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II. PANORAMICA STORICA

2.3 Gli anni del disimpegno: cinema politico come cinema di genere.

2.3.1 Noir, poliziesco e poliziottesco.

Come si è cercato di evidenziare nel capitolo precedente (cfr. 1.2), il cinema politico è un genere. O meglio, un sotto-genere del cinema d’autore, a sua volta definibile in base a topoi ricorrenti e facilmente identificabili, che spesso riguardano soprattutto il meta e il paratesto, ovvero ciò che sta fuori e attorno al film. Non solo, ma ogni film – come ogni opera letteraria – è costruito su più livelli semiotici e spesso contiene elementi della commedia, del dramma, della spy-story, del melodramma. E’ l’aspetto discorsivo tra questi che prevale a dettare poi la cifra dell’opera nel suo complesso. Lungi dall’avventurarsi in una questione complessa e ciclicamente dibattuta come la teoria dei generi, rispetto

alla quale si rimanda al volume di Rick Altman,76 basti qui ricordare che il genere politico nasce di fatto come tutti gli altri generi, ovvero è determinato dallo zeitgeist dell’epoca, lo spirito politicizzato del Sessantotto, che trova comunione di intenti e di aspettative tra pubblico, critica e produttori, e spinge a far risaltare quei film dal contenuto chiaramente politico. I quali, però, sono costruiti in forme e linguaggi spesso diversissimi tra loro (si pensi solamente alla diversità di stile che intercorre tra Rosi e Petri). Non solo, ma all’interno di ogni singolo film sono utilizzati in modi più o meno eterodossi elementi ascrivibili ad altri generi. Sempre rimanendo sui nomi citati, Salvatore Giuliano condivide i registri narrativi del crime movie e della detection story, così come Cadaveri eccellenti e Il caso Mattei. Quest’ultimo, anzi, verrebbe oggi ascritto all’ampia categoria dei biopic. Indagini di Petri, invece, potrebbe rientrare comodamente nel crime e nel noir-poliziesco. Insomma, questo per dire che i registri utilizzati sono molteplici ma comunque sempre ascrivibili alle più consuete tecniche narrative della giallistica (sicuramente, poi, ibridate in modo diverso in funzione della cifra stilistica di ogni autore). Resta comunque una struttura narrativa tradizionale che, nel momento in cui verrà meno la necessità dell’elemento di critica politica, fungerà da terra fertile per la proliferazione di sotto-generi decisamente più standardizzati e depoliticizzati. Si consideri la seguente analisi di Carlo Lizzani, esposta durante un convegno del 1973 dedicato al cinema politico italiano:

Anche il fatto di cronaca nera, in questi ultimi anni, è stato dibattuto sempre di più in un contesto politico, o quanto meno sociologico. […] Si è partiti dal fatto di cronaca, dal quale era estraneo ogni aspetto politico, per arrivare a discorsi sempre più complessi.77

76

R.ALTMAN, Film/Genre, London, BFI, 1999, per avere una prospettiva storica sull’evoluzione della riflessione sul cinema di genere cfr. S.BERRY, Genre, in T.MILLER –R.STAM (eds.), A

Companion to Film Theory, Blackwell, Malden, (Mass)- London, 1999, pp. 25-44 e sui processi

di negoziazione cfr. F.CASETTI, Film Genres. Negotiation Processes and Communicative Pact, in QUARESIMA –RAENGO –VICHI (a cura di), La nascita dei generi cinematografici, ora in ID.

Communicative Negotiation in Cinema and Television, Milano, Vita e Pensiero, 2002.

