Il film sull’arte rappresenta dunque una delle modalità principali con le quali l’arte viene resa disponibile al pubblico di massa: un ruolo fondamentale fino al termine degli anni Cinquanta, e che rimane importante ancora per un decennio.
Il 1954, com’è noto, vede anche in Italia l’avvento della televisione – le cui trasmissioni sono inaugurate da un documentario sull’arte di Giambattista Tiepolo, il 3 gennaio –, che nel giro di qualche anno assumerà rilevanza centrale per la diffusione della cultura, e specificatamente per la divulgazione delle arti attraverso documentari, servizi, inchieste, approfondimenti. Non è azzardato sostenere che nel giro di poco meno di un decennio, dall’inizio degli anni Sessanta in poi, la televisione diventa il canale principale di produzione e
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diffusione per il film sull’arte, che «non si è mai arrestata, ma semplicemente spostata99». Meglio rispondente agli intenti informativi ed educativi del documentario sulle arti, grazie a una pervasività via via crescente (il numero di apparecchi cresce negli anni esponenzialmente100) e a un’innegabile forza di persuasione, la televisione si assume di buon grado il ruolo di strumento di divulgazione (massificata) delle arti; d’altra parte, un prodotto come il film sull’arte risponde perfettamente agli intenti pedagogizzanti e formativi che le televisioni pubbliche europee, e in particolare la Rai, perseguono nei primi decenni101.
Questo lavoro di ricerca non affronta l’arte nel contesto del medium televisivo (né in altri media, come per esempio quello radiofonico, o nelle riviste illustrate: tutti ambiti che meriterebbero attenzione), limitandosi per coerenza tematica al solo film cinematografico sull’arte. Tuttavia è impossibile sottostimare il ruolo assunto col passare del tempo dalla televisione: alcuni apprezzati registi di film sull’arte già negli anni Cinquanta operano principalmente per la televisione (John Read per la BBC, Jean-Marie Drot per RTF), storici e critici d’arte, come altri intellettuali, ragionano sulla funzione sociale e culturale del nuovo medium e vi prendono spesso parte102; molti dei registi di film sull’arte prima operanti nel cinema passano negli anni alla televisione, spesso mantenendo se non innalzando ulteriormente gli alti standard qualitativi delle loro realizzazioni.
La televisione opera profondamente sulla forma stessa del film sull’arte: se inizialmente i documentari cinematografici sono il modello di quelli televisivi, che li riprendono pedissequamente, le esigenze del nuovo medium dettano particolari condizioni e accorgimenti che, dalla metà degli anni Sessanta, si riverberano di ritorno sul documentario cinematografico (sempre più spesso pensato con la prospettiva di un successivo sfruttamento televisivo): presenza di interviste a esperti, artisti o semplici visitatori, sostituzione dell’impersonale voce
99 V. ROBERT, Introduction. Approches d’un genre hybride, le film sur l’art, in V. ROBERT, L. LE FORESTIER, F. ALBERA, Le film sur l’art. Entre histoire de l’art et documentaire de création, p. 25, nota 51.
100 Per un quadro sulla diffusione, i consumi e gli usi sociali della televisione nel primo decennio, rimando al recente volume di Damiano GAROFALO, Storia sociale della televisione in Italia 1954-1969, Marsilio, Venezia 2018.
101 Sulla presenza dell’arte nei programmi Rai si segnalano alcune pubblicazioni di riferimento. Anzitutto quelle edite dell’emittente televisiva stessa: Atti del convegno su Le arti visuali e il ruolo della televisione, ERI, Torino 1979; Atti del convegno La televisione e il patrimonio artistico, ERI, Torino 1982; L. BOLLA, F. CARDINI (a cura di), Le avventure dell’arte in Tv. Quarant’anni di esperienze italiane, Rai-Nuova ERI, Roma 1994; ID. (a cura di), La Rai, i beni culturali e l’ambiente. Cinquant’anni di programmazione televisiva, Rai-ERI, Roma 1999. Un’accurata ricognizione e schedatura delle trasmissioni inerenti l’arte nel primo periodo della Rai è stata compiuta da Rebecca ROMERE, In arte Rai. I documentari sulle arti figurative tra storia aziendale e divulgazione
culturale (1953-1962), tesi di laurea, relatore prof. G. Barbieri, Università Ca’ Foscari, Venezia a.a. 2013/2014.
