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Prendendo a prestito il titolo del noto libro di Jacques Aumont sui rapporti tra cinema e pittura23, questa disamina della dottrina del film sull’arte prende avvio dalle considerazioni circa le potenzialità della camera posta davanti all’opera, e dagli specifici effetti da essa provocati. L’occhio meccanico, infatti, trasforma inevitabilmente qualunque oggetto ripreso secondo le caratteristiche costitutive del linguaggio filmico: taglio, scala, angolazione dell’inquadratura, movimenti di macchina, ritmo di montaggio, durata della visione, profondità di campo, apporto sonoro. Questi elementi assumono ancora maggiore rilevanza se applicati a un profilmico che è già, a sua volta, una riconfigurazione del reale attuata attraverso i canoni di un linguaggio artistico. Di fronte a questo doppio passaggio, dal reale a una prima forma espressiva, e da questa a una seconda forma espressiva, i codici si sovrappongono generando effetti inediti, con conseguenze cariche di senso. In questi film «al secondo grado», secondo la celebre espressione di Marcel L’Herbier24, le possibilità offerte dalla macchina da presa per indagare l’arte possono puntualmente trasformarsi in altrettanti rischi di travisarla. Qualunque strumento filmico è una risorsa e un pericolo: un’arma a doppio taglio, in definitiva, da maneggiare con cura per non ottenere effetti deleteri, talvolta diametralmente opposti, tanto alla buona riuscita del film quanto al corretto approccio all’opera d’arte.

Immancabilmente e immediatamente rilevata dai maggiori contributi teorici è la potenza dell’occhio cinematografico: «Le capacità di registrazione del cinema sono maggiori di quelle dell’occhio umano» rileva Paul Haesaerts, che prosegue elencando

«la divisione dello schermo, le panoramiche verticali e orizzontali, le carrellate indietro ed avanti, le giustapposizioni, i confronti, le macrofotografie, gli obiettivi deformanti, gli schemi animati, le diversità della luce, le cadute, le esitazioni, le rotazioni di apparecchi sono altrettanti mezzi d’espressione, di forme sintattiche a servizio del cineasta critico25».

Gli fa eco Valerio Mariani:

«Chiunque abbia praticamente composto ed eseguito un documentario d’arte avrà dovuto riconoscere che la macchina da presa può essere il più delicato e penetrante strumento di critica che si possa immaginare: così come può falsare completamente i valori espressivi delle opere illustrate, se usata senza consapevolezza critica, altrettanto può chiarire in maniera sorprendente il carattere essenziale e quindi determinare il vero significato dell’opera, quando venga adoperata come mezzo di analisi e di scoperta del vero significato estetico del materiale artistico che vogliamo documentare26.»

Il potere rivelatorio dell’immagine cinematografica fa dunque apparire le opere in maniera inedita:

«È vero che, penso, quasi tutti i film dotati di una reale qualità sembrano fornire una particolare sensazione di piacere nel vedere qualcosa con una nuova profondità e

23 J. AUMONT, L’oeil intérminable. Cinéma et peinture, Librairie Séguier, Parigi 1989; trad. it., L’occhio

interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia 1991.

24 M. L’HERBIER, Film al secondo grado, «Bianco e Nero. Rassegna mensile di studi cinematografici», anno XI, n. 8-9, agosto-settembre 1950, p. 64.

25 P.HAESAERTS,La critica e la storia dell’arte per mezzo del cinema, in M. VERDONE, Gli intellettuali e il

cinema. Saggi e documenti, Bianco e Nero Editore, Roma 1952, p. 219.

26V.MARIANI,Aspetti didattici del film sull’arte, «Film. Rassegna internazionale di critica cinematografica», Atti del Secondo Congresso sul Cinema e le Arti Figurative, anno II, n. 5-6, 1956, p. 53.

