Vale la pena richiamare, per l’ennesima volta, la celeberrima e citatissima affermazione godardiana secondo cui i Lumière sarebbero «gli ultimi grandi pittori impressionisti3»? Ne vale la pena, e non solo perché, nelle prossime pagine, il legame storico tra cinema e impressionismo – tra visione cinematografica e visione impressionista – emergerà a più riprese, costituendo uno sfondo articolato sul quale collocare la considerazione del regista francese, tutt’altro che inedita o eccezionale. Ne vale la pena poiché essa, nella fulminea concisione che la caratterizza, pone
1 A. COSTA, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p. 6.
2 T. DUFRENE, L’histoire de l’art à l’âge du cinéma, «Diogène», n. 231, 3/2010.
3 In La cinese (La Chinoise, Jean-Luc Godard, Francia 1967). Sul rapporto tra pittura e film dei Lumière, a partire proprio da questa celebre battuta, rimando in particolare al primo capitolo di J. AUMONT, L’œil
interminable. Cinéma et peinture, Séguier, Parigi 1989; trad. it., L’occhio interminabile. Cinema e pittura,
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perfettamente la questione con la quale si intende dare lo slancio iniziale a questo studio: la collocazione del cinema all’interno della storia delle arti visive, un punto problematico e ampiamente discusso. A prescindere dalla specificazione di un preciso contesto artistico d’origine (per molti l’impressionismo, ma altri potrebbero sostenere che il cinema discenda, quantomeno concettualmente, da altri momenti e movimenti della storia dell’arte, come si vedrà), il tentativo di inserimento del nuovo medium nel disegno storiografico delle arti porta con sé la necessità di ripensare tale disegno: necessità gravosa che ha spesso incontrato opposizioni, più o meno esplicite.
Il campo che si spalanca, lo si intuisce subito, è vastissimo, e necessita di essere limitato ad alcuni aspetti e alcune voci, che saranno prese in considerazione perché ritenute propedeutiche alla successiva trattazione del documentario d’arte. Ci si concentrerà dunque sulle idee espresse da alcuni critici e storici dell’arte che avranno un ruolo importante se non decisivo nell’ambito più specifico del film sull’arte, e torneranno a più riprese nei capitoli successivi: anzitutto Carlo Ludovico Ragghianti, lo storico dell’arte italiano maggiormente impegnato nello studio del cinema e nella sua comprensione all’interno del percorso storico delle arti, ma anche Giulio Carlo Argan e il francese Pierre Francastel, senza evitare cenni e affondi su altre personalità che aiutano a completare il quadro. La scelta è dunque estremamente mirata, e implica necessariamente l’esclusione di qualche nome in funzione della coerenza del discorso, non solo tra gli studiosi d’arte ma soprattutto tra i teorici e i critici cinematografici o tra i cineasti, ai quali tuttavia si farà riferimento. La cornice cronologica e geografica in esame si limiterà al secondo dopoguerra e perlopiù al contesto italiano, che si fonda in larga parte su premesse poste negli anni Trenta, data la sostanziale continuità delle teorie cinematografiche e artistiche tra periodo prebellico e postbellico4.
