza culturale e di religione. Nei riguardi di queste alterità si prese a utilizzare una retorica emergenziale –si noti l'uso frequente di termini come “urgenza”, “emergenza”, “invasione” (Brigidi, 2009)– con cui si alimentava la sensazione di dover proteggere i valori identitari del paese, oltre ai confini geo-politici57.

Secondo Pinelli (2013: 8), è possibile parlare di una cultura della migrazione, che «indica non solo la pratica del migrare, ma i saperi sedimentati (nei contesti di partenza) rispetto alla mobilità, i desideri e le rappresentazioni della migrazione; la preparazione individuale e collettiva all'evento migratorio. Questi saperi circolano fra le persone, si tramandano e si diffondono sino a influenzare scelte e pratiche dei soggetti e della collettività. Sulla stessa linea è forse possibile pensare a una cultura dell'immigrazione prodotta dai contesti di arrivo […] capace di infondere idee, convinzioni, reazioni» che contribuiscono a rendere accettabili, legittime, politiche di protezione dei confini sempre più restrittive. L'autrice enfatizza come con cultura della migrazione non ci si riferisca soltanto ai saperi istituzionali, ma ai discorsi pubblici che spesso alimentano forme di governamentalità (Foucault, 1994) con cui lo stato-nazione regola la condotta degli individui e alle pratiche soggettive con cui ci si muove nelle maglie degli immaginari

57 Questo tipo di approccio alla migrazione ha radici storiche e permea, ancora oggi, visioni e pratiche politiche. Se ne darà testimonianza nel successivo capitolo, in riferimento alle strategie di presa in carico di infezioni connesse ai flussi migratori, tra cui la Malattia di Chagas. Per un inquadramento teorico, si veda tra gli altri: Benadusi et.al., 2011; Giordano, 2008; Ravenda, 2011; Sorgoni, 2011.

condivisi e degli apparati burocratici.

3.1 Tra Europa e America latina

Se volessimo risalire alle origini dei flussi migratori contemporanei dall'America latina all'Europa, dovremmo ricostruire le ragioni di una disparità economica che affonda le sue radici in cinque secoli di storia. Cinque secoli di colonialismo prima e di neocolonialismo poi, durante i quali risorse (naturali, umane) sono state depredate producendo sfruttamento, povertà, in taluni casi prosperità. Una storia fatta di imperi coloniali che hanno ceduto il posto a nazioni indipendenti; di indipendenze usurpate fin da subito da gruppi minoritari (Galeano, 2006); una storia di sviluppo, ove lo sviluppo è andato configurandosi come un «viaggio con più naufraghi che naviganti» (Galeano, 1971: 101), in cui «l'oro si trasforma in ferraglia e i cibi in veleno» (1971: 3). «L'America latina, scrive Mignolo, è stata inclusa nell'Occidente e contemporaneamente relegata alla sua periferia. A partire dal XVI secolo le narrazioni europee dipingono come inferiori l'intero continente americano e i suoi popoli, finché la guerra ispanico-statunitense del 1898 non riabilita l'America del Nord mantenendo quella del Sud in un ruolo secondario» (Mignolo, 2013: 29). «Il termine America latina non designa un continente, quanto piuttosto il progetto politico con cui le élites creole/meticce ottennero l'indipendenza dalla Spagna e, alla fine del XIX secolo, dal Portogallo, stringendo alleanze economiche con l'Inghilterra e ideologiche con la Francia» (Mignolo, 2013: 15). «Alle élites creole in seguito si aggiunsero i discendenti degli immigrati europei giunti in America del Sud nella seconda metà del XIX secolo. L'ethos della “latinità” attrasse l'immigrazione europea. La politica immigratoria fu una delle misure prese per promuovere il progresso e la civiltà e indirettamente “sbiancare” gli Stati-nazione emergenti» (Mignolo, 2013: 119).

Sader (2013) sostiene che l’America latina non poteva “funzionare”, essendo stata creata non per funzionare ma per essere costantemente subordinata a un mondo cui consegnare le proprie materie prime e la propria forza lavoro. Non è un caso, secondo l'autore, che l'America latina sia stata lo scenario in cui si sono a lungo sperimentati i modelli economici consacrati al capitalismo con le modalità più radicali. «Un’ondata devastante che ha liquidato, fra l’altro, lo Stato sociale cileno e l’autosufficienza energetica dell’Argentina, oltre a lasciare il continente come una regione senza importanza sul piano internazionale, di basso profilo, subordinata alle potenze del centro del sistema, aumentando sempre più la disuguaglianza e la miseria fra di noi».

