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6. Visioni, percezioni e pratiche dell'emergenza

6.2 Chagas come fenomeno europeo emergente

L'entrata del Chagas come fenomeno emergente nella scena pubblica europea è avvenuta attraverso la voce di due protagonisti autorevoli; innanzitutto attraverso la voce di scienziati afferenti al campo della medicina tropicale, poi da parte delle agenzie istituzionali internazionali, il WHO in primo luogo. Entrambi, appunto, hanno promosso una certa rappresentazione del fenomeno, che cercherò di analizzare, definendolo, come ho già detto, “emergente”.

L'utilizzo italiano del termine emergente, participio presente del verbo “emergere” (inglese to emerge) indica una circostanza che viene fuori, che affiora, che si rende manifesta. Nell'utilizzo comune, il termine può indicare anche un caso inatteso, imprevisto, un accidente123, nell'accezione che lo accomuna al sostantivo “emergenza”, riferito a una situazione critica, di grave pericolo tanto da richiedere l'adozione di un intervento immediato, eccezionale, urgente (sull’esempio dell’inglese emergency).

Affinché una malattia venga percepita nei termini dell'emergenza e riconfigurata come tale, viene spesso trattata, sulla scena pubblica, considerando la presenza numerica come dato rilevante, con lo scopo di giustificare l'attenzione da parte delle istituzioni e il conseguente investimento in strategie di intervento.

Quello che non entra nei discorsi pubblici sono i molteplici significati per i soggetti e le comunità che sperimentano ogni singolo fenomeno sanitario, significati che cambiano nel tempo; tuttavia l'utilizzo di termini tecnici tende a omogeneizzare, cancellare, smentire la molteplicità delle esperienze di sofferenza. La stessa categoria di transizione epidemiologica ha subito critiche rilevanti che hanno evidenziato come il concetto ipotizzasse un progresso mono-dimensionale lungo un modello di evoluzione uni-lineare, dando per scontato che ogni fase della transizione fosse più avanzata e desiderabile delle precedenti. I termini di questo approccio che ancora oggi è utilizzato dall'epidemiologia classica vertono quasi esclusivamente su indici quali la mortalità e la longevità, senza riuscire a contemplare fattori come la qualità di vita e il buen vivir (utilizzando le parole di

123 Cfr. Grande Dizionario Italiano Hoepli

Alvaro), il benessere.

A

lcuni studiosi hanno inoltre evidenziato come il fatto di utilizzare spesso unità di analisi enormi (intere nazioni, per esempio), ha finito appunto per “seppellire” nelle statistiche demografiche l'eterogeneità delle forme con cui fattori come il genere, la razza, la cultura, la classe socio-economica, incidano all'interno dei gruppi interessati dalla singola transizione epidemiologica (Gaylin, Kates, 1997).

Una critica altrettanto incisiva è stata mossa nei confronti dell'utilizzo della categoria di “malattie infettive emergenti” con cui ci si è voluti focalizzare quasi esclusivamente sull'emergere di nuovi agenti patogeni, piuttosto che enfatizzare il ri-emergere -questa volta dentro a società opulente- di vecchi fenomeni che non sono mai scomparsi nei contesti più poveri (Farmer, 1996).

Il linguaggio autorevole e apparentemente neutro della statistica e dell'epidemiologia spesso travolge il senso degli “incontri” umani con infezioni ed epidemie. Quello che in questo lavoro si sta invece cercando di dimostrare è come la rappresentazione culturale della causa eziologica; le storie familiari; il timore del contagio; il senso di vergogna e di colpa; l'isolamento dei malati siano dimensioni che, pur influendo sulle pratiche dei soggetti, finiscono spesso per essere mascherate dalle statistiche che poi orientano non solo i modi con cui le malattie vengono tradotte pubblicamente, ma anche le politiche locali e internazionali volte alla loro gestione (Briggs, Martini-Briggs, 2003). Il riconoscimento da parte delle autorità istituzionali e dei media appare quindi essere contingente tanto quanto il riconoscimento da parte di chi sperimenta, soffre, ricorda, interpreta la malattia (Sawchuk, 2010), tuttavia le forme con cui l'infezione viene sperimentata attraverso il corpo “passa” prima per una interiorizzazione che avviene attraverso i media (Briggs, Martini-Briggs, 2003).

