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«Nelle discussioni che tanto di frequente si svolgono intorno ai film sull’arte […] sembra a me che di rado venga centrato il problema fondamentale: è possibile, esprimendosi attraverso il linguaggio filmico, illustrare criticamente un’opera d’arte: quadro, affresco, statua, architettura che sia209

204 IBIDEM.

205 IBIDEM. La Cineteca Scolastica, nata nel 1938, ha prodotto film di storia dell’arte per le scuole fin dalla sua fondazione, a partire dal celebre Roma Barocca di Mario Costa e Valerio Mariani richiamato anche nelle prime pagine di questo capitolo.

206 IVI, p. 277. 207 IVI, p. 293.

208 Tra le varie risposte all’inchiesta, segnalo quella di Pio Baldelli (ordinario di storia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Perugia), nonostante esuli dal tema del referendum e da quello di questa tesi, e che verte invece sull’introduzione del cinema nella scuola e nell’università italiana, «che si serve talora del mezzo

cinematografico ma senza prenderne coscienza». Rifacendosi a esempi esteri e a un corso da lui tenuto in via sperimentale nel 1956-57 a Perugia, Baldelli propone una possibile articolazione dell’insegnamento di storia ed estetica del cinema all’interno di università e accademie di belle arti. La questione dell’istituzionalizzazione del cinema come disciplina accademica non è inedita sulle pagine delle riviste ragghiantiane, tutt’altro. Diversi interventi si susseguono sia su «Critica d’arte» che su «SeleArte» tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Ragghianti stesso, estremamente sensibile al problema, fu una delle personalità che maggiormente contribuirono all’ingresso in università della nuova materia, anche grazie all’istituzione di un corso pionieristico all’Università di Pisa. Riguardo a questa ampia questione si veda D. BRUNI. A. FLORIS, M. LOCATELLI, S. VENTURINI (a cura di), Dallo

schermo alla cattedra. La nascita dell’insegnamento universitario del cinema e dell’audiovisivo in Italia,

Carocci, Roma 2016.

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Attorno a questa semplice domanda, formulata con cristallina chiarezza da Luigi Chiarini, ruota il perno dell’intero discorso teorico sul film sull’arte. Le posizioni su questo punto divergono nettamente. In molti sostengono che il mezzo cinematografico sia in grado di essere uno strumento autonomo della critica d’arte, ossia un’inedita modalità, con potenzialità e caratteri peculiari e insostituibili, per penetrare e intendere un’opera d’arte plastica, indipendente dalla critica scritta e letteraria; un tipo di critica che, una volta stabilitasi, giocherà un ruolo non accessorio bensì primario nella comprensione dei fenomeni artistici. Dall’altra parte, gli esponenti del fronte negativo rifiutano al cinema una capacità critica autonoma di fronte alle arti, ma semmai sempre derivante dalle (e subordinata alle) modalità della critica tradizionale.

Di questo secondo gruppo fa parte per esempio Lionello Venturi, che all’esplicita domanda se il cinema possa o meno dare un effettivo contributo al campo critico, risponde con un secco «no»: la risposta deve parergli tanto ovvia da non indurlo nemmeno a una giustificazione210. Sulla stessa opinione si attesta, sempre in «Cinema», anche Enzo Carli, che nega alla tecnica cinematografica qualunque apporto innovativo persino nella semplice ricognizione materiale dell’opera d’arte, essendo ampiamente sorpassata da tecniche come macrofotografia, radiografie, immagini a infrarosso (sorvolando completamente sui possibili legami, almeno concettuali, che queste possono avere con il medium filmico)211. Per Antonino Santangelo, la risposta è ugualmente negativa, «per ovvie ragioni, confermate dall’intero sviluppo del pensiero critico moderno212», sebbene proprio una certa corrente della critica d’arte d’inizio Novecento – la pura visibilità – sia chiamata in causa dai sostenitori della possibilità del film di divenire atto critico. Le “ovvie ragioni” di Santangelo, non specificate, rimangono perciò difficili da individuare.

Eva Tea rileva, in risposta agli interventi di Italo Cremona e Sergio Frosali al I Congresso sul Cinema e le Arti Figurative di Firenze, che

«la disamina dell’opera d’arte in ogni parte, per ogni senso, con ogni luce, da ogni punto di vista, noi studiosi già la compiamo per quanto ci è possibile e il film – che, del resto, è manovrato dall’intelligenza dell’uomo – abbrevia soltanto la via, come farebbe un’auto a chi è costretto ad andare a piedi. Plaudo all’idea di film documentari d’arte, condotti con i fini criteri esposti da Frosali, ma penso che si debbano limitare all’uso propagandistico e didattico. Uno studioso non rinuncerà mai a vedere con i propri occhi e si farà aiutare dalla macchina solo là dove il suo sguardo non giunge; sulla testimonianza dei mezzi meccanici metterà sempre una tara prudente213».