I processi migratori dall'America latina all'Europa si sono intensificati a partire dagli anni Settanta, quando il boom economico prodotto dalla fine della II Guerra Mondiale ha subito una battuta di

arresto causata dalle crisi petrolifere. L'aumento del prezzo del petrolio ha determinato un po' ovunque la crescita dell'inflazione e il raffreddamento dell'economia, generando una crisi economica mondiale. I paesi del sud del mondo sono stati i primi a necessitare di aiuti economici. Le loro economie, già caratterizzate da fragilità strutturale, si sono viste costrette a pagare cifre rilevanti per far fronte sia all'aumento del prezzo del petrolio, sia al sostentamento dei propri programmi di sviluppo. Iniziò in questo modo quel processo di indebitamento che costrinse diverse nazioni, qualche anno dopo, a rivolgersi a istituti di credito influenti per riuscire a rispondere alle proprie insolvenze economiche. La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale erogarono prestiti a quei paesi che accettarono di adottare politiche di aggiustamento strutturale, che consistevano in una serie di direttive di ordine economico la cui applicazione avrebbe facilitato l'apertura delle economie del sud del mondo al mercato globale (Stefanini, 1997).58 Tali riforme, in linea con le posizioni allora dominanti negli Stati Uniti e in Inghilterra, richiesero ai governi di mobilitare risorse con lo scopo di implementare le entrate dello Stato; di rendere dinamici i risparmi privati e incoraggiare gli investimenti esteri nei mercati locali; di rivedere le priorità degli investimenti pubblici; di liberalizzare il commercio attraverso la rimozione di tasse sulle importazioni e incentivi alle esportazioni; di riformare gli assetti di welfare. Alcune regioni del continente sudamericano, in particolare, si ritrovarono a essere un grande laboratorio ove sperimentare sul campo le teorie neoliberiste, fondate sulla sacralità e sull’effetto taumaturgico di quel libero mercato che governa oggi il disordine mondiale (Hobsbawm, 2007). Dal Cile all’Argentina, dal Brasile all’Uruguay e alla Bolivia, quasi ovunque si trovasse al potere una giunta militare di destra, si poteva intuire la presenza della Scuola di Chicago (Klein, 2007). I Chicago Boys erano un gruppo di economisti cileni che si erano formati nell'Università di Chicago, prima oppositori di Allende, poi consulenti di Pinochet. «Sono stati gli architetti del modello capitalista e competitivo imposto a punta di baionetta dalla Dittatura e per tanti anni additato come “faro di salvezza” per tutta l’America latina dalle grandi istituzioni finanziarie internazionali e da una pletora di economisti cresciuti nel dogma del mercato. Privatizzare le industrie pubbliche, smantellare lo stato sociale (favorendo la nascita di un sistema pensionistico e sanitario privato), attrarre capitale straniero, eliminare le barriere doganali, frenare l’inflazione: era questa la ricetta dei Chicago boys» (Armato, 2008). Una ricetta che fu applicata dalla dittatura cilena e dalle maggiori dittature sudamericane. Bisoffi (2012) rileva come la brutale

58 Due organismi creati nel 1944, nella conferenza di Bretton Woods, con lo scopo di provvedere al finanziamento di progetti di sviluppo nei Paesi membri e di preoccuparsi della stabilità economica internazionale, che operano con medesime visioni politiche e strategiche. Nonostante la Banca Mondiale goda dello status di agenzia delle Nazioni Unite, ha un ordinamento interno proprio. Per statuto il Presidente deve essere degli Stati Uniti. In realtà, pur se in forma implicita, alimenta politiche di mercato che favoriscono il mantenimento dei dislivelli economici tra nord e sud del pianeta. Si veda, tra gli altri, Stefanini, 1997.

violenza agita dai regimi dittatoriali sia stata uno strumento atto a garantire l’applicazione di certe strategie economiche.