Questo tipo di inquadramento può probabilmente orientarci nella comprensione delle distinte percezioni della malattia di Chagas da parte di Desideria, Dolores, Sami, Alvaro e -come vedremo più avanti- Juan Manuel, Rosa Maria, così come della sofferenza di Aretha, che condividono il fatto di essere 'latinoamericani' e di vivere in Emilia-Romagna. Può inoltre orientarci in una riflessione sulle forme con cui il Chagas è stato rappresentato nell'arena pubblica europea quale area non endemica di immigrazione.

Un'analisi delle principali lavori realizzati in Europa mostra come il fenomeno sia stato innanzitutto reso manifesto come un problema di pertinenza della medicina tropicale. In alcuni casi l'ambito disciplinare degli esperti legittimati a definire il fenomeno è stato la salute internazionale, poi la salute globale. Nella maggior parte dei casi si è trattato di esperti che, sull’onda dei cambiamenti semantici, si sono ricollocati nell’ambito della salute globale mantenendo però il quadro concettuale della salute internazionale e della medicina tropicale.

Tali esperti hanno fondamentalmente descritto il Chagas come un problema da affrontare nei termini di diagnosi e trattamento (Basile et al., 2011); da una parte nel tentativo di controllare la diffusione di nuovi casi di contagio (tramite trasfusioni, trapianti, o da madre infetta), dall'altra per tentare di incidere sull'evoluzione clinica della patologia (grazie al farmaco antiparassitario e al monitoraggio degli organi potenzialmente a rischio). Pertanto esortano a mettere in rete capacità e competenze locali, nazionali, internazionali, e finanziamenti sia pubblici che privati, per rafforzare unasorveglianza epidemiologica globale della malattia (WHO, 2010d).

Mi sembra rilevante aggiungere a questo punto della riflessione che sia a livello nazionale che internazionale la presa in carico del Chagas sembra essere affidata quasi esclusivamente a centri ospedalieri. Come tenterò di evidenziare nel prossimo capitolo, l'ospedale è il luogo “deputato” alla gestione delle emergenze sanitarie. Il vincolo tra ospedale ed emergenza è reso esplicito anche dal fatto che il nostro Sistema Sanitario Nazionale, sia pure “universalistico”, garantisca a chi non è regolarmente presente in Italia solo cure “urgenti ed essenziali”. Ciò si traduce nel fatto che sia difficilmente accessibile per fenomeni non categorizzati come emergenze.

Nella sua organizzazione strutturale, l'ospedale pare essere poco capace di rilevare e rispondere adeguatamente a forme di complessità sociale e sanitaria di cui spesso il paziente immigrato è portatore. Inoltre rappresenta un dispositivo che non sembra riuscire ad avere consapevolezza delle condizioni di vita dei pazienti e di tutte quelle cause che, esulando il problema clinico specialistico, si convertono in determinanti di salute e malattia.

Il Chagas, inoltre, è stato presentato come un problema dei “latinoamericani”, vincolato quindi a una categoria di immigrati caratterizzati da una provenienza specifica. La storia della medicina presenta numerosissimi casi di malattie che sono state identificate, nel dibattito pubblico, con l'area di provenienza: la “peste francese” (1598); “il male francese” o “morbo gallico” (sifilide XV-XVI secolo) (Tognotti, 2006); l'“influenza spagnola” (1918-19) o “asiatica” (1956-57) sono solo alcuni esempi. Tuttavia la connotazione che il Chagas assume nell'ambito delle dinamiche migratorie contemporanee ne fanno un pericolo (nei termini dell'emergenza) che -piuttosto che “provenire da”-, “arriva qui attraverso” un certo tipo di persone. La differente sfumatura, per quanto sottile, può aiutarci a comprendere alcune delle ragioni che influiscono sull'aderire o meno da parte dei latinoamericani alle proposte di diagnosi e cura nella realtà dell'Emila-Romagna. Se da una parte il discorso pubblico-scientifico sostiene che tutti i latinoamericani possano potenzialmente essere contagiosi (da cui deriva l'indicazione da parte del WHO a screenare tutti coloro che arrivano da qualunque zona dell'America Latina) (WHO, 2010, 2013), dall'altra il medesimo discorso pubblico parla di una certa America Latina, quella povera, rurale, e con la pelle più scura (ereditando l'immaginario che era stato prodotto dall'altra parte dell'oceano). Non