Tra le altre pubblicazioni si vedano M. SENALDI, Arte e televisione. Da Andy Warhol al Grande Fratello, Postmedia, Milano 2009; A. GRASSO, V. TRIONE (a cura di), Arte in TV. Forme di divulgazione, Johan & Levi, Milano 2014. Al di fuori dell’Italia, particolarmente significativa è la presenza di programmi dedicati all’arte nei canali televisivi dei paesi anglosassoni, e in particolare negli Stati Uniti, dove la rimediazione dell’arte in tv come prodotto commerciale e d’intrattenimento emerge con piena chiarezza, mentre si evince l’influenza dell’arte moderna nell’estetica televisiva: si veda al riguardo L. SPIGEL, Tv by Design. Modern Art and the Rise
of Network Television, The University of Chicago Press, Chicago-Londra 2008.
102 Il rapporto tra intellettuali e televisione è al centro di A. GRASSO (a cura di), Schermi d’autore. Intellettuali e
televisione 1954-1972, Rai-Nuova ERI, Roma 2002; M.T. DI MARCO, P. ORTOLEVA (a cura di), Luci del
teleschermo: televisione e cultura in Italia, Electa, Milano 2004. Sul caso specifico degli storici dell’arte cfr. L.
BOLLA, F. CARDINI (a cura di), Federico Zeri. L’enfant terrible della televisione italiana, Rai-ERI, Roma 2000; T. CASINI, Argan e la televisione, in C. GAMBA (a cura di), Giulio Carlo Argan intellettuale e storico dell’arte, Electa, Milano 2012, pp. 156-166; T. CASINI, Intellettuali e televisione: Argan, Ragghianti e Zeri, in C. GAMBA, A. LEMOINE, J.M. PIRE (a cura di), Argan et Chastel. L’historien de l’art, savant e politique. Le rôle des
historiens de l’art dans les politiques culturelles françaises et italiennes, Éditions Mare & Martin, s.l. 2014, pp.
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fuori campo con un presentatore che si rivolge direttamente alla telecamera, incarnando più esplicitamente la figura di mediatore tra pubblico e opera, stretta connessione con eventi di attualità (mostre, manifestazioni, ricorrenze, inaugurazioni). Dal punto di vista del linguaggio audiovisivo, una minore incidenza di movimenti di macchina, aumento dei dettagli e diminuzione delle inquadrature a distanza (che sul piccolo schermo degli apparecchi non risultano significative), ritmo di montaggio meno serrato, scarsa attenzione al colore dal momento che le trasmissioni saranno in bianco e nero fino agli anni Settanta inoltrati. Ma è dal punto di visto della ricezione spettatoriale che la televisione opera una radicale familiarizzazione del pubblico con l’arte: se il cinema aveva reso disponibili le opere, le aveva poste in circolazione, le aveva mostrate sul grande schermo, la televisione le porta direttamente “in casa”. L’arte lascia la sfera pubblica ed entra in quella privata: come fa notare Berger nel suo programma, la Gioconda non è più sulle pareti delle sale (pubbliche) del Louvre, circondata dalla sua cornice, ma, mediatizzata dalla tv, compare contemporaneamente nei salotti di milioni di case, da quelle popolari a quelle della classe media e dell’alta borghesia, circondata dalle tappezzerie di questi soggiorni che le fanno da nuova cornice. Un processo già iniziato con l’editoria d’arte della prima metà del Novecento103, ma che la televisione radicalizza: acquistare libri o fascicoli d’arte presuppone un interesse pregresso che spinge l’acquirente a cercare un punto di vendita e a investire denaro ed energia per avere la propria riproduzione d’arte privata, in forma di libro o di stampa; la comparsa dell’arte sullo schermo televisivo raggiunge invece chiunque, anche coloro (la maggioranza degli spettatori) che non sarebbero, di propria volontà, interessati ad essa. L’immagine artistica, nell’ininterrotto flusso televisivo (accentuatosi negli ultimi decenni), conosce una straordinaria diffusione, ma perde ulteriormente lo status di immagine diversa dalle altre (e spesso avvertita come superiore alle altre) per divenire un’immagine tra le altre, a siglare in un’unica battuta la democratizzazione e la massificazione dell’arte.
Immagini
2: l’arte come attrazione visiva
Ci si è chiesti, in apertura, cosa sia un film sull’arte. Altrettanto interessante è la domanda su che cosa faccia un film sull’arte, e su come agisca nei confronti dell’arte ritratta. Anche in questo caso è possibile partire da una risposta, per così dire, di grado zero: un film sull’arte fa vedere l’arte.