Il punto di partenza non sarà la domanda estetica circa il fatto se il cinema sia o meno un’arte e, in caso affermativo, di che tipo e con quali caratteristiche, ma la questione propriamente storico-artistica: presupponendo che lo sia, come si colloca nel sistema e nello sviluppo storico delle arti visive? È immediatamente evidente che le due prospettive sono strettamente relazionate, quasi impossibili da scindere: collocare il cinema nel percorso storico delle arti è sempre stato un modo per legittimarlo e indagarne le caratteristiche estetiche; ugualmente, i tentativi di definizione dell’artisticità del cinema hanno quasi sempre fatto ricorso al confronto con le arti maggiori e a un tentativo di individuazione di predecessori, parentele, filiazioni in prospettiva storica. Ma si tratta pur sempre di ambiti non perfettamente coincidenti, l’uno di estetica, l’altro di storia delle arti. Senza voler accentuare troppo questa differenza, ci si rivolgerà a questo secondo ordine di problemi, sull’esempio di Flavio De Bernardinis e del suo recente studio su Argan: «l’ipotesi di riassumere, all’interno di una direttrice specifica della storia dell’arte (non esiste la storia dell’arte) l’insinuazione, se non la collocazione del cinema, è forse percorso lasciato incompiuto5». Se, cioè, le trattazioni sull’artisticità e l’estetica del cinema abbondano, meno numerosi sono stati i tentativi di una sistemazione coerente del cinema in una storia delle arti visive: una tra le diverse possibili e immaginabili, poiché, come giustamente richiamato da De Bernardinis, non esiste la storia dell’arte, bensì diverse declinazioni della storia dell’arte, frutto di modelli e di istanze specifiche dei loro autori e dei
4 C. BISONI, A. COSTA, Teorie del cinema ed estetiche delle arti, in P. BERTETTO (a cura di), Storia del cinema
italiano. Uno sguardo d’insieme, vol. I, Marsilio-Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma 2011, p. 267.
5 F. DE BERNARDINIS, Arte cinematografica. Il ciclo storico del cinema da Argan a Scorsese, Lindau, Torino 2017, p. 16.
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contesti in cui sono sorte, che organizzano il discorso sulle arti in maniera autonoma e diversa l’una dall’altra6. Per essere precisi, dunque, sarà perciò indagato il luogo del cinema nel sistema storico delle arti di Ragghianti, o in quello di Francastel, con tutte le specificazioni e le peculiarità che ciò comporta.
La relativa scarsezza di riflessioni e apporti in questa direzione, comunque, appare piuttosto sorprendente considerando «la specificità del contributo teorico italiano, che riguarda quella che proponiamo di chiamare la legittimazione estetica del cinema7»: specificità che ha favorito fin dai primi tempi una riflessione comparatistica tra cinema e altre arti (non solo visive, ma anche letteratura, musica, teatro) verso un sistema di interpretazione unitario, e che deriva dalla predominanza della teoria estetica crociana nella cultura italiana, specie negli anni Trenta. L’estetica crociana poneva tare apparentemente insormontabili alla legittimazione artistica del nuovo medium: il suo carattere meccanicamente riproduttivo del reale, il ruolo preponderante della tecnica e della macchina, la dimensione collettiva di qualunque impresa cinematografica sono solo tre elementi che mal si conciliano al sistema crociano, dal quale molti intellettuali (e molti storici dell’arte) stentano ad allontanarsi, se non a costo di una personale e profonda ridiscussione di esso, come avviene per Ragghianti. Lo stesso Benedetto Croce, a dire il vero, in una celebre lettera a «Bianco e Nero» ammise la possibilità per il singolo film di essere opera d’arte8; è il cinema come istituzione, come fatto sociale e culturale a risultare problematico quando lo si voglia porre nel sistema delle arti, e dunque anche nella loro storia (che per l’estetica crociana, basata sulla centralità delle singole personalità e perciò risolta in monografie e “medaglioni”, quasi perde una specifica ragion d’essere). Riecheggiando la chiusa della riflessione di André Malraux del 1939: «d’altra parte, il cinema è un’industria…9», ed è appunto questa natura industriale e commerciale a complicare un pacifico inserimento nella tradizionale sistemazione delle arti, come avviene d’altra parte anche per il design, arte industriale per eccellenza10. A questo “sdoppiamento” di prospettiva Luigi Chiarini era giunto in un noto articolo programmaticamente intitolato Il film è un’arte, il cinema è un’industria11; nella sua riflessione, seguendo l’interpretazione data da Giovanni Gentile del pensiero crociano, Chiarini supera il problema della tecnica, che passa da aggregato quasi parassitario a presupposto logico
6 O. ROSSI PINELLI (a cura di), La storia delle storie dell’arte, Einaudi, Torino 2014. 7 C. BISONI, A. COSTA, Teorie del cinema ed estetiche delle arti, p. 253.