c'è discorso sul Chagas in Europa (questo è quello che ho rilevato attraverso la mia analisi) che, pur volgendo a descriverne una forma urbana, non contempli certe case, l'insetto vettore, le condizioni socio-economiche tra i determinanti di salute. Tra le ricadute che insieme al mio gruppo di ricerca ho rilevato nel nostro terreno di indagine c'è una notevole tensione alla resistenza da parte di coloro che non vogliono “piegarsi” né alla categoria del Chagas quale infezione dei poveri, né a quella identitaria di latinoamericano, avvertendone i limiti, le contraddizioni, la labilità. Ne deriva che molte delle proposte di partecipazione ai programmi di diagnosi vengono spesso contestate e declinate (fenomeno diffuso in Europa, comunemente spiegato solo in termini di barriere di accesso).

Nel nostro studio -non a caso- la partecipazione è stata declinata in particolar modo da argentini e brasiliani, che avevano già un quadro di riferimento sulla problematica, rispetto a peruviani ed ecuadoriani per i quali l'infezione era nella maggior parte dei casi sconosciuta. Aggiungo che numerose testimonianze da parte di nostri interlocutori possono essere rilette come il tentativo di “significare” la propria esperienza in Italia nei termini dello “stare” come “cittadini” più che come “immigrati”; portatori di tutta una serie di bisogni sanitari percepiti come maggiormente rilevanti rispetto a quanto li vincolerebbe a un “gruppo a rischio” per il Chagas. Percezioni che, se non colte, possono finire per amplificare quella distanza, che spesso esiste e che abbiamo rilevato, tra persone e servizi sanitari, oltre ad amplificare la fragilità delle strategie di controllo (così parlerebbe un medico di sanità pubblica), mantenendo alcuni casi di Chagas non diagnosticati. Un altro elemento centrale nella costruzione del Chagas come fenomeno pubblico è la tendenza, da parte degli esperti, a circoscrivere il problema ai soli boliviani, che effettivamente provengono dal paese di maggiore endemia.124 Negli ultimi anni si è assistito a un dibattito, avanzato in modo particolare da alcuni studiosi spagnoli125, rispetto alla possibilità di screenare i soli boliviani, coerentemente con un rapporto costi/benefici. Se da un lato è vero che sia i maggiori esperti spagnoli, sia il WHO continuino a convenire sulla necessità di coinvolgere nei programmi di screening tutti i latinoamericani, alcune osservazioni e colloqui realizzati con operatori sanitari a Barcellona126 hanno rilevato delle pratiche informali con cui si tendeva a diffondere le informazioni sulla malattia solo tra i boliviani, e a promuovere l'accesso alla diagnosi solo per i boliviani. Si verificava una pericolosa sovrapposizione tra l'essere boliviano e la condizione naturale di Chagas-positivo. Le ragioni che venivano implicitamente evocate per spiegare tali

124 Prevalenza malattia di Chagas negli immigrati provenienti dal Sud America: 4,2%, Bolivia 17,8% (Angheben et al., 2011).

125 La Spagna è il Paese che ha maggiormente lavorato sul tema, coerentemente col fatto di rappresentare il contesto europeo di maggiore immigrazione dall'America Latina; rappresenta quindi uno dei “laboratori” più vivaci nella produzione di discorsi e pratiche vincolate alla malattia di Chagas in Europa.

126 Durante i mesi di studio presso l'Università di Tarragona ho avuto modo di interagire con numerosi operatori che lavoravano nella città di Barcellona.

dinamiche avevano a che fare con una crescente scarsità di farmaci e di risorse in generale, dunque con la volontà di “massimizzare” in qualche modo gli sforzi. Avevano inoltre a che fare col fatto che i boliviani fossero percepiti come particolarmente “docili”; che seguissero le indicazioni senza avanzare richieste di altro tipo, e che quindi con loro “fosse più facile rispetto ad altri latinoamericani, come gli ecuadoriani, da cui poi non ci si liberava più perché iniziavano a presentarsi con una serie di altre necessità pressanti, e a pretendere” (M. medico, 36 anni, Barcellona).