Anziché ridurre il debito dei paesi coinvolti, tali strategie ebbero l'effetto di indebolirli ulteriormente.59

3.2 Le radici storiche della vulnerabilità sanitaria

Gli anni Ottanta si chiusero con l'ingerenza delle logiche di mercato anche nel campo della salute, quando la Banca Mondiale riuscì a superare, sia dal punto di vista economico che tecnico, il ruolo di autorità dell'Organizzazione Mondiale della Salute (WHO) che intanto attraversava una crisi di leadership, dettando le condizioni, anche in ambito sanitario, a chi auspicasse a un finanziamento: i cittadini dovevano partecipare alla spesa sanitaria anche nelle strutture pubbliche; dovevano essere creati programmi assicurativi che introducessero assicurazioni sulle malattie; i sistemi sanitari dovevano essere progressivamente privatizzati e decentralizzati (The World Bank, 1987). Mi sembra significativo rilevare come le ricadute nella vita quotidiana di tali modelli organizzativi siano state sperimentate da molti degli immigrati che vivono oggi nel nostro contesto, e siano alla base dell'immaginario con cui essi oggi decodificano il funzionamento dei servizi socio-sanitari locali e ne fanno uso.

La fine delle dittature di certo non decretò la crisi del neoliberismo che oggi continua a dominare lo scenario politico-economico, tanto più dopo la caduta del blocco socialista, da più parti interpretata come definitiva dimostrazione del trionfo dell’economia capitalista e dei modelli democratici occidentali. Eppure nel 1989 era già chiaro come le politiche di aggiustamento strutturale avessero accentuato, tra le altre cose, l'incapacità degli Stati 'beneficiari' di provvedere alla salute dei propri cittadini in maniera sistematica, oltre ad aver sancito l'ingerenza del settore privato (anche) nella gestione della sanità.60 A tali cambiamenti di ordine gestionale, si andavano accompagnando trasformazioni ideologiche e strutturali che dequalificavano il livello primario di assistenza sanitaria, la Primary Health Care (Assistenza Medica di Base), il cui valore era stato

59 È indispensabile notare come oggi considerevoli, espliciti segnali di critica alle politiche neoliberiste giungono proprio dall'America latina, ove sentimenti socialisti, nazionalisti, populisti, hanno in qualche modo tenuto viva una tradizione antiliberista che ha dato vita, nei diversi contesti, a esperimenti differenti (Mignolo, 2013). A ciò si deve, come rileva Sader (2013), la costruzione di processi di integrazione regionale autonomi rispetto agli Stati Uniti e la centralità di alcune economie che hanno prodotto crescita e ridotto disuguaglianze anche quando la crisi economica ha trascinato nella stagnazione i paesi del centro del capitalismo. Tali dinamiche stanno riconfigurando profondamente gli scenari socio-economici e le rotte migratorie. Verosimilmente rinnovati cammini umani torneranno a volgere dall'Europa all'America centro-meridionale.

60 Nella mia tesi di laurea specialistica ho analizzato le ricadute di tali orientamenti politici in ambito sanitario sulle specifiche strategie di presa in carico peculiare della Malattia di Chagas (Ciannameo, 2009).

riconosciuto qualche anno prima nella dichiarazione di Alma Ata61, in nome di una sempre maggiore Selective Health Care (Assistenza Medica Selettiva) (Maciocco, Stefanini, 2007). Erano cioè favoriti approcci settoriali e verticali, strettamente mirati a specifiche patologie, largamente finanziati dal settore privato, anziché operare attraverso pianificazioni congiunte (Stefanini, 2001). Si trattava di strategie spesso implementate senza considerare le priorità dei paesi riceventi, con modalità talvolta contraddittorie rispetto a quelle già esistenti; volte a obiettivi di breve termine e incapaci di contemplare le condizioni più generali di salute delle persone che necessitano, nel lungo termine, di un approccio sistemico, non episodico o 'emergenziale'.

Le ripercussioni di un certo tipo di approccio politico-economico sono evidenti oggi più che mai. Kleinman (2011) rileva le tracce delle politiche neoliberiste nelle nostre città contemporanee che sono pregne di sofferenza; una sofferenza che è conseguenza della progressiva riduzione della classe media; della pressione sulla classe operaia; della concentrazione della ricchezza nelle mani di sempre meno persone; dell'erosione del contratto sociale tra ricchi e poveri. Alienazione, marginalità, disoccupazione, criminalità, numero crescente di senza tetto, sofferenza mentale, dipendenze: sono solo alcuni dei segni di una crisi urbana ormai dilagante che non risparmia i paesi ricchi. Una crisi contemporanea del capitalismo finanziario che sta accrescendo la vulnerabilità degli individui, rendendoli incapaci di lottare contro la discriminazione, l’intolleranza religiosa, gli abusi della classe politica, l’indifferenza.