77

C.LIZZANI, Il cinema politico tra contestazione e consumo, in Atti del convegno: “Il cinema

Nel passaggio riportato Lizzani si riferisce alla crescente produzione, verso i primi anni Settanta, di film basati o interamente incentrati su fatti di cronaca recente o immediatamente passata. Un fenomeno che il regista riconduce alla necessità di collegare l’episodio scandaloso (un crimine efferato, una tragedia pubblica) ad una più allargata analisi della società quale prima causa della devianza umana (in ottica, quindi, anti-lombrosiana). Ma il successo di pellicole basate sul racconto di atti di violenza (fisica e/o psicologica) sarà dettato in modo prioritario dall’interesse dello spettatore per la scena di violenza in sé (censure permettendo) e dalla pruriginosità della storia, più che dalla conseguente critica sociologica sviluppata dal regista di turno. Scrive Cremonini sempre nel ‘73:

Oggi probabilmente questo “cinema politico” è finito, la sua stagione d’oro, come tutte le mode, si è consumata rapidamente. Lo testimoniano i recenti Girolimoni di Damiani e Lo scopone scientifico di Comencini.78

Benché con un certo anticipo sui tempi (e una certa miopia analitica determinata dalle nebbie ideologiche sempre presenti nella redazione di Cinema Nuovo), Cremonini cita non a caso il film di Damiani, Girolimoni – Il mostro di Roma (1972), ricostruzione delle celebri vicende di Gino Girolimoni, accusato ingiustamente di pedofilia e violenza sessuale negli anni del fascismo e condannato a una vita di stenti e a una morte indegna a causa del (voluto) errore giudiziario.79 Quella che di fatto è una pellicola sul tema dell’abuso di potere, sulle deformazioni della stampa scandalistica e le conseguenze nefaste della propaganda del regime fascista, è interpretata non solo dalla critica ma anche dal pubblico come un faits divers, interessante per quella componente morbosa e un po’ ossessiva che soggiace ad ogni racconto criminale.

78

G.CREMONINI, Ideologia della restaurazione nel cinema comico-politico, op. cit., p. 124. 79

Insieme a Gaetano Strazzulla, Damiani pubblicò anche un libro sulla vicenda: Girolimoni: il

La figura di Damiano Damiani è emblematica per comprendere il passaggio da un cinema d’impegno civile a forme cinematografiche ibride, assimilabili per certi versi al nascente filone dei poliziotteschi. Tendenzialmente mortificato dalla critica, che lo definirà sempre un artigiano ma non un artista, è il più “americano” dei registi della sua stagione, vale a dire il più interessato a costruire storie, che sono anche grandi racconti che servono a restituire l’identità di un popolo. E’ anche grazie al respiro narrativo accattivante e alla spettacolarità dei propri film che Damiani riesce a raggiungere un pubblico molto ampio, divenendo uno dei professionisti più ricercati dai produttori dell’epoca (Confessione di un Commissario di Polizia del 1971 incassa 2 miliardi di allora, ed è dodicesimo in una classifica di film italiani dominata da Continuavano a chiamarlo Trinità e Il Decameron). Forse, proprio per questa caratteristica, ovvero per il troppo evidente compromesso con il cinema di consumo e per un certo disinteresse verso questioni di estetica o di poetica, Damiani sarà destinato a un programmatico oblio negli anni a venire, che lo relega a posizioni di secondo piano rispetto ad autori dell’impegno a lui coevi.80 Eppure, agli inizi della sua carriera impegnata – Quien sabe? (1967), a cui segue Il giorno della civetta (1968) – Damiani è considerato alla stregua, se non meglio di registi come Petri e Rosi. Ma la critica ideologica (e non solo quella di allora) difficilmente perdona chi scende a compromessi col mercato e fa in fretta a mettere nel dimenticatoio chi considera un mero mestierante. Questo nonostante il cinema di Damiani, pur “medio” e di mestiere come è stato definito, sia stato di fatto l’unico, con il successo di pubblico che ha saputo ottenere, in grado di protrarre per qualche anno ancora quell’impeto di civilismo che caratterizzò una stagione del cinema italiano a cui tanti, ora, guardano con