Queste osservazioni esplicitano la persistenza di un atteggiamento scettico nei confronti della macchina quando, da semplice ausilio del critico per materializzare e diffondere le proprie considerazioni intellettuali, sembra adombrarsi l’ipotesi che essa si possa sostituirsi ad esso, o che non vi si possa in alcun modo rinunciare nel condurre analisi critiche. Anche Paolella, nella sua generale bocciatura del film sull’arte, non accetta il film come mezzo autonomo di interpretazione critica, ma solo di divulgazione dell’arte:

«a noi pare che l’opera dei documentaristi d’arte può essere utile, giovevole e in certi casi indispensabile sul medesimo piano didattico in cui la fotografia del dipinto può valere,

210 Lionello Venturi in M.GANDIN,M.MAZZOCCHI,Cosa pensano del cinema (2), p. 62.

211 IBIDEM.

212 Antonino Santangelo in M.GANDIN,M.MAZZOCCHI,Cosa pensano del cinema (4), p. 351.

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non certo a renderci la sua spirituale efficienza, ma la nozione scolastica e diremo lessicografica della sua esistenza. […] Ma allora il voler parlare a proposito di questa volgarizzazione, che porta il tesoro delle gallerie e dei musei al livello delle grandi tirature dei giornali a rotocalco, di interpretazione del messaggio dell’artista creatore ci sembra, almeno per ora, abbastanza azzardato214».

Tra le altre, appare significativo soffermarsi in particolare sulle argomentazioni di Umbro Apollonio. La sua posizione, rivista e rimeditata nel giro di pochi anni con precisazioni e sfumature sottili, può essere esemplificativa dei dubbi e delle posizioni solo parzialmente favorevoli mantenute da molti storici e critici d’arte sulla questione.

In un primo intervento, anch’esso all’interno dell’inchiesta condotta da «Cinema», Apollonio nega al film lo statuto di mezzo critico:

«Non credo che il cinema possa prestare un effettivo contributo critico nel campo delle arti figurative e della storia dell’arte, l’indagine critica va compiuta con mezzi propri, nella meditazione, nella revisione ripetuta dell’opera d’arte, e la fotografia serve ottimamente a questo scopo come aiuto mnemonico. Non ritengo che la riproduzione cinematografica di un dipinto o di una scultura possa offrire qualche vantaggio rispetto alla riproduzione fotografica in ordine ad un esame critico215».

Difendendo la superiorità della riproduzione fotografica come supporto al ragionamento critico, che consente una contemplazione illimitata nel tempo e una disposizione delle immagini secondo i propri personali intenti di ricerca, Apollonio conclude che il film «non potrà mai essere un nuovo strumento di critica216».

Solo un anno dopo, in un contributo sulla «Rivista del cinema italiano», il critico triestino ritorna sulla questione per specificare le argomentazioni espresse su «Cinema», «che si prestarono malauguratamente ad equivoci217». Questo chiarimento si riassume nella specificazione che «il cinema non poteva essere un nuovo strumento della critica. Tutto ciò però non significa che non si possa esercitare la critica d’arte anche per mezzo del cinema218». La formulazione, apparentemente sibillina, è invece chiara e con essa Apollonio si fa portavoce di larga parte dei critici e degli storici dell’arte: il cinema non è una nuova forma di critica che possa invenire qualcosa altrimenti inafferrabile con i mezzi della critica scritta; tuttavia, questa si può esercitare anche mediante il mezzo cinematografico.

Il ragionamento di Apollonio parte dal presupposto che «la critica è indagine e riflessione sulla fenomenologia delle forme in cui l’arte si esprime e realizza: è quindi operazione della mente219», fenomeno mentale che deve trovare un’estrinsecazione concreta attraverso un linguaggio. Questo linguaggio è stato, tradizionalmente, quello verbale, poiché esso è in grado di adattarsi sia ad un fine espressivo ed artistico (in poesia e letteratura) che a un fine speculativo e saggistico (in filosofia e nelle trattazioni scientifiche). Può il linguaggio cinematografico, che è primariamente espressivo e figurativo, scindersi come quello verbale in queste due categorie per tradurre il procedimento mentale e razionale del ragionamento critico? Per Apollonio la

214 R. PAOLELLA, Arti plastiche e documentario d’arte, p. 102.

215 Umbro Apollonio in M.GANDIN,M.MAZZOCCHI,Cosa pensano del cinema (4), p. 351.

216 IVI, p. 352.

217 U. APOLLONIO, Quesiti su cinema e critica d’arte, «Rivista del cinema italiano», anno II, n. 8, agosto 1953, p. 49. L’articolo riprende l’intervento tenuto da Apollonio al IV Congresso dell’Associazione Internazionale dei Critici d’Arte tenutosi a Dublino dal 20 al 27 luglio 1953.