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penetrazione, come fosse per la prima volta: il che è, nuovamente, la particolare proprietà del film. Espone. Ma, inoltre, scopre. Questo senso di scoperta, molto simile a quello di una persona astigmatica che all’improvviso vede un nuovo e più ricco mondo nel momento in cui, per la prima volta, indossa le sue nuove lenti, persiste addirittura, in maggiore o minor misura, nelle successive visioni del film27.»

O ancora: «Vale la pena notare che i film, anche quelli in bianco e nero, prestano a ogni tipo di pittura un fascino particolare, dovuto alla strana presa esercitata dallo schermo, una materia che è tuttora oggetto di investigazione da parte dei filmologi28».

È certamente vero che la questione del caratteristico fascino assunto dalla realtà se mediata dalla macchina da presa è oggetto di indagine sistematica, nei primi anni Cinquanta, nell’ambito della filmologia, da un punto di vista soprattutto psicologico e talvolta anche estetico29. Ma, in generale, l’argomento non è per nulla nuovo: l’enfasi sul potere disvelatorio e trasformativo dell’obbiettivo, che consente di «esprimere con delicatezza, ma con la massima intensità, ciò che è taciuto, [di] rilevare ciò che resta latente30», si ricollega con evidenza alla stagione della riflessione teorica prettamente cinematografica fiorita in Europa tra le due guerre: dalla photogénie teorizzata da autori francesi come Jean Epstein, Germaine Dulac, Louis Delluc o Elie Faure31 alla riflessione di matrice gestaltica di Rudolph Arnheim32 o alle fondamentali considerazioni, in particolare sul primo piano, di Béla Balázs33 (e senza dimenticare l’onnipotenza del cine-occhio vertoviano34), tutte radicalmente fondate sul riconoscimento della capacità della macchina cinematografica di mostrare il reale sotto una nuova luce, di rivelare configurazioni del visibile altrimenti non afferrabili e apprezzabili e di rifondare, allargandola e potenziandola, la visione moderna. L’onda lunga di questi contributi seminali sembra confluire, declinata in una prospettiva specifica, nella riflessione sul film sull’arte. La macchina, che con il primo piano rivela «il volto delle cose», fornendo «nuovi temi da meditare» e scoprendo «le occulte radici della vita che già conoscevamo, o credevamo di conoscere35», sembra accentuare questa sua capacità penetrativa nel momento in cui è posta di fronte all’opera d’arte, rivelando del nuovo in qualcosa che già si ritiene di conoscere. Una riflessione di Pierre Francastel – che pare riecheggiare le parole di Balázs – sembra assegnare il primo e più importante ruolo epistemologico nel film sull’arte proprio al potere fotogenico della camera, che cogliendo ed esaltando l’aspetto figurativo dell’arte attiva una nuova modalità di sguardo su di essa da parte dello spettatore:

27 I. BARRY, Pionieering in Films on Art, in W.McK. CHAPMAN (a cura di), Films on Art, The American Federation of Arts, New York 1952, p. 3.

28 F. N. BOLEN, Films and the Visual Arts, in ID. (a cura di), Films on Art. Panorama 1953, Fédération Internationale du Film d’Art – UNESCO, Parigi 1953, p. 5.

29 Si veda, a titolo d’esempio, l’articolo di P. FRANCASTEL, Espace et illusion, «Revue Internationale de Filmologie», anno II, vol. II, n. 5, 1949, pp. 65-74.

30 P.HAESAERTS,La critica e la storia dell’arte per mezzo del cinema, p. 218.

31 J. EPSTEIN, L’essenza del cinema. Scritti sulla settima arte, a cura di V. PASQUALI, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Roma 2002; E. FAURE, De la cinéplastique, «La Grande Revue», CIV, n. 11, novembre 1920, poi in ID., L’Arbre d’Eden, Crés, Parigi 1922; L. DELLUC, Cinéma & Cie, a cura di P. LHERMINIER, Cinémathèque Française, Parigi 1986.