8 «Dunque un film, se si sente e si giudica bello, ha il suo pieno diritto, e non c’è altro da dire.» B. CROCE, Una
lettera, «Bianco e Nero. Rassegna mensile di studi cinematografici», anno IX, n. 10, dicembre 1948, pp. 3-4. Su
questo intervento del filosofo napoletano si veda C.L. RAGGHIANTI, Croce e il film come arte, in ID., Arti della
visione. I. Cinema, Einaudi, Torino 1974, e F. De BERNARDINIS, Arte cinematografica, capitolo 2. 9 A. MALRAUX, Esquisse d’une psychologie du cinéma, «Verve», n. 8, 1 giugno 1940, pubblicato poi da Gallimard, Parigi 1946, s.n. Gli appunti riportati in questo scritto risalgono, per ammissione dello stesso autore, al 1939.
10 M. VITTA, Il rifiuto degli dei. Teoria delle belle arti industriali, Einaudi, Torino 2012.
11 L. CHIARINI, Il film è un’arte, il cinema è un’industria, «Bianco e Nero», vol. II, n. 7, 31 luglio 1938, pp. 3-8. Chiarini enuclea tre aspetti concomitanti nel cinema: l’aspetto tecnico (legato alle attrezzature, gli impianti, la tecnologia); quello artistico, che presiede alla creazione del film come opera d’arte; quello commerciale e industriale, che riguarda lo sfruttamento economico dell’opera d’arte cinematografica e non dovrebbe mai interferire con la creazione artistica, poiché essa «ha leggi assai diverse da quelle industriali. Mentre l’arte è individualità, personalità, differenziazione, l’industria è uniformità, standardizzazione, tipizzazione. […] Noi pensiamo che il male del cinema nasca proprio dalla confusione che si fa tra questi suoi tre aspetti» (p. 5). La matrice idealista del discorso emerge con tutta chiarezza da questa netta contrapposizione tra carattere artistico e logica industriale, ritenuti concorrenti.
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dell’arte filmica: il film è un’espressione artistica non a dispetto della tecnica, ma a partire da essa, come elemento primario che viene integrato e assorbito nel processo creativo12.
Il dissidio rimane però avvertibile e avvertito nella cultura italiana, e per molti dei suoi esponenti difficilmente risolvibile. Sebbene i tentativi di sistemazione e definizione estetica del cinema da parte di storici e critici d’arte non manchino – come nel noto caso di Carmine o della pittura di Cesare Brandi che, crocianamente, non riconosce al cinema valore d’arte13 – analoghi sforzi di posizionamento del cinema in un percorso storico-artistico, nel momento in cui in ambito propriamente cinematografico iniziano a comparire le prime storie del cinema strutturate14, rimangono invece più sporadici.
Per avviare il discorso discostiamoci allora dal contesto italiano appena delineato ed esaminiamo un chiaro tentativo di inserimento del cinema all’interno di una storia onnicomprensiva dell’arte occidentale. L’ultima parte della Storia sociale dell’arte di Arnold Hauser, dall’eloquente titolo The Film Age, fa del nuovo medium il fulcro del panorama artistico del Novecento, a causa della straordinaria consonanza che il film ha con la nuova concezione del tempo emersa e divenuta predominante tanto a livello filosofico quanto scientifico nel corso del XIX secolo.
«Infatti il nuovo concetto del tempo, il cui tratto fondamentale è la simultaneità e la cui essenza sta nella spazializzazione del tempo, in nessun’altra forma si esprime con tanta efficacia come in questa arte recentissima, coetanea della concezione bergsoniana. La consonanza fra i mezzi tecnici del film e le caratteristiche del nuovo concetto del tempo è così perfetta, che si è portati a pensare i modelli temporali dell’arte moderna come nati dallo spirito della forma cinematografica e a vedere nel film la forma d’arte tipica dell’attuale momento storico, anche se non la più valida sul piano estetico15».