80

Come sottolinea il critico Alberto Pezzotta nel suo libro dedicato al regista: «Di certo non ha giovato al suo prestigio che la sua attività sia continuata per tutti gli anni Ottanta e Novanta, instancabile e ostinata, ma via via marginalizzata, rimpicciolita nel piccolo schermo, e anche, va detto senza imbarazzo, con accomodamenti e opere su commissione a volte indifendibili» (A. PEZZOTTA, Ragia Damiano Damiani. Il cinema – La pittura, Cec-Cinemazero-Cineteca del Friuli, Udine-Pordenone, 2004, p. 8).

orgoglio e ammirazione. L’unico che, a differenza di molti suoi colleghi, in epoca contemporanea ha saputo accettare di lavorare per il nemico numero uno della sala, vale a dire la televisione, occupandosi della regia di uno dei migliori prodotti di fiction seriale mai realizzati in Italia (La piovra).81 Come ha sottolineato Alberto Pezzotta:

E’ sul concetto di cinema “medio” che si deve tornare a lavorare, sottraendolo al senso limitativo con cui è stato usato da critici di formazione letteraria. Arcigni nei giudizi, costoro hanno sempre considerato con benevolo paternalismo i registi “medi” come Damiani che, come scolari un po’ testoni, ce la mettono tutta, ma rimangono esclusi dal tempio dell’Arte.82

Chi non ambisce a fregiarsi del titolo di artista, ma lavora in questi anni cavalcando l’onda lunga dei temi raccolti dal cinema politico del decennio appena precedente, sono i cosiddetti mestieranti del nuovo poliziesco, o come sarà poi definito, del “poliziottesco”, vale a dire i vari Di Leo, Steno, Lenzi, Martino, Castellari, che si appropriano di stili e forme del genere impegnato per re-impastarlo in salsa nazional-popolare (percorso speculare al coevo filone dei decamerotici).83 Come spiegano Picchi e Uva, a dare man forte all’evoluzione del genere concorre il contesto storico-politico degli Anni di Piombo:

Il nuovo cinema poliziesco, attraverso un linguaggio pop, parossistico, da fumetto, decide di fare i conti con temi che, dopo il boom economico e l’esplosione delle speranze di cambiamento del decennio precedente, sono diventati negli anni Settanta il recesso economico, il terrorismo, le

81

Sorte condivisa, non a caso, con Florestano Vancini, che viene chiamato a dirigere la seconda stagione della saga nel 1986, dopo l’enorme successo raccolto da Damiani due anni prima. La mini-serie, composta inizialmente da sei puntate, è andata infatti in onda per la prima volta su Rai Uno nel 1984. Con il passare delle puntate ha fatto registrare un’ascesa di audience: da 8 milioni di telespettatori della prima puntata a 15 della sesta.[Fonte: A.GRASSO, Enciclopedia

della televisione, Garzanti, Milano,1996].

82

A.PEZZOTTA, Ragia Damiano Damiani, op. cit., p. 20. 83

Per parallelismo, si può dire che i decamerotici di Edvige Fenech stanno a Pasolini, come i polizziotteschi di Tomas Milian stanno a Petri e Damiani. Come sempre succede, poi, anche questo genere evolve a sua volta nelle forme della commedia comico-grottesca nello stile di Er Monnezza, personaggio culto interpretato dal già citato Tomas Milian, e del duo Bud Spencer e Terence Hill.

bande criminali, gli intrighi politici, la collusione tra malavita e istituzioni.84

La violenza di cui si nutrono quotidianamente i telegiornali dell’epoca riecheggia fin nei titoli di queste pellicole – Milano rovente (1973 - Lenzi), Roma violenta (1975 - Martinelli), Torino violenta (1977 - Ausino), Poliziotti violenti (1976 - Tarantini), Genova a mano armata (1976 - Lanfranchi), Italia a mano armata (1976 - Girolami), Roma a mano armata (1976 - Lenzi)85 – prodotte a ritmi incessanti e in numeri che sfiorano la decina all’anno (nel 1976 se ne contano addirittura 14), a partire dal 1972 fino a tutto il 1977, quando il fenomeno cederà il passo alla versione comico-grottesca che durerà ancora fino ai primissimi anni Novanta.