32 R. ARNHEIM, Film als Kunst, 1932, trad. it., Cinema come arte, Il Saggiatore, Milano 1960. 33 B. BALÁZS, Der sichtbare Mensch, 1924, trad. it., L’uomo visibile, Lindau, Torino 2008 (si veda

l’introduzione di Leonardo QUARESIMA per un inquadramento del pensiero del teorico ungherese). Cfr. anche B. BALÁZS, Der Film. Werden und Wesen einer neuen Kunst, 1952, trad. it., Il film, Einaudi, Torino 1987 [2002]. 34 D. VERTOV, L’occhio della rivoluzione, a cura di P. MONTANI, Mimesis, Milano – Udine, 2011.

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«Il film, che ci ha rivelato innumerevoli dettagli del mondo che ci circonda, ci mostra anche nuovi aspetti dell’opera d’arte, da cui risulta una nuova visione e una nuova educazione dell’occhio stesso dei più avvertiti. Il cinema, che ci ha aperto in generale dei nuovi punti di vista sul mondo esteriore, è anche un mezzo per approfondire la nostra conoscenza di quegli organismi misteriosi che sono i capolavori36».

Ugualmente, Sergio Frosali richiama direttamente le idee di Epstein in un suo intervento:

«E i particolari cominciano ad apparirci volta a volta come tante emozionanti scoperte verso una verità e una conoscenza che a mano a mano ci diverrà più prossima. Il cinema, col suo occhio acuto e in definitiva tutt’altro che fisico, non farà altro che materializzare davanti a noi delle idee, dei concetti. Poiché il cinema, in mani adatte, può essere non solo uno strumento di riproduzione ma, come dice Epstein, «l’oeil surréel du monde», o più esattamente «l’instrument le plus réaliste de l’irréel», cioè lo spirito37».

Se quello della riflessione teorica sul cinema degli anni Venti è un retroterra comune (sebbene forse non sempre consapevolmente riconosciuto) per molte osservazioni di questo tipo, altrettanto importante è la matrice derivante dal campo specifico della critica d’arte.

Da un lato, la macchina da presa si aggiunge alla fotografia come mezzo di indagine attenta e scientifica dell’opera, diviene «una sonda, une lente d’ingrandimento, un telescopio, un retrovisore38», integrandosi nel novero degli strumenti a disposizione del critico e del connaisseur, per studiare nel dettaglio, anche materiale, l’oggetto in esame. Dall’altro lato, lo sguardo della camera mette in risalto la natura eminentemente figurale dell’opera, ne fa emergere con una chiarezza difficilmente eguagliabile tramite la parola scritta gli schemi formali e compositivi, le dinamiche interne, l’organizzazione spaziale. L’analisi così compiuta si colloca allora nell’alveo delle teorie della pura visibilità39, alla quale si rifanno, pur in maniera ben diversa l’uno dall’altro, sia Ragghianti che Haesaerts, l’uno ricostituendo il processo creativo a partire dagli aspetti formali dell’opera, l’altro evidenziando composizioni ed aspetti figurativi, con un procedimento d’analisi quasi di ascendenza gestaltica. È già stato rilevato il fondamentale contributo che le teorie purovisibiliste hanno avuto nella critica d’arte della prima metà del XX secolo40. Una specifica rilevanza è da esse rivestita nella fondazione teorica del film sull’arte, che punta a incarnare l’ideale fiedleriano di «spiegare il visivo con il visivo», in particolare per coloro – come i due storici dell’arte appena richiamati – che intendono il film sull’arte come autentico atto critico.

Si può quindi constatare come fin dalle prime mosse della riflessione teorica sul documentario d’arte – a livello della semplice osservazione degli effetti di una camera puntata su un’opera – essa presenta due matrici conviventi, l’una di ambito prettamente cinematografico, afferente alle teorie elaborate nel periodo interbellico, l’altra derivante dalle

36 P. FRANCASTEL, Le point de vue d’un pédagogue, in Le film sur l’art. Bilan 1950, Les Arts Plastiques-UNESCO, Bruxelles-Parigi, 1950, p. 15.