Il ragionamento di Hauser è impostato in tutta l’opera su una metodologia omogenea: a un’analisi delle condizioni economiche e politiche in un dato periodo storico e degli sviluppi nelle teorie filosofiche, con particolare riguardo all’ambito estetico, segue l’esame di come questi contesti e queste condizioni si riflettono nella produzione artistica; l’arte diviene così
12 Non è possibile qui tracciare un quadro esaustivo della relazione tra l’estetica crociana e le teorie
cinematografiche in Italia, dal periodo muto agli anni Quaranta. Rimandiamo, oltre ai contributi già citati, a F. CASETTI, con S. ALOVISIO e L. MAZZEI (a cura di), Early Film Theories in Italy 1896-1922, Amsterdam University Press, Amsterdam 2017; A. COSTA, Teoria del cinema dalle origini agli anni Trenta: la prospettiva
estetica, in G.P. BRUNETTA (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. V, Teorie, strumenti, memorie, Einaudi, Torino 2001, pp. 417-443; M. DALL’ASTA, Teoriche del cinema ed estetica neoidealista, in L. QUARESIMA (a cura di), Storia del cinema italiano. 1924-1933, Marsilio-Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma 2014; R. EUGENI, Il dibattito teorico, in O. CALDIRON (a cura di), Storia del cinema italiano. 1934-1939, Marsilio-Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma 2006.
13 C. BRANDI, Carmine o della pittura, Vallecchi, Firenze 1947. La negazione dello statuto di arte al cinema da parte di Brandi generò un ampio dibattito sulla stampa, con reazioni, tra le altre, di Emilio CECCHI (Che cos’è il
cinema?, «Mercurio», n. 22, 1947) e di Luigi CHIARINI (L’immagine filmica, «Bianco e Nero. Rassegna mensile di studi cinematografici», vol. IX, n. 6, agosto 1948). Con gli anni l’opinione di Brandi riguardo al medium cinematografico si modificò, come ravvisabile in Le due vie (Laterza, Bari 1966). Sul pensiero cinematografico brandiano si veda P. MONTANI, L’ospite importuno del Carmine di Cesare Brandi, in ID., Fuori campo. Studi sul
cinema e l’estetica, Quattroventi, Urbino 1993 e F. DE BERNARDINIS, Il pensiero cinematografico di Cesare
Brandi, «Bianco e Nero», anno LXIII, n. 2, marzo-aprile 2002.
14 F. PASINETTI, Storia del cinema dalle origini a oggi, Edizioni di Bianco e Nero, Roma 1939; G. SADOUL,
Histoire d’un art. Le cinéma des origines à nos jours, Flammarion, Parigi 1949;prima ed. it., Storia del cinema, Einaudi, Torino 1951, riedizione aggiornata 1964.
15 A. HAUSER, The Social History of Art, Routledge & Kegan, Londra 1951; trad. it., Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1957, p. 366.
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portavoce della temperie culturale che la genera, prodotto di una ben precisa civiltà collocata in un luogo e in una fase storica, non distaccata dalla contingenza bensì profondamente radicata nei contesti e massimamente significante della propria epoca anche per quanto concerne gli aspetti extra-artistici. Hauser è infatti rappresentante di quell’indirizzo indicato come storia sociale dell’arte, sviluppatosi tra anni Quaranta e Cinquanta e animato da «una concezione della rappresentazione come “rispecchiamento” del sociale16».