L’obbiettivo e l’effetto primari di un documentario sulle arti sono cioè di proporre e consentire una visione nuova dell’arte, diversa dalla consueta, per certi aspetti potenziata, più ricca e più significativa di quella usuale. È una considerazione presente fin da subito nelle riflessioni teoriche, che insistono molto sul potere disvelatore della camera nei confronti dell’opera: la “rivelazione” del film sull’arte consiste in questa nuova visione. Ciò che non tutti i commentatori (a dire il vero, pochi tra loro) colgono è che questa nuova visione costituisce un importante elemento di interesse e piacere per lo spettatore. Il film sull’arte promette implicitamente questa visione arricchita, inedita, e talvolta letteralmente impossibile per un osservatore nella realtà: superando distanze e impedimenti fisici, la camera mostra la volta della Sistina a distanza ravvicinata, come nessuno potrebbe esperirla sul posto, o ci rende testimoni di Picasso al lavoro nell’atelier, un’eventualità del tutto inesistente se non per gli intimi
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dell’artista. Ma anche nel caso di opere facilmente accessibili, il cinema le mostra in maniera diversa da come le si può osservare dal vivo o in riproduzione fotografica. Questa nuova visione è in grado, se ben controllata, di suscitare meraviglia, stupore, fascinazione nello spettatore: tutti effetti deprecati dagli storici dell’arte, poiché distoglierebbero da una rigorosa e oggettiva conoscenza dell’oggetto, ma che al contempo lo spettatore, magari inconsapevolmente, ricerca e si aspetta di trovare. Il genere, l’abbiamo già ricordato, suscita un orizzonte di attese nel pubblico: per il documentario artistico, tra queste attese c’è quella di restare affascinati dall’arte ritratta dal cinema.
Si potrebbe affermare che questa visione “potenziata” sia l’attrazione del film sull’arte, una caratteristica che condivide, per esempio, con il film scientifico propriamente detto e con il film d’avanguardia. Utilizziamo consapevolmente il termine attrazione, con tutto il bagaglio di senso che l’ha investito negli studi di storia del cinema, in particolare del cinema delle origini. André Gaudreault, insieme a Tom Gunning, ha infatti individuato nell’attrazione visiva il tratto fondamentale del cinematografo nella sua primissima fase storica, tra il 1895 e il 1907/08, definita “sistema delle attrazioni mostrative”: il film mostra il reale riproducendolo, e questo è motivo sufficiente d’esistenza del medium e d’interesse da parte del pubblico. A questa, seguì la fase del “sistema di integrazione narrativa”, nella quale la spinta alla narrazione si affianca alla pura mostrazione, finché, attorno al 1915, il processo si conclude con la nascita del cinema come istituzione sociale e del film come forma espressiva dominata dall’istanza narrativa104: non mostra più soltanto il reale, ma racconta storie. Il concetto di attrazione è per Gaudreault a tal punto essenziale per comprendere il cinema del primo decennio che preferisce indicare questa stagione storica, riprendendo un’espressione già in uso all’epoca, cinematografia-attrazione. L’attrazione è intesa dallo studioso canadese con una doppia accezione: la macchina cinematografica è attrazione di per sé, in quanto tecnologia che cattura e riproduce il reale; ma attrazione è anche l’oggetto che viene riprodotto e mostrato dal cinema sullo schermo. «Si tratta […], come afferma Gunning, di un momento di pura “manifestazione visiva”, caratterizzato dal riconoscimento implicito della presenza dello spettatore, con il quale l’attrazione si confronta direttamente in modo, diciamo così, esibizionista. L’attrazione è là davanti allo spettatore, per essere vista. Non esiste, strictu sensu, se non nel suo darsi a vedere105.» Anche se il regime prevalentemente narrativo soppianta quello fondato sull’attrazione con il processo di istituzionalizzazione degli anni Dieci, non significa che il cinema abdichi completamente alle istanze mostrative e al ricorso alle attrazioni visive, inglobate all’interno del nuovo impianto: l’integrazione dei due regimi, narrativo e mostrativo, è consustanziale al cinema. È pur vero che ogni genere e ogni film negozia queste due istanze in percentuali diverse, assegnando all’una o all’altra maggiore rilevanza, e che particolari tipologie di film hanno mantenuto più di altre un regime che privilegia la visione, all’interno di un panorama generale dominato dal principio narrativo. Il film sull’arte appare chiaramente essere una tipologia filmica basata
104 A. GAUDREAULT, Cinema delle origini, pp. 41-42. Sull’emersione e sull’affermarsi del paradigma narrativo attorno al 1908/1909 si veda il noto studio di Tom GUNNING, D.W. Griffith and the Origins of American
Narrative Film. The Early Years at Biograph, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 1991. Sul cinema
delle origini, importanti i volumi collettanei di T. ELSAESSER con A. BARKER (a cura di), Early Cinema. Space,
Frame, Narrative, British Film Institute, Londra 1990 e N. DULAC, A. GAUDREAULT, S. HIDALGO (a cura di), A
Companion to Early Cinema, Wiley-Blackwell, Malden 2012. Tra i contributi italiani, G. CARLUCCIO, Verso il
primo piano. Attrazione e racconto nel cinema americano. Il caso Griffith-Biograph, Clueb, Bologna 1999.