37 S. FROSALI, Il cinema al servizio delle arti, in Atti del primo Convegno internazionale per le arti figurative [Studio italiano di storia dell’arte, Firenze, Palazzo Strozzi, 20-26 giugno 1948], Edizioni Universitarie, Firenze 1948, p. 71.

38 P.HAESAERTS,De la toile à l’écran, «Critica d’arte», anno VIII, n. 47, settembre-ottobre 1961, p. 3. Anche

Italo CREMONA (Di un momento del cinematografo per lo studio delle opere d’arte, in Atti del primo Convegno

internazionale per le arti figurative) si riferisce alla macchina come a una lente d’ingrandimento potenziata a

disposizione del critico d’arte.

39 Per un inquadramento generale sulla pura visibilità, si vedano G.C. SCIOLLA, La critica d’arte del Novecento, UTET, Torino 1995 [2006] (in particolare i capitoli 1, 2 e 4) e O. CALABRESE, Il linguaggio dell’arte, Bompiani, Milano 1985 (capitolo 1).

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teorizzazioni dell’estetica e della critica d’arte del primo Novecento. La natura bifronte del film sull’arte si riflette in questa doppia discendenza genealogica della dottrina che si cerca di costruire attorno ad esso41.

Ma al di là di un generico “vedere di più” o “vedere meglio”, quali possibilità dischiude l’obbiettivo rivolto all’opera? Possiamo suddividere in tre grandi tipologie il potere di rivelazione della camera. Anzitutto, un potere analitico, a cui si rifà la maggior parte dei contributi che riflettono sul documentario d’arte: la scomposizione e la ricomposizione dell’opera attraverso le leggi del moto, del montaggio, del ritmo cinematografico e dei suoi ulteriori elementi (colore o bianco e nero, commento parlato, musica, possibilità di animazione delle immagini) consentono uno sguardo più penetrante e capace di fare del film un mezzo didattico, divulgativo o, nella più auspicabile delle ipotesi, critico. Agli stessi obbiettivi concorre il potere sinottico del cinema, che permette di accostare con straordinaria efficacia le opere più diverse facendone scaturire, con estrema chiarezza, affinità e differenze, così da compiere un’efficace sintesi nella percezione e nella conoscenza dello spettatore tra le opere di uno stesso artista, di un movimento culturale o di un periodo storico:

«Dobbiamo riconoscere, tuttavia, che le virtù specifiche del film sull’arte sono sinottiche piuttosto che analitiche. In qualità di medium dinamico, il film può tollerare un’immagine statica solo per pochi secondi alla volta; le sue parole d’ordine sono Cambiamento e Sequenza. Perciò, dopo la visione, poniamo, di un film sulle incisioni di Goya, lo spettatore se ne andrà senza conoscere bene nemmeno una stampa, ma con una potente impressione del mondo dell’immaginazione di Goya nel suo complesso. Certi film […] esibiscono questo potere di sinossi in forma estrema inseguendo il loro tema attraverso il lavoro di molti grandi maestri differenti, quasi sopraffacendo il pubblico in questo processo42».

Infine, sebbene sia raramente preso in considerazione, non bisogna dimenticare il potere suggestivo che il film esercita immediatamente sul pubblico: «è noto che il cinema possiede una eccezionale potenza di suggestione; lo spettatore deferisce all’obiettivo della macchina da presa tutte le sue qualità sensorie, rinuncia a ogni intervento critico sulla visione, compie inconsciamente tutti i movimenti nello spazio e nel tempo che il ritmo della rappresentazione gli impone43». Come rimarca anche Henri Lemaître, «il cinema non è essenzialmente un organo di dimostrazione, ma ben di più una forza di suggestione44».

