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Vale a questo punto la pena aprire una breve parentesi sull’approccio metodologico che si è scelto di adottare all’interno del presente studio. Per farlo, occorre specificare meglio quel che si intende in questa sede per prodotto

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G.MANZOLI –F.NEGRI, Modi della circolazione neomediale del cinema politico italiano, op. cit.

culturale, cercando di cogliere rispetto a questo concetto eventuali implicazioni semantiche – tendenzialmente contraddittorie – che il più delle volte vengono scarsamente prese in considerazione.

Come tutti sanno, il concetto di industria culturale, e con esso quello di prodotto culturale, nasce già condizionato da un vizio di forma, o meglio da un “vizio di formazione”. Storica, ovverossia ideologica. Non a caso, la prima volta in cui compare il termine stesso di “industria culturale” avviene all’interno dell’opera Dialettica dell’illuminismo30 dei filosofi tedeschi Theodor Adorno e Max Horkhemier, edita – lo ricordiamo – nel 1947, e viene utilizzato per definire la produzione del materiale d’intrattenimento della società massificata e il processo di riduzione della cultura a merce. Una definizione tutt’altro che priva di connotazioni politiche, ovviamente. Il concetto, infatti, viene affrontato in modo approfondito nella terza parte del volume, non a caso intitolata L’industria culturale – Quando l’illuminismo diventa mistificazione di massa, ed implica per l’appunto una visione espressamente manipolatoria e predeterminata del sistema culturale, in cui opererebbe, secondo l’opinione dei francofortesi, una cultura egemone volta a creare consenso tramite la produzione e la circolazione tra le classi proletarie di determinati prodotti di evasione che propagandino intenzionalmente – e il più delle volte in modo occulto – l’ideologia borghese e capitalista. In sostanza, una concezione totalmente passiva del consumo culturale. Come afferma Adorno:

Devi adattarti, senza specificare a che cosa; adattarti a ciò che immediatamente è, e a ciò che, senza riflessione tua, come riflesso della potenza e onnipotenza dell’esistente, costituisce la mentalità comune.31 Va da sé che, tra i settori produttivi più prolifici ed efficaci in tal senso, Adorno citi l’industria cinematografica, fabbrica dei sogni per antonomasia, “popolare” – nell’accezione denigratoria del termine – fin dalla sua prima

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T.ADORNO –M.HORKHEIMER, Dialektik der Aufklärung, Querido, Amsterdam 1947, trad. it. di R. Solmi, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino, 1997.

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apparizione, in grado di provocare un blocco totale delle facoltà critico- riflessive dello spettatore. Sogni, ovvero strumenti di alienazione, ovvero fuga dalla realtà (escape) nel consolante e instupidente mondo dell’amusement, «sorta di prolungamento del lavoro nell’epoca del tardo capitalismo».32 In questo sistema «divertirsi significa essere d’accordo. Divertirsi significa ogni volta: non doverci pensare, dimenticare il dolore anche là dove viene mostrato».33

Non è qui il caso di ripercorrere l’ampio – e altrettanto noto – dibattito che ha poi visto scontrarsi per tutti i decenni successivi quelli che Umberto Eco ha definito gli apocalittici e gli integrati.34 Ciò che preme qui sottolineare è l’esplicita distinzione nel pensiero dei francofortesi tra due idee di cultura, l’una cosiddetta “alta”, nobile, utile per una coltivazione etico-morale dell’individuo, tendenzialmente impegnata – sicuramente non divertente – che si identificherebbe con un insieme di testi e di pratiche che non troverebbero invece spazio nella cultura di massa, ovvero l’altra, considerata per antitesi “bassa”, volgare. Appunto, popolare. Distinzione che implica ovviamente tutta una serie di assiologie positive nel primo caso, denigratorie nel secondo, e che deriva da una visione fortemente deterministica e determinata della cultura, in cui tali oggetti nascono già caratterizzati secondo l’una o l’altra dimensione. I primi, cioè, provenendo dall’opera di “veri artisti”, in grado di far coincidere ethos ed aesthetica, sarebbero ontologicamente “puri”; i secondi, invece, frutto del mercato di massa, intenzionalmente mistificatori e propagandistici, necessariamente abominevoli. Ciò stabilito senza alcuna possibilità di appello.

32 Ivi, p. 156. 33 Ibidem. 34

Cfr. U.ECO, Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano, 1964. A questo riguardo, fondamentale fu il contributo del sociologo francese Edgar Morin, nel considerare l’industria culturale non solo come strumento ideologico utilizzato per manipolare le coscienze, ma anche quale enorme officina di elaborazioni dei desideri e delle attese collettive. Cfr. E.MORIN, L’esprit du temps: essai sur la culture de masse, Grasset, Parigi, 1962, trad. it. E.MORIN, Lo spirito del tempo, Meltemi editore, Roma, 2002.