A tal riguardo, l'antropologia ha in più occasioni rilevato come gli individui, una volta inseriti in una categoria di rischio, finiscano per essere separati da altre risorse e fonti di identità, stigmatizzati per definizione, lungo l'asse dell'alterità. Schoepf (2001) evidenzia come, a livello percettivo, la categoria di “rischio” possa accompagnarsi con quella di “pericolosità”, che dal canto suo può finire per alimentare una percezione dell'individuo a rischio come moralmente contagioso (Schoepf, 2001). Si tratta di una categoria che diventa ancora più produttiva nell'attuale momento storico, alla luce di un immaginario diffuso che spesso fa dell'“altro” straniero un veicolo di malattia e contaminazione (morale).

Come già emerso attraverso le parole di Alvaro, il Chagas, nei resoconti di alcuni interlocutori boliviani nel nostro contesto, emerge come una categoria densa di significati che alludono alla propria storia familiare, a ipotetici errori o colpe; a una qualche infrazione dell'equilibrio tra se, la propria famiglia e il proprio mondo. Espressioni simili a “ce l'abbiamo perché siamo boliviani”, “ci controllano perché siamo boliviani”, “dicono che è normale per i boliviani”, “questo è un problema di appartenenza”, “se sono boliviano, vuol dire che sono anche questo” sono emerse attraverso diverse voci. Fino a una frase di Alvaro che aveva attirato particolarmente la mia attenzione: “Questa è una cosa che fa morire, che ci uccide. Ma perché ce l'abbiamo solo noi; non sarà che siamo un popolo dannato?”

Queste percezioni sono in parte il frutto di un immaginario che proviene dai paesi endemici, alla luce però di una reinterpretazione che sta avvenendo nei nostri contesti di immigrazione. E parla, tra le altre cose, di una progressiva naturalizzazione del fenomeno come attributo naturale dell'essere nati boliviani.

Tornando a un discorso più ampio, mi sembra ora più comprensibile quella resistenza che abbiamo osservato di frequente nei latinoamericani verso certe categorie. Una resistenza che pare in qualche modo essere un responso popolare nei confronti di modelli di integrazione contraddittori, che si basano su logiche di assimilazione ed esclusione; nei confronti di una relazione tra Stato e immigrati che sempre più spesso si articola nei soli termini del controllo. È in tal senso possibile rilevare come gli esperti di Chagas mostrino esplicitamente come una delle

maggiori preoccupazioni (in termini di gestione del problema sanitario) sia vincolata al fatto che migliaia di latinoamericani in Europa siano “clandestini” (Dias, 2013).

Resta un aspetto da problematizzare, un aspetto che in qualche modo chiude il cerchio tra visioni e pratiche. L'emergenza porta in seno una modalità peculiare di agire. “La gestione avviene in modo molto variegato, più per tentativi che in base a una politica strutturata, individuando di volta in volta delle priorità, delle emergenze, che improvvisamente svaniscono e si rivelano essere dei problemi secondari di fronte all'emergere di problemi di altro tipo”.127

Questo tipo di approccio sembra tra l'altro essere coerente con la modalità con cui nell'attuale momento storico-politico viene gestita la maggior parte dei fenomeni connessi alla migrazione, presi in carico come emergenze, come “stati di eccezione” insostenibili sul piano teorico e giuridico (si pensi all'“emergenza profughi”, all'“emergenza freddo” etc.). Diciamo pure che l'antropologia ha riflettuto ampiamente su quelle che definisce delle retoriche emergenziali utilizzate da sistemi istituzionali che si limitano a “tamponare” i sintomi di corpi (solo) quando visibilmente soffrono -o producono pericolo-, senza andare a farsi carico delle cause e delle responsabilità più strutturali (Peneff, 1992; Fassin, 2000, 2006a). Attraverso il concetto foucaultiano di biopolitica128, nella prospettiva della nuda vita (Agamben, 1995), ove per nuda vita si intende un'esistenza intesa in termini meramente biologici, è per esempio possibile riflettere sulle contraddizioni delle politiche in materia di immigrazione, laddove i dispositivi volti a regolamentare nei confini europei hanno visto uno slittamento dal diritto di asilo al diritto di cura. Se da un lato la cittadinanza rappresenta il fondamento della rivendicazione dei propri diritti, dall'altro gli immigrati “irregolari” non esistono come detentori di diritti, se non nel caso in cui ad essere messa a rischio è la loro esistenza meramente organica da salvare (Fassin, 2001a, 2001b; Pandolfi, 2005).