Seppure rare, non mancano però le voci che pongono in dubbio la legittimità di un simile sguardo verso un dipinto o una statua: «tuttavia, l’opera realizzata da un uomo con gli occhi normali, mi pare che solo giudicata da un uomo con gli occhi normali abbia il più giusto destino45». Il rapporto di visione che l’opera instaura con l’osservatore è funzionalmente stabilito dall’opera stessa, e varia da caso a caso: la visione imposta all’osservatore dalla volta

41 Va notato che le stesse teorie cinematografiche degli anni Venti mostrano ad un attento esame un debito sostanziale con quelle della pura visibilità: è nel clima concettuale scaturito da queste ultime infatti che può svilupparsi la riflessione sull’immagine “nuova” del cinema, tutta concentrata sul suo carattere visivo. La stretta connessione tra teorie purovisibiliste e teorie filmiche degli anni Venti nel film sull’arte viene indicata in uno scritto di estetica di Giuseppe VETRANO nella «Rivista del cinema italiano»: Appunti per uno studio sistematico

sui valori della critica d’arte nella critica cinematografica, anno III, n. 5-6, maggio-giugno 1954.

42 H.W. JANSON, College Use of Films on Art, in W.McK. CHAPMAN (a cura di), Films on Art, p. 40. 43 G.C. ARGAN, Lettura cinematografica delle opere d’arte, «Bianco e Nero. Rassegna mensile di studi cinematografici», anno XI, n. 8-9, agosto-settembre 1950, p. 41.

44 H. LEMAITRE, Beaux-Arts et Cinéma, Editions du Cerf, Parigi 1956, p. 134. 45 I. CREMONA, Di un momento del cinematografo, p. 68.

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della Sistina (d’insieme, a notevole distanza, su un asse verticale) è ben diversa da quella richiesta da un piccolo quadro fiammingo (ravvicinata, concentrata sui particolari). La fotografia, secondo Italo Cremona, ha alterato questa situazione, imponendo un’uniformità di visione a tutte le opere, applicando a tutte il medesimo tipo di sguardo e così privandole di un elemento della loro identità. «Se poi alla fotografia, alla serie di fotografie, s’aggiunge la ripresa cinematografica il procedimento s’arricchisce oltre che di altri elementi del fattore “tempo”: ma d’un “tempo”, si badi bene, invertibile e praticamente e non solo teoricamente arrestabile nell’attimo46». Un tempo, cioè, intrinsecamente diverso da quello “bloccato” nella pittura o nella scultura.

È proprio il nodo cruciale del rapporto tra spazio e tempo a creare le maggiori difficoltà di teorizzazione. L’ipoteca della spartizione di origine lessinghiana tra poesia e pittura, tra arti dello spazio e arti del tempo47 – una sistemazione nella quale il cinema ha fin dal principio faticato a trovare posto, contribuendo anzi a scardinarla definitivamente – fa ancora sentire i suoi effetti e la conciliazione tra arti plastiche e film appare a molti ardua e a qualcuno addirittura impossibile, con il conseguente rifiuto di qualunque avvicinamento alle opere tramite la camera. Ne è fermamente convinto, dalle pagine di «Bianco e Nero», Giuseppe Fiocco:

«A questo punto, senza accennare al problema dei problemi, il quale ci chiede se è possibile illuminare un’arte con la tecnica di un’altra arte, si può subito dire che, stando alle loro esigenze sostanziali, né la scultura, né l’architettura, né tantomeno la pittura, sembrano capaci di essere tradotte in ritmo di tempo, cioè di moto; essendo la loro parola definita e fissata irrimediabilmente. Alle arti plastiche il cinematografo può quindi far la ruota interna come il pavone; non più48».