218 IBIDEM. 219 IBIDEM.

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cosa è quantomeno dubbia, come risulta dubbio poter pensare di compiere una critica della musica attraverso le note o della pittura utilizzando esclusivamente il linguaggio dei colori. «Per questo sorgono molti dubbi quando si pensa a un discorso critico esperito col mezzo di un linguaggio tipicamente artistico, in questo caso, anzi, figurativo220». Dunque, il film non potrà essere una nuova forma di critica d’arte, poiché il processo mentale di apprensione critica dell’opera passerà inevitabilmente dallo stadio linguistico verbale per potersi esprimere: «il film sull’arte non potrà che essere un saggio filmato, così come altrove non è che un giudizio formulato nei meglio adeguati e più precisi termini letterari221».

La rigorosa traduzione di questo ragionamento in immagini filmiche può però rendere il film uno strumento privilegiato della critica: «il film sull’arte sarà l’intermediario per cui un discorso critico può presentarsi allo spettatore per immagini dirette: la sua forza sarà nella rappresentazione dell’oggetto quale è, fissato, fermato, immobilizzato nella sua realtà222». La posizione espressa da Apollonio appare tra le più meditate e complesse del panorama, in grado di conciliare istanze dell’estetica crociana con i presupposti della scienza dei linguaggi che, nel giro di qualche anno e con l’espandersi del paradigma semiotico, avrebbero conquistato un ruolo di primaria importanza nell’analisi dei fenomeni artistici e cinematografici.

In un ulteriore intervento del 1956 la sua posizione, pur concedendo maggiore importanza all’apporto specifico della macchina da presa nella formulazione del giudizio critico su un’opera, sostanzialmente non cambia:

«[è] proprio la pratica con la macchina da presa e con il montaggio a sollecitare un aggiustamento dell’indagine critica, un modo di coordinare in ritmo l’ideazione artistica e la sua interpretazione chiarificante. La speculazione del fenomeno non è che trovi nuovi modi per trarre le sue conseguenze, ma sullo schermo essa può giovarsi di un mezzo espressivo idoneo a riprodurre visivamente le conclusioni della mente223».

L’idea di fondo è dunque chiara: il cinema può aver modificato il modo con cui il critico affronta l’esame dell’opera, fornendogli nuovi strumenti sia pratici che metodologici (installando nel suo cervello quella «camera ottica» di cui parla Giuseppe Raimondi224), ma il film non rappresenta qualcosa di radicalmente altro dal saggio scritto, e la critica cinematografica non può rivelare nulla che non possa svelare anche quella scritta. Una posizione dunque mediana (rintracciabile, seppur implicitamente, in diversi altri autori), che riconosce al cinema grandi potenzialità nel tradurre e divulgare un discorso critico, ma non nel costituirlo ex novo, in maniera autonoma.

Su questa seconda ipotesi si attestano invece i sostenitori del film come atto di critica a tutti gli effetti, fautori di una «critica cinematografica» capace di generare una conoscenza altrimenti irraggiungibile (e dunque insostituibile) con la critica scritta; una critica che possa «insegnare a vedere, funzione per la quale la critica d’arte tradizionale, quella fatta per mezzo di parole, sembra possedere mezzi meno efficaci di quelli di cui dispone la nuova forma di critica, la critica cinematografica225»; una critica nella quale «il linguaggio cinematografico, nelle sue peculiari caratteristiche e possibilità espressive, sia usato per far intendere i valori di un’opera

220 IVI, p. 50.

221 IVI, p. 53 (mio corsivo). 222 IBIDEM (mio corsivo).

223 U. APOLLONIO, Il film sull’arte, in Il cinema dopo la guerra a Venezia, p. 90.

224 G. RAIMONDI, Il cinema serve al critico d’arte, «Bianco e Nero. Rassegna mensile di studi cinematografici», anno XI, n. 8-9, agosto-settembre 1950, p. 38.

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figurativa226». Infatti, «non è possibile disconoscere l’esigenza propria della critica più aggiornata di esprimersi con il cinema227».