Dentro questa cornice concettuale e procedendo per coppie oppositive, in The Film Age Hauser esamina le correnti avanguardistiche del primo Novecento, tutte sorte dal rifiuto dell’impressionismo, ultimo stadio della tradizione del naturalismo in arte, ossia del principio «che fosse compito dell’arte attingere alle verità della natura e della vita17»; il postimpressionismo invece (e tutti i movimenti successivi) «rinuncia per principio ad ogni illusione realistica ed esprime il suo senso della vita attraverso la deformazione consapevole degli oggetti naturali18». A questo punto, chiarita l’emancipazione dell’arte dalla resa naturalistica, Hauser introduce il film e, con esso, la nuova concezione temporale della modernità, derivante dalla filosofia di Henri Bergson e che fa tutt’uno con il medium: la «commistione di spazio e tempo19», non più nettamente separati ma fusi in un’unica entità, uno spazio-tempo esperienziale che è concetto essenziale nelle definizioni estetiche del cinema fin dai primissimi tempi. Per lo storico dell’arte ungherese nella visione filmica «spazio e tempo si confondono […] in uno scambio reciproco di funzioni20»: è possibile operare nel tempo come si opera nello spazio, con cambiamenti di direzioni, rallentamenti, accelerazioni, scarti improvvisi, ritorni (producendo una «spazializzazione del tempo») mentre lo spazio perde il suo carattere statico. Il carattere spazio-temporale inerente al medium ne fa il fattore di influenza di tutte le manifestazioni creative del XX secolo (dalle arti figurative alla musica, dalla letteratura al teatro), ma ciò non impedisce a Hauser di considerare il film, sebbene sia la forma d’arte predominante, non «la più valida su quello estetico». Anche per Hauser ostacolo al riconoscimento del pieno valore artistico del film è il suo carattere collettivo, che impedisce l’espressione dell’individualità creatrice; da ciò deriverebbe la ricorsiva crisi nel quale il cinema cade «poiché non riesce a trovare i suoi poeti, o, per meglio dire, i poeti non trovano la via del film21».
Tuttavia, Hauser evidenzia correttamente due tratti fondamentali del film. Il primo è quello che lo distingue dalle altre forme d’arte fino a quel momento, cioè il carattere massificato del suo pubblico: «dagli inizi della nostra civiltà, così portata all’individualismo, è questo il primo tentativo di un’arte per il pubblico di massa22». Caratteristica che non implica però risvolti positivi, dal momento che le arti hanno sempre tratto giovamento da pubblici ristretti, omogenei e il più possibile selezionati, non amplissimi e indifferenziati come il pubblico mondiale del cinema. Mentre questo è l’arte popolare per eccellenza le altre, in particolare quelle d’avanguardia, sono divenute elitarie, dunque eminentemente «antipopolari23». La popolarità del cinema risulta vincente poiché – è la seconda annotazione rilevante – deriva dalla novità e
16 O. CALABRESE, Il linguaggio dell’arte, Bompiani, Milano 1989, p. 47. Si veda anche G.C. SCIOLLA, La critica
d’arte del Novecento, UTET, Torino 1995 [seconda ed. 2006], capitolo 7.
17 A. HAUSER, Storia sociale dell’arte, p. 351. 18 IBIDEM. 19 IVI, p. 365. 20 IVI, p. 368. 21 IVI, p. 377. 22 IVI, p. 383. 23 IVI, p. 384.
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dalla giovinezza di questo medium, nel quale ancora persiste l’accordo immediato con il contesto sociale e culturale che l’ha generato. Qualunque arte, infatti, tende a un’elitarizzazione che procede di pari passo con la sua maturazione: «popolare può essere solo un’arte giovane, poiché ogni arte matura richiede per essere compresa la conoscenza degli stadi anteriori, ormai superati, del suo sviluppo24». Se la comprensione di qualunque forma d’arte, argomenta Hauser, deriva dalla capacità di afferrare la corrispondenza profonda tra gli aspetti formali e gli aspetti contenutistici, il progressivo disgiungersi delle forme dai contenuti, il rendersi autonome e accessibili delle prime solo a un pubblico sempre più esiguo e colto provoca un cambiamento nello statuto e nella percezione di quell’arte (una sua “maturazione”), ma anche la sua perdita di popolarità, di comunicazione immediata con i fruitori: un processo che per Hauser il cinema ha già avviato, ma del quale è ancora gli inizi.