Di fronte alle radicali posizioni della Scuola di Francoforte, che liquidano così ferocemente la cultura di massa e relativi prodotti come «merce manipolatoria ed alienante», viene però a svilupparsi per contrasto tutta una serie di movimenti critici volti a una considerevole rivisitazione – e rivalutazione – del ruolo del pubblico nel consumo culturale, secondo la loro ottica tutt’altro che passivo già in epoca pre-adorniana, sostenendo per contro l’idea di una coesistenza fra pluralità di culture (alte, basse, medie) all’interno di uno stesso spazio sociale. Ci si riferisce ovviamente ai contributi sviluppati dalla Scuola di Birmingham e dal suo direttore, John Stuart Hall,35 da cui prenderanno avvio i cosiddetti cultural studies – e a cui si deve l’introduzione di importanti concetti quali il processo di “codifica/decodifica” e quello di “negoziazione” – e i reception studies,36 oltre alle significative riflessioni sviluppate in ambito di sociologia dei processi culturali, tra cui citiamo sopra ogni altro il pensiero di Pierre Bourdieu.37 Tutto ciò porta dapprima a un processo di rivalutazione – leggasi “legittimazione” – della critica rivolta proprio verso quegli oggetti frutto della cultura di massa, fino ad allora considerati indegni di attenzione se non all’interno di analisi demistificatorie, che nel tempo viene poi trasferita agli oggetti medesimi. In altre parole – con estrema gioia di intellettuali ed accademici – chiunque, anche gli stessi rappresentati della cultura egemone, possono ora finalmente «divertirsi a flâner

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Tra i testi più significativi, anche se pleonastico, ricordiamo: S.HALL, Encoding/Decoding, in

Culture, Media, Language: Working Papers in Cultural Studies, 1972-79, Hutchinson, London,

pp. 128-38. E più di recente, S.HALL –M.MELLINO, La cultura e il potere: conversazione sui

cultural studies, Meltemi, Roma, 2007.

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Nell’approccio dei reception studies il prodotto culturale viene considerato come strumento di un’azione sociale parzialmente svincolata dai suoi contenuti e dalle sue forme, e a differenza dell’impostazione semiotica l’attenzione viene focalizzata non più sul testo in sé, ma sul momento della ricezione quale punto di snodo tra comunicazione ed elaborazione dei saperi culturali. Cfr. J. FISKE, Understanding Popular Culture, Routledge, London and New York, 1989 e S. MOORES, Interpreting Audiences. The Etnography of Media Consumption, Sage, London, 1993.

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Tra le opere più significative, citiamo ovviamente P. BOURDIEU, La distinzione. Critica

sociale del gusto, Il Mulino, Bologna, 1983. Rispetto al nostro ambito specifico anche: P.

BOURDIEU, La responsabilità degli intellettuali, Laterza, Bari, 1991; P.BOURDIEU, Campo del

potere e campo intellettuale, Manifestolibri, Roma, 2002 e ancora P. BOURDIEU, Proposta

sui grandi boulevard della cultura di massa»,38 aprendo il campo della propria investigazione al vasto mondo delle serie televisive, dei romanzi Harmony, delle canzonette da Festivalbar e via discorrendo. Il tutto senza vergogna alcuna, perché unanimemente considerati oggetti inseriti a pieno diritto nel sistema culturale contemporaneo. Una (apparente) democratizzazione della cultura e della critica interpretativa, quindi, che non distinguerebbe più – almeno non più aprioristicamente e in chiave ontologica – tra una cultura nobile ed una ignobile, ma piuttosto tra una cultura “legittima o scolastica” ed una “libera” – per rifarsi ancora a Bourdieu – senza alcun giudizio di valore etico-morale implicito.

«Bene, e quindi? – obbietterà qualcuno – Cosa si intende sostenere con questa fiera dell’ovvio?». E’ presto detto. Volendo essere intenzionalmente provocatori, quel che si vuole sostenere è che in realtà non si sia sdoganato un bel nulla e detto processo di democratizzazione culturale sarebbe, per l’appunto, solo apparente. Questo non solo nella pragmatica comune di circolazione dei contenuti mediali – che ovviamente si fa un baffo delle mode accademiche –, dove “cultura alta” e “cultura bassa” quali categorie che distinguono determinati oggetti anche sotto il profilo etico-morale continuano ad essere ampiamente utilizzate (si pensi banalmente al circuito scolastico), ma a ben vedere anche in ambito prettamente critico-teorico. Con questo non si vuole assolutamente sostenere, in una sorta di rivisitazione adorniana, che vi siano oggetti culturali effettivamente più validi di altri, essendo opinione di chi scrive che il concetto di validità – specie in questo settore – sia chiaramente relativo, ovvero relativo a un soggetto e all’uso che egli fa di tali oggetti.39 Si vuole però sostenere che la modalità più frequente con cui viene tuttora utilizzato il concetto di “prodotto culturale” – paradossalmente, ma forse neanche troppo – rimanga ancora legata, in modo più o meno implicito, a quelle che furono le posizioni della Scuola di Francoforte. E quel che è avvenuto in seguito è stato, più che cercare di

38

E.MORIN, Lo spirito del tempo, op. cit, p. 22. 39

Banalizzando, una vanga non è di per sé più valida di un martello, ma se devo scavare una buca, la vanga sarà oggettivamente preferibile al martello.