In questo senso, i contributi fondamentali vengono dalle riflessioni di Paul Haesaerts, Giulio Carlo Argan e Carlo Ludovico Ragghianti.

Per il primo, «è da poco apparso un genere cinematografico che equivale al saggio o alla critica in letteratura228». La natura figurativa delle arti plastiche implica quasi logicamente, per il critico belga, che lo strumento d’analisi migliore sia anch’esso fondato sulla figuratività:

«quale miglior linguaggio […] esiste per parlare di opere afferrabili soltanto con lo sguardo, che quello che precisamente rimpiazza questi segni convenzionali che sono le parole con la visione immediata delle opere in discussione – e che subordina tutto ciò che non è immagine, soprattutto la musica e il commento, al contenuto spirituale ed emotivo dell’immagine229?».

Questa coincidenza profonda garantisce inoltre che la critica non possa discostarsi dall’oggetto che esamina, ma sia obbligata a un continuo e serrato confronto con esso.

«Qui la parola diventa l’oggetto stesso di cui si parla. Se vi è errore sopra un ravvicinamento, sulla definizione d’una forma, sulla natura d’un’opposizione o d’una influenza, la prova di quest’errore si trova nella materia stessa che è presentata, e lo spettatore se ne accorge subito. Il linguaggio critico per successione d’immagini stabilisce un controllo permanente e severo, forza l’autore al contatto preciso con l’oggetto del suo discorso, non gli permette che delle digressioni giustificate230».

L’interesse e la difficoltà di questo nuovo genere «risiedono soprattutto, e senza dubbio, nella scoperta di uno stile di presentazione che corrisponde allo stile specifico dell’opera e che, di conseguenza, ci informi fin dall’inizio e in ogni momento sui caratteri profondi e distintivi dell’arte commentata231». L’efficacia di questa modalità di analisi critica alberga proprio – con un rovesciamento totale del ragionamento di Apollonio, per il quale lo stadio verbale è ineludibile – nella perfetta e immediata coincidenza tra linguaggio dell’oggetto analizzato e linguaggio del medium che lo esamina232: «L’immagine questa volta rimpiazza le parole, il discorso diviene l’eloquente successione delle immagini. E come il vero critico-scrittore dà alle sue parole e frasi lo stile della creazione commentata, così il critico-cineasta concepirà il suo lavoro in modo da donargli lo stile dell’opera filmata», fino ad assumere un atteggiamento “camaleontico”: «La sua camera si farà trecentista con Giotto, impressionista con Renoir, classica e poussinesca con Poussin, barocca e rubensiana con Rubens. Per essere efficace, la critica ha l’interesse ad assumere, nel trasporlo, lo stile di ciò di cui parla233». La fiducia nella

226 L. CHIARINI, Il film nella battaglia delle idee, p. 227.

227 L.MAGAGNATO, Il film sull’arte e la critica d’arte, «Film. Rassegna internazionale di critica

cinematografica», Atti del Secondo Congresso sul Cinema e le Arti Figurative, anno II, n. 5-6, 1956, p. 55. 228 P. HAESAERTS, Sur la critique par le cinéma, p. 18.

229 IBIDEM.

230 P.HAESAERTS,La critica e la storia dell’arte per mezzo del cinema, pp. 218-219.

231 P. HAESAERTS, Caméra et spectateur devant le Rubens de Munich, «Les Arts Plastiques», n. 3-4, 1948, p. 150.

232 Haesaerts si meraviglia, al contrario, che mentre in molti si oppongono all’idea di una critica d’arte realizzata attraverso il film, nessuno si opponga alla critica tradizionale, realizzata con le parole, ossia in un linguaggio estraneo e irriducibile a quello delle arti plastiche. P. HAESAERTS, Sur la critique par le cinéma, p.18.

233 P. HAESAERTS, Art plastique et Cinéma, p. 37. Contro quest’attitudine camaleontica della camera di Haesaerts si scaglia in particolare Apollonio: «egli afferma che “la ripresa dovrà essere obbediente all’espressione formale così come essa si è esclusivamente configurata”, e poi, spiegando per esempi, viene in sostanza a dire che il movimento della macchina dovrebbe essere, mettiamo, botticelliano di fronte alla Primavera, barocco di fronte

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critica cinematografica è tale che Haesaerts si chiede «se la critica e la storia dell’arte scritte non saranno presto delle tecniche scadute234».