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anzitutto sull’istanza mostrativa, più che su quella narrativa. Il film sull’arte può raccontare l’arte, ma deve necessariamente mostrarla per qualificarsi come tale.
Facendo un ulteriore passo avanti, si vuole qui accogliere la suggestione espressa sia da Tom Gunning che da Thomas Elsaesser in un recente convegno all’Università Roma Tre106, secondo i quali l’istanza attrazionale e mostrativa, che coincide con il momento spettacolare del film, è tanto rilevante per la comprensione di tutta la storia del cinema (e non solo di quello delle origini) che si può ipotizzare l’inserimento del film in una più ampia categoria di studi che Gunning ha denominato spectacle studies, volto a indagare come la tecnologia abbia modificato le forme espressive fondate sulla predominanza della visione107. Al film sull’arte spetterebbe un posto d’onore negli spectacle studies, intendendo correttamente la parola spectacle, spettacolo. Come specificato da Gunning, essa va compresa risalendo alla sua radice etimologica: il latino spectaculum, da spectare, forma iterativa del verbo specio: «guardare fissamente, osservare con attenzione108». Lo spectaculum è qualcosa da guardare con intensità, e che dunque a sua volta si mostra, si dà a vedere esplicitamente109. L’arte è spettacolo e attrazione per eccellenza, e lo conferma implicitamente anche il testo appena citato di Gaudreault: «l’attrazione è là davanti allo spettatore, per essere vista. Non esiste, strictu sensu, se non nel suo darsi a vedere». Potremmo cambiare “attrazione” con “opera d’arte” e il senso dell’affermazione non muterebbe. L’opera non esiste se non nel suo farsi vedere: si ostenta, si rivela, e offre alla piena visione il proprio carattere di visibilità.
Tramite questa offrirsi alla visione, l’arte è spettacolo per definizione e attiva regimi scopici specifici, diversi dai consueti: non osserviamo l’immagine di un quadro come osserviamo la realtà attorno a noi. La visione che la camera offre di un’opera è l’ulteriore rimodulazione di questo regime di visione; il film sull’arte è perciò visione di una visione. A questo punto è ben comprensibile l’affermazione di Marcel L’Herbier secondo cui il film sull’arte è un «film al secondo grado». Si potrebbe chiarire ulteriormente questa considerazione riprendendo l’esempio di apertura su Venere e Marte di Botticelli. Qualunque utilizzo della camera cinematografica è, si è detto, un’operazione di iconogenesi, creazione di un’immagine; ma, in questo preciso caso, isolando e ritagliando il ritratto della dea per rimediarlo e moltiplicarlo, si genera un’immagine a partire da un’immagine. Sembra più corretto parlare di immagini al secondo grado piuttosto che di semplici film al secondo grado, poiché se da una parte l’immagine filmica derivata da un’immagine artistica è chiaramente “potenziata” (è l’immagine di un’immagine), anche l’immagine artistica mediata da quella cinematografica lo è, dal momento che ne emergono caratteristiche altrimenti non (così facilmente) osservabili. La corrispondenza è quindi biunivoca: film e opera, cinema e arte si supportano, si potenziano e si esaltano vicendevolmente.
106 XXIV Convegno Internazionale di Studi Cinematografici, Dallo spettacolo all’entertainment. Cinema, media
e forme del coinvolgimento dalla modernità a oggi, a cura di Enrico Carocci, Ilaria De Pascalis, Veronica
Pravadelli, Università Roma Tre, Roma, 21-23 novembre 2018. Tom Gunning e Thomas Elsaesser hanno formulato i loro interventi in qualità di keynote speakers della conferenza.
107 Sull’idea idea di spettacolo come forma espressiva primariamente visiva, che anticipa e ingloba il cinema, Carlo Ludovico Ragghianti ha insistito nei suoi scritti su cinema e teatro. Si tornerà su questa questione e sul pensiero ragghiantiano nel capitolo I.
108 L. CASTIGLIONI, S. MARIOTTI, Vocabolario della lingua latina, Loescher, Torino 1963 [terza ed. 1996], ad vocem.
109 Si noti che in inglese il termine spectacle ha mantenuto più che l’italiano spettacolo il legame con l’area concettuale della visione: esso indica uno spettacolo grandioso e che appaga particolarmente l’occhio, rispetto al più generico show; inoltre con spectacles si indicano le lenti degli occhiali da vista