E più avanti rimarca ancora: «non c’è dunque possibilità alcuna di accostarsi al mondo tanto appassionante dell’arte, che accompagna la vita dell’uomo sino dal suo primo apparire, quale rugiada miracolosa? Bisogna schiettamente convenire che no49». Questa inconciliabilità permanente tra film e pittura emerge con frequenza negli scritti, e la sua più evidente conseguenza è ben sintetizzata da Beatrice Farwell in una sorta di legge di proporzionalità inversa: «più un film sull’arte è valido come film, meno accrescerà la comprensione di qualcuno sulla pittura50».

La dicotomia tra dimensione spaziale delle arti plastiche e dimensione temporale del cinema sottintende il conflitto tra la staticità delle prime e il dinamismo del secondo. Questa frizione tra mobilità e immobilità è acutamente sentita all’unanimità, poiché se è impensabile bloccare il film – pena la perdita del suo tratto essenziale – altrettanto inaccettabile è animare la pittura in maniera arbitraria, rompendo la stasi perfetta in cui l’autore ha voluto condensare e immortalare il movimento51. «La questione della relazione del soggetto visivo con il movimento

46 IVI, p. 69.

47 G.E. LESSING, Laokoon oder über die Grenzen der Malerei und Poesie, 1766; trad. it. a cura di M. COMETA,

Laocoonte, Aesthetica, Palermo 2003.

48 G. FIOCCO, Documentari d’arte, «Bianco e Nero. Rassegna mensile di studi cinematografici», anno XI, n. 8-9, agosto-settembre 1950, p. 104.

49 IVI, p. 106.

50 B. FARWELL, Films on Art in Education, «Art Journal», vol. 23, n.1, Autumn 1963, p. 40.

51 È utile richiamare la differenza tra la ricerca dell’“istante pregnante” della pittura, che deve riuscire a condensare visivamente tutto l’evento in un solo momento di massima sintesi, e la volontà di cogliere l’“istante qualunque” che si fa strada nella rappresentazione artistica già dalla fine del XVIII secolo, assumendo una centrale importanza con l’invenzione della fotografia e nell’arte del secondo Ottocento. Il film, “che è tutto

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del film e quello della struttura dell’oggetto filmico con l’oggetto visivo enfatizzano la vera difficoltà nell’interpretazione delle opere d’arte statiche attraverso il film52

Tra coloro che non ritengono che il quadro debba essere posto in movimento c’è notoriamente Roberto Longhi: riferendosi ai suoi celebri film realizzati insieme a Umberto Barbaro53, afferma che «le opere d’arte “stanno”, non intendono punto muoversi, dopo che furono, dall’autore stesso, proiettate in una “sosta”: vibrante, bruciante finché si vuole, ma sempre una sosta di perennità vivente.» Sarà il film a doversi arrestare, a dover lasciar «friggere» il fotogramma essenziale sullo schermo, mentre «i registi di documentari sull’arte dovranno provvedere a nuovi e particolari canoni di montaggio invece di sforzarsi all’impossibile54».

Roberto Paolella è della stessa opinione su «Bianco e Nero»:

«Un’altra pretesa strana è poi quella di introdurre il movimento nell’opera d’arte. Ma crede davvero il nostro regista attraverso l’angolazione, la successione dei piani, le panoramiche e i carrelli di creare questo movimento? Allora sarebbe il caso di fargli comprendere, sia pure con le dovute precauzioni, che un quadro ha tra le quattro assi della cornice tutto il movimento che l’artista ha creduto imprimere alle sue figure, nel momento fecondo della creazione, al quale movimento nulla aggiungono i soliti banali virtuosismi dell’operatore cinematografico55».

Ma è Enzo Carli, nell’inchiesta di «Cinema», a proporre alcune delle osservazioni più significative su questa questione, in una risposta che vale la pena riportare per intero.

«Per quanto riguarda l’apprezzamento estetico, debbo rilevare che il cinema, essendo arte delle immagini in movimento, si pone in antitesi con ogni forma di attività critica attorno alle arti figurative, in quanto questa procede da una visione il più possibile lunga, ripetuta e meditata di oggetti immobili e destinati all’immobilità. Non è possibile conciliare