Le riflessioni di Haesaerts (spesso esemplificate sui suoi apprezzati film, cosa che ne limita le possibilità di generalizzazione) rivelano la profonda matrice di natura purovisibilista che, come si è già accennato, è alla base della possibilità stessa di coniugare cinema e arti visive in ragione del comune carattere di figuratività. Questa radice si rifà da un lato alle riflessioni della Scuola di Vienna, e di Alois Riegl e Franz Wickhoff in particolare, terreno comune d’incontro tra le concezioni e le pratiche di Haesaerts e quelle di Ragghianti (seppure, in questo caso, attraverso il filtro dell’idealismo crociano e della lezione di Matteo Marangoni, cui Ragghianti si dichiara sempre debitore) e dall’altro lato al magistero di Heinrich Wölfflin, che è invece motivo di distanza tra i due235. Per la pura visibilità, l’artista rielabora le percezioni e i dati che gli giungono dalla vista secondo schemi formali di origine culturale, che strutturano l’opera figurativa e vi permangono perciò rintracciabili. Il cinema, fondandosi su una tecnologia mirata a estrapolare e riprodurre l’immagine della realtà, anche grazie alla guida di una personalità (cineasta o storico dell’arte che sia) capace di tradurre la vista naturale in visione formalmente strutturata, consente perciò di cogliere con massima evidenza i valori spaziali, compositivi, eidetici dell’opera d’arte, proprio perché ne svincola l’immagine dalla realtà materiale e dal contesto concreto. La coincidenza tra il carattere figurativo del soggetto investigato e quello del mezzo d’investigazione consente inoltre di compiere l’analisi mantenendosi nell’alveo dello stesso linguaggio (appunto, figurativo), senza il passaggio a quello verbale che comporta inevitabilmente una perdita di informazioni e una necessaria approssimazione. La natura figurativa del cinema consente infine di compiere con rapidità ed efficacia procedimenti particolarmente importanti per un’analisi fondata su ideali purovisibilisti, per esempio confronti simultanei tra dettagli di opere diverse, capaci di rimarcare la ricorsività di motivi e schemi formali, la presenza di strutture, armonie o tensioni compositive, la persistenza o l’alternanza di modelli culturali attraverso i secoli, come dimostrato negli studi tanto di Riegl o Wickhoff quanto di Wölfflin.

A rilevare con acutezza questo comune sfondo purovisibilista nei due maggiori teorici e realizzatori della critica cinematografica dell’arte è di nuovo Argan:

«La scomposizione dell’opera nei suoi fondamentali elementi formali o l’analisi della sua particolare spazialità, ch’è il procedimento tipico della critica della “pura visibilità”, è di fatto molto simile alla scomposizione attraverso la quale il regista sviluppa la successione dei tagli e dei particolari lungo le grandi linee costruttive dell’insieme. L’interpretazione cui dà luogo la lettura o esecuzione cinematografica di un’opera d’arte è dunque nella tradizione critica della “pura visibilità”: una tradizione che si fonda sulla figuratività che si è sviluppata nell’arte dell’Impressionismo in poi e che ha a sua volta contribuito fortemente al formarsi del linguaggio cinematografico. Non è dunque dubbio

al Bernini e così via. Ma, per assurdo, ciò non equivale a consigliare di scrivere in stile quattrocentesco per una monografia sul Botticelli oppure in stile secentesco per farne una sul Bernini?» U. APOLLONIO, Quesiti su

cinema e critica d’arte, p. 52.

234 IBIDEM.

235 «Noi potremmo sottoscrivere queste precise e sensitive notazioni dello Haesaerts, che derivano del resto da un patrimonio di cultura comune, e precisamente la nuova sensibilità critica per la forma che si è sviluppata in virtù delle teorie della “pura visibilità”. Dove non possiamo seguire l’autore [sempre Haesaerts] è in alcuni corollari, ispirati, tramite il Wölfflin, all’estetica psicologica. L’opera d’arte non può essere per noi abbassata all’ufficio di “agitare, turbare, trasportare” psicologicamente lo spettatore, né fatta consistere in raffigurazioni o rapporti formali simbolici e provocanti per analogia reazioni psichiche conformi.” C.L. RAGGHIANTI, Film

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che il cinematografo sviluppa dell’opera d’arte non l’esterno e naturalistico aspetto della “storia” o del “racconto”, ma l’interno processo della generazione e della crescita della forma. Esso illumina e svolge proprio quei profondi temi formali, per cui un’opera d’arte non è soltanto la rappresentazione di una cosa che è, ma qualcosa che è, con una propria autonoma esistenza236».

Secondo lo storico dell’arte torinese, inoltre, «il comune fondarsi sulla dottrina della