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Mirare al target Definizione del pubblico.

DANIA FILM

4.1.1 Mirare al target Definizione del pubblico.

Voto Pannella, vedo i film di Bertolucci e leggo Playboy.

(La vergine, il toro e il capricorno, Luciano Martino, 1977)

Ogni bene di consumo possiede, in quanto tale, i suoi consumatori. Ed ogni consumatore, quando non costretto in un regime di monopolio o in uno stato di necessità, è attore (più o meno consapevole, più o meno eterodiretto) delle proprie scelte, condividendole – aspetto di non poco conto – con altri attori all’interno della società in cui agisce e interagisce.

Banalità. Ma che, inspiegabilmente, smettono di essere tali – o meglio, tentano di essere rimosse in quanto tali – qualora l’oggetto di consumo si inscriva in un sistema più propriamente culturale o, in senso lato, “artistico”.172

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Ciò si riscontra anche a livello linguistico, in una diffusa ostilità - non solo tra le classi intellettuali, ma anche tra quelle meno colte - al concetto stesso di “consumo culturale”: un libro, un film, un’opera lirica non si consumano. Tutt’al più si fruiscono o si godono. Il che, per altro, non è poi nemmeno così scorretto, visto e considerato che il termine “consumo”, utilizzato inizialmente per intendere l’appropriazione del singolo di beni materiali in ambito alimentare, implica per l’appunto un processo di consunzione, un’azione unidirezionale che porta alla scomparsa del bene stesso, una volta consumato. Aspetto che, per quanto concerne la sfera dei beni culturali, è invece molto meno significativo.

Come se la scelta di un libro, di un film, di partecipare a una mostra pittorica o a qualsiasi altro evento culturale sia cosa assolutamente diversa, ad esempio, dal comprarsi un determinato paio di scarpe alla moda oppure un abito firmato (lungi, quindi, dalla triviale dinamica del brand shopping), ma piuttosto espressione di una sincera necessità del singolo a colmare quella fame interiore di conoscenza che lo renderebbe più uomo e meno animale. Una scelta, per altro, che la retorica vorrebbe autonoma, svincolata cioè da pressioni esterne, quale frutto della sensibilità del singolo individuo.

In realtà, come già avevano messo in luce in tempi meno sospetti svariati studiosi e sociologi, 173 tra cui il già citato Pierre Bourdieu, anche la cultura – anzi, soprattutto la cultura – è nei fatti un gioco sociale da cui nessuno può uscire, un terreno privilegiato su cui da sempre prendono corpo le dinamiche della distinzione sociale:

[…] dietro ai rapporti statistici tra il capitale scolastico o l’origine sociale e un qualsiasi sapere o una qualsiasi maniera di farlo funzionare, si nascondono relazioni tra gruppi che intrattengono con la cultura rapporti differenti, o addirittura antagonistici, a seconda delle condizioni in cui essi hanno acquisito il loro capitale culturale e a seconda dei mercati sui quali possono ricavarne il profitto maggiore.174

La cultura, quindi, si configura come nient’altro che un’altra – e forse la più potente – tra le merci simboliche che ogni individuo scambia nel processo di definizione della propria e altrui identità, ma soprattutto della propria e altrui classificazione sociale, per la conferma o la rivendicazione di uno status. Ovvero, un insieme di azioni e preferenze manifeste che in nulla differiscono nelle logiche di funzionamento da quelle che regolano le modalità con cui ogni

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Ci riferiamo all’epoca del boom economico e dei decenni appena successivi, quando cioè la retorica della “società consumista che distrugge ogni valore etico e morale” era ancora nella sua fase di allarme, in quella cioè in cui si distruggeva, sì, ma con gaudio. Adesso, invece, diremmo che siamo piuttosto in una fase nostalgica di compianto o auto-commiserazione per quella perduta sobrietà che caratterizzò le epoche dei nostri avi e relative solidità morali.

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individuo sceglie come vestirsi o come arredare la casa in cui abita. In sostanza, una questione di gusti.175

Tornando al discorso che ci interessa, va da sé che anche, se non soprattutto, un certo tipo di cinema come quello politico opera di fatto nello stesso modo, rispondendo cioè alle necessità di rappresentazione simbolica di un preciso gruppo sociale, indirizzato a tale fruizione per motivi legati alla classe di provenienza, all’educazione familiare ricevuta, al capitale scolastico acquisito, all’appartenenza politica dichiarata (la quale deriva a sua volta dai precedenti aspetti). Insomma, prendendo in prestito un termine della comunicazione pubblicitaria, si può dire tranquillamente che anche il cinema politico – come ogni altro prodotto filmico e, più in generale, come ogni altro prodotto culturale – è pensato e sviluppato in funzione di uno specifico target di riferimento.

Il “bersaglio” del cinema politico può essere più o meno ampio, più o meno variegato in base al film che si prende in considerazione. Si possono cioè identificare svariate tipologie di cluster,176 ovvero gruppi ben definiti di persone che hanno degli obiettivi e delle caratteristiche in comune. Per intenderci, è evidente che un prodotto come Barbarossa si rivolge, o presuppone di rivolgersi, a un pubblico ben diverso rispetto a quello per cui è pensato, ad esempio, uno qualsiasi dei film di Nanni Moretti. Ma è anche vero che, nella casistica del cinema politico italiano, registi come Renzo Martinelli rappresentano in linea generale delle eccezioni rispetto ad una produzione che,

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Come specifica Marco Santoro nella prefazione al volume di Bourdieu: «Il gusto – o meglio il giudizio attraverso cui si esprime il gusto – risalta così sociologicamente come un formidabile strumento di classificazione (cioè di percezione e valutazione) sociale, attraverso cui gli agenti classificano gli altri e se stessi (con altri, rispetto ad altri, in contrasto ad altri), e vengono a loro volta classificati» (Ivi, p. XV).

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I cluster sono definiti da indagini, dette indagini psicografiche oppure indagini sinottiche, basate su criteri di analisi socio-demografici e geografici. Tra i criteri demografici, vengono ovviamente presi in considerazione il sesso, l’età, lo stato civile e il numero di figli dell’individuo; tra i criteri sociografici, invece, la classe sociale, il titolo di studio, la professione; mentre tra i criteri geografici, la zona geografica di residenza, l’ampiezza del centro in cui si vive, ecc.

proprio perché erede della tradizione neorealista, si propone se non dichiaratamente “di sinistra”, quanto meno di stampo “partigiano”.177

Volendo quindi tratteggiare a grandi linee le caratteristiche che definiscono il target di riferimento di certo cinema politico contemporaneo, e non potendo purtroppo contare su uno studio espressamente dedicato e basato su precisi dati scientifici (ma che pure ci auguriamo possano essere raccolti in futuro),178 vale la pena riferirsi, per analogia di settore e giusto per avere dei termini di raffronto, a una recente analisi di mercato effettuata dal Manifesto che, soprattutto nei primi anni della sua fondazione, ha fatto da cassa di risonanza per numerosi opinion leader e taste maker impegnati nel dettare i gusti estetici e culturali di certa intellighenzia nostrana.179 Nella ricerca, Il Manifesto arriva a definire il profilo del proprio lettore medio come segue:

Il pubblico dei nostri lettori costituisce un bacino assolutamente unico, se confrontato con quello dei lettori degli altri quotidiani, particolarmente ricettivo all’offerta culturale:

 Il 50% appartiene all’8% dei lettori italiani più forti, vale a dire quelli che leggono dai 10 ai 20 titoli l’anno.

 Il 71% considera la capacità di approfondire i temi del giornale un suo punto di forza rispetto agli altri quotidiani, dimostrando

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Per quanto abusata e semplicistica, l’opinione secondo cui la cinematografia italiana sarebbe espressione di una lobby sinistrorsa è comunque abbastanza veritiera (come è abbastanza veritiero qualsiasi luogo comune), se si considera la tradizione culturale italiana e i più noti esponenti della classe intellettuale che operano a vario titolo nel settore. Fatto, questo, che renderebbe alquanto interessante uno studio rivolto invece al cinema cosiddetto “di destra”, a cui Uva e Picchi hanno dedicato in parte il loro volume (Cfr. C.UVA –M.PICCHI, Destra e sinistra

nel cinema italiano, op. cit), ma che varrebbe la pena di essere indagato ulteriormente.

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Purtroppo, pur ritenendo questo uno tra gli aspetti più interessanti legati alla presente ricerca, al momento mancano da parte di chi scrive le competenze specifiche per un’analisi sociologica che possa essere sviluppata secondo parametri effettivamente scientifici e non già “spannometrici”, in grado di dar vita a uno studio sia quantitativo che qualitativo accurato rispetto alle diverse tipologie di persone che abitualmente consumano un certo tipo di cinema politico e le modalità con cui tali consumatori veicolano ad altri le proprie preferenze e giudizi. Nemmeno, in questa sede, si è potuto contare sull’apporto di competenze esterne, sostanzialmente per motivi di carattere economico (ogni collaborazione chiede il suo giusto prezzo, e non già solo la gloria, seppur sostanziata da valido interesse). Resta comunque la speranza che in futuro si possa presentare altra occasione perché tale studio, dagli esiti che si prospettano tutt’altro che scontati, venga adeguatamente condotto.

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Per citarne solo alcuni, celebri firme del quotidiano furono o sono tuttora: Umberto Eco, Marcello Flores, Erri De Luca, Franco Fortini, Adriano Aprà, Stefano Benni, Daniele Luttazzi, Alessandro Robecchi.

così un bisogno di strumenti informativi e di riflessione che eccedono l’immediata descrizione dell’attualità.

 Il 72,7% si dichiara interessato/a all’acquisto di libri allegati in edicola, subordinando questo interesse a una forte aspettativa di qualità.

 Il 57% richiede al giornale un ampliamento dei temi riguardanti il dibattito politico-culturale, i fenomeni sociali, i movimenti.  Il 48% richiede di ampliare i temi relativi all’ambiente.

 Il 70% può essere considerato lettore molto fedele, perché lo segue da almeno dieci anni. Si tratta inoltre di un pubblico ad altissima scolarizzazione, con una forte presenza di studenti, insegnanti, ricercatori.180

Aspetti peculiari di tale descrizione sono, da un lato, la necessità individuata nel pubblico di riferimento di un esplicito bisogno di approfondimento, ovvero di una riflessione «che ecceda l’immediata descrizione dell’attualità», quindi di ulteriore analisi e indagine della realtà, specie rispetto a questioni socialmente rilevanti («riguardanti il dibattito politico-culturale, i fenomeni sociali, i movimenti») e/o controverse («temi relativi all’ambiente»). Aspetto, questo, che come abbiamo visto sostanzia anche molto cinema politico. Dall’altro lato, poi, si tratta di un gruppo sociale ad «alta scolarizzazione», ovvero dotato di considerevole capitale culturale. Un capitale che in buona parte, specie per quella fascia sociale che si colloca tra i cinquanta e i settant’anni (ovvero di quei «lettori molto fedeli» che seguono il giornale fin dagli inizi, ma che hanno avuto anche la fortuna di cavalcare gli ultimi strascichi della positiva onda del boom), si traduce in un corrispettivo capitale economico tale da rendere possibile l’acquisto, oltre che del giornale in questione e relativi allegati, anche di libri e di film.

Per analogia, anche per quanto riguarda gli “spettatori medi” di certo cinema politico potremmo dire che si tratta di un pubblico colto, scolarizzato, socialmente qualificato e politicamente schierato, tendenzialmente benestante, consumatore di beni culturali ad ampio raggio. Una classe sociale che finisce

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Tratto dal sito internet della casa editrice collegata al quotidiano, Manifesto Libri: www.manifestolibri.it/casa_editrice.htm.

per identificarsi con la fascia più attiva dei consumatori di cinema nel suo complesso – adolescenti esclusi – dall’avvento della televisione commerciale in poi.181 Un target, però, che proprio in quanto tale, quindi predefinito e predefinibile in base a specifiche abitudini di consumo, porta con sé anche un certo atteggiamento che potremmo definire “corporativo”. Per meglio spiegarci, ci riferiremo alle parole del critico Giampiero Frasca, il quale, in un’analisi del film Draquila di Sabina Guzzanti pubblicata sulla rivista Cineforum, annotava quanto segue:

Ho visto Draquila in un cinema torinese. Alla fine c’è stato un applauso spontaneo, segno evidente che qualcuno è ancora capace di indignarsi, che una soglia di attenzione rispetto al diffuso malcostume esiste, nonostante le apparenze. […] Ma recarsi a vedere Draquila è, ancora una volta, un atto di volontà, una decisione presa per una curiosità che, seppur non ancora completamente soddisfatta, auspica di veder materializzarsi lo spettro subdolo e minaccioso già conosciuto, quasi per esorcizzarlo. Sotto questo aspetto, la Guzzanti non opera molto diversamente da trasmissioni come «Anno zero», «Report», «Parla con me», lodevoli, ma rivolte a un pubblico già orientato, il cui orizzonte d’attesa è il trovare conferme a ciò che già si sospetta. Draquila è una voce in più, ma si rivolge sempre allo stesso spettatore.182

Un pubblico, quindi, che nel consumo di questi specifici prodotti cerca, nella stragrande maggioranza dei casi, conferme circa se stesso e le proprie convinzioni, non tanto un effettivo approfondimento su tematiche e aspetti politico-sociali che possano davvero mettere in discussione le opinioni di chi ne fruisce, sollevando aspetti critici e controversi. Un atteggiamento al consumo che risponde al bisogno, mi si passi il termine, un po’ “infantile” di reiterazione dell’identico, di riconferma di quel già noto che dà sicurezza. Con il risultato, in

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Come scrive Barbara Corsi: «Dopo un periodo di concorrenza, cinema e televisione hanno trovato una buona armonia nel soddisfare la domanda di spettacolo del pubblico. Se poi si aggiunge a questi dati quello sull’alta istruzione dei frequentatori, che tra laureati e diplomati arrivano al 52% del totale, si ottiene il profilo di uno spettatore giovane, moderno, cittadino, istruito. […] Il cinema, insomma, non è più uno spettacolo popolare […] Il pubblico popolare dei grandi numeri è migrato verso il piccolo schermo, mentre al cinema resta una fascia di consumo ormai abbastanza stabile, stratificato in segmenti ben definiti, a cui corrispondono sale sempre più specializzate» (B.CORSI, Con qualche dollaro in meno, op. cit., p. 109 e segg.).

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molti casi, di determinare un corto-circuito funzionale di certi film, che vorrebbero porsi come atti politici di discernimento, ma che in realtà finiscono per alimentare un circuito culturale abbastanza manicheo e tendenzialmente mistificatorio, andando in qualche modo a coincidere con quel medesimo “sistema” che vorrebbero combattere. Insomma, per dirla con le stesse parole con cui Moretti criticava l’operato degli intellettuali anni Settanta:

L’ideale dell’estrema sinistra di quegli anni era la riproduzione del già detto, del già visto, del già conosciuto. Ad un film si chiedeva non di porre interrogativi o suscitare dubbi, ma la notificazione delle proprie certezze.183

Osservazione che, forse, vale anche oggi.