La presa in carico delle infezioni neglette in Europa e in Italia sembra figlia di questa modalità di azione. Gli esperti, coloro che si occupano del Chagas e di altre infezioni simili, paiono costantemente impegnati nel dover mantenere vivo il carattere emergenziale dei problemi, in modo da mantenere parimenti viva l'attenzione da parte delle istituzioni sanitarie e delle agenzie nazionali e internazionali (il sostegno economico insieme all'attenzione). La gestione emergenziale produce -in termini- delle strategie che non riescono ad affrontare i fenomeni andando ad approfondire e a farsi carico delle loro cause profonde. Ne è una testimonianza il fatto che la “cura” del Chagas si limiti a una risposta meramente biomedica.

127 Funzionario Agenzia Sanitaria e Sociale Regionale. Materiale condiviso da Michele Cerni (2012).

128 Il termine biopolitica (composto da bìos "βίος", vita e da polis "πολις", città) si riferisce a un concetto proposto da Georges Bataille all'inizio del Novecento, poi divenuto centrale nell'opera di Michel Foucault a metà degli anni settanta. Per Foucault la biopolitica è la modalità con cui il biopotere di matrice capitalistica gestisce individui e popolazioni disciplinandone il corpo.

Un aspetto estremamente interessante riguarda il fatto che, come detto in precedenza, gran parte dei lavori sul Chagas in Europa ne cita esplicitamente la natura socio-economica. Non è da sottovalutare il fatto che siano stati pubblicati articoli sulle riviste scientifiche più prestigiose; siano sorte iniziative non governative e partenariati pubblico-privato e, come detto in precedenza, durante la 63ª Assemblea Mondiale della Sanità, è stata stilata una risoluzione con cui si è proposto un approccio ampio e interdisciplinare (WHO, 2010d). Gli esperti -ciò è visibile nelle fonti prodotte- rilevano la necessità di guardare ai determinanti più ampi della malattia, e quindi di contemplarne aspetti soggettivi, sociali, culturali (Albajar-Viñas, 2011, 2012). Le fonti esplicitano, tra le altre cose, la necessità di non operare solo a livello specialistico (come per altro continua ad avvenire) ma di coinvolgere il livello primario dell'assistenza sanitaria (Albajar-Viñas, 2007; WHO, 2010).

Devo dire che in questi anni di ricerca insieme alle mie colleghe siamo riuscite a incontrare e a interagire con la maggior parte degli esperti europei. Mi sono ritrovata sempre nella stessa situazione. I termini del discorso erano:

- “A cosa si deve secondo lei la diffusione del Chagas?”

- “Povertà, mancanza di informazione, vulnerabilità, scarso accesso alle risorse sanitarie”. - “Quindi se lei avesse la possibilità di fare qualcosa a riguardo, cosa farebbe?”

- “Beh” -questa la risposta- “investirei risorse per nuovi metodi diagnostici e nuovi farmaci!”. Sono testimonianze, queste, che rilevano una contraddizione in termini tra i problemi e le soluzioni; tra le cause e gli strumenti. Come avevano detto Kreimer e Zabala (2007), se il fattore decisivo per la risoluzione del problema rimane vincolato a un certo tipo di comprensione (diagnostica, farmacologica, biomedica nel nostro casi)129, ne deriva che variabili di altro tipo come quelle sociali, culturali, simboliche, sia pur contemplate esplicitamente, restano implicitamente poco indagate e per nulla risolte.