costruire un diverso approccio analitico al settore dell’industria culturale, piuttosto un (riuscito) tentativo di riabilitare in ambito critico la componente dell’amusement, ovvero della perfetta liceità anche nel settore degli studi scientifici sugli oggetti culturali del dedicarsi a testi evidentemente nati per il puro e semplice scopo di intrattenere. Questo è avvenuto, però, trasferendo su questi oggetti, tipici della produzione popolare, quegli stessi strumenti applicati fino a quel momento alle cosiddette “opere d’arte”. Per intenderci, secondo questa logica, tanto quanto era stato fino ad allora utile ed euristicamente interessante analizzare i Promessi Sposi attraverso gli strumenti offerti, ad esempio, dalla narratologia strutturalista, ugualmente è ora utile ed euristicamente interessante farlo per meglio interpretare un testo come I tre moschettieri o il Codice da Vinci.

Insomma, a tutt’oggi il concetto di “prodotto culturale” continua a identificare un certo tipo di oggetti, ovvero quelli che i vari Adorno, Benjamin, Horkheimer, Marcuse consideravano in antitesi alle opere di matrice artistica, “artigianali” quindi non industriali, “autoriali” quindi non seriali, “impegnate” quindi non di evasione. Di fatto, sull’impeto liberatorio del fantozziano «La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca»,40 si è assistito non tanto a una conseguente rilettura del capolavoro ejzenstejniano in chiave postmoderna, quanto a un florilegio di saggistica dedicata all’estetica d’Er Monnezza o alle implicazioni socio-semiotiche di Giovannona coscialunga. Ciò detto, ovviamente, senza sotto-intendere alcun giudizio di valore rispetto a tali studi, di cui non è in discussione l’interesse e la validità. Quel che si vuole sottolineare in questa sede, piuttosto, è la scarsità di analisi che tentino invece un approccio inverso, volto cioè ad analizzare anche quegli oggetti che il pubblico comune continua ad etichettare quali opere d’arte (nel nostro caso, quali film impegnati)

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Ovvio riferimento al celebre passaggio del film di Luciano Salce, Il secondo tragico Fantozzi (1976). Per altro, la citazione corretta sarebbe «La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca», dove il titolo dell’opera di Sergej Ejzenštejn (nel film, Serghei M. Einstein) è modificata per motivi di diritti d’autore.

essi stessi definibili come “prodotti culturali”, ovvero perfettamente inseriti nel medesimo sistema in cui si trovano a circolare tutti gli altri prodotti dell’industria culturale, quindi rispondenti alle medesime logiche.

L’obiettivo di questa ricerca consiste quindi nel tentare un cambiamento di prospettiva. Analizzare, cioè, un insieme di oggetti a vario titolo accomunabili all’interno della stessa categoria del cinema politico contemporaneo, da un punto di vista potremmo dire “pragmatico”, apparentemente cinico ma necessario, lasciando in secondo piano ogni analisi interpretativa sotto il profilo contenutistico o estetico, se non quando ciò serva per meglio definire le caratteristiche di questi prodotti, in quanto oggetti pensati per uno specifico target. Cercare di capire come il cinema politico – e più in generale il cinema d’autore di cui il primo è parte, come già sottolineato – definisca una propria categoria merceologica, quali le proprietà che la identificano, le forme e le logiche del circuito culturale a cui danno vita. Quale, insomma, il loro business. Cercheremo di studiare le modalità in cui questi film vengono prodotti, distribuiti e immessi sul mercato. E come è normale prassi nel caso dell’analisi di film di stampo esplicitamente commerciale, ci serviremo di termini come target, marketing, posizionamento o merchandising, che suoneranno talvolta inconsueti – se non addirittura blasfemi – venendo applicati a film come Gomorra o I cento passi (cercando anche di capire perché tali termini suonino in questi contesti, per l’appunto, così inconsueti e blasfemi).

Va da sé che tale impostazione metodologica non significa in alcun modo tentare un’opera di de-legittimazione di certo cinema impegnato, quasi fosse una sorta di nemesi al contrario, di vendetta dei già citati Giovannona e Monnezza contro le corazzate di tutte le epoche per le angherie subite negli anni (per altro, quali angherie? visto che sia il Monnezza e soprattutto Giovannona hanno raggiunto molto più pubblico in un solo anno di quanto abbia fatto il Potëmkin nella sua intera carriera). Ricadremmo, altrimenti, nel medesimo – e artefatto – discrimine tra cultura alta e cultura bassa, che nulla ci interessa e a

nulla, preso così in astratto, servirebbe. Non c’è alcuna assiologia insita in questa modalità di approccio, nessun distinguo tra “bene e male”, giusto o sbagliato, arte e non arte, ma solo una constatazione di fatto. Ovvero, che ogni film in circolazione è un film immesso sul mercato. Come e quanto questo film poi guadagni, in termini economici e di pubblico, come esso circoli, su quali presupposti sociali faccia leva, è questione da analizzare. Come e quanto esso sia valido sotto il profilo estetico, storico, culturale, ancora altra cosa, ma che per il momento non sarà al centro della nostra attenzione.