Al di là della validità di questa impalcatura teorica, si possono trattenere due aspetti significativi di questo breve excursus sulla Storia sociale di Hauser: da un lato, coerentemente con i presupposti della sua impostazione metodologica, Hauser non colloca il film semplicemente nel tracciato storico delle arti, ma in quello di diversi e più ampi contesti (sociali, economici, politici, filosofici), avvertendone e discutendone il carattere massmediale prima ancora che artistico; dall’altro, l’inclusione del film nella storia delle forme artistiche comporta una solo parziale ammissione del suo carattere d’arte. È sì arte, ed è anche l’arte guida del XX secolo, non però per una maggiore rilevanza estetica, ma solo per un più profondo e immediato accordo con l’epoca e la società. L’ingresso del film nella storia delle arti avviene, per così dire, “con riserva”.
L’attenzione di Hauser si appunta in particolare sulla relazione tra il cinema e le forme artistiche ad esso contemporanee, in particolare i movimenti d’avanguardia. Ma, in numerosi altri autori, emerge l’attitudine a risalire più indietro nel tempo, cercando di individuare forme di “visione cinematografica” ante litteram: un esercizio interpretativo che rivela l’influsso del cinema nel modificare lo sguardo portato sull’arte di tutte le epoche25. Non ci si riferisce solo alle riflessioni attorno a giochi ottici, lanterne magiche, spettacoli d’ombre afferenti a quello che si è soliti definire precinema, bensì ad opere pittoriche, scultoree o architettoniche rilette con l’ottica del cinema, come rilevatrici o portatrici di una “visione in movimento” prima dell’invenzione della macchina da presa. Se l’invenzione dell’apparato tecnologico del cinema, nelle sue varianti, ha una collocazione temporale ben precisa, attorno agli anni Novanta del XIX secolo, la visione cinematografica, a detta di questi autori, è sempre esistita e si è espressa in maniere diverse.
In un numero speciale della rivista francese «L’amour de l’art» pubblicato nel 1949, per esempio, ampio spazio viene dedicato ai rilievi dell’Antico Egitto o alle modalità rappresentative tipiche dell’arte asiatica (indiana e dell’Estremo Oriente) per evidenziarne le qualità cinematografiche26: tanto i registri scolpiti e dipinti con i geroglifici quanto i rotoli dipinti cinesi e giapponesi (e analogamente quelli bizantini o altomedievali), che già dalla forma richiamano immediatamente la pellicola cinematografica, dinamizzano lo sguardo dello spettatore dispiegando una narrazione che si sviluppa linearmente. Lo stesso ragionamento si può compiere di fronte ai grandi cicli di affreschi, che non a caso sono tra i primi e più amati
24 IBIDEM.
25 Cfr. infra, § La storia dell’arte attraverso il cinema (e la fotografia).
26 C. DESROCHES NOBLECOURT, Le film et l’écran au temps des Pharaons; J. AUBOYER, Simultanéité et
mouvement dans les arts de l’Extrême-Orient, in Cinéma, numero monografico di «L’amour de l’art», anno
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soggetti dei film sull’arte proprio per i caratteri strutturali che li avvicinano al film. Ma anche la simultaneità di più azioni presentate congiuntamente nello stesso spazio rappresentativo o la scomposizione del moto tipiche di molta arte orientale dimostrano una stretta attinenza al modello del film.
A questi interventi si affianca uno scritto di Germain Bazin (anche direttore della rivista) di più ampio respiro, che riflette sulle relazioni storiche tra teatro, pittura e cinema, una triade di grande importanza (come emergerà più avanti) nella riflessione sul luogo del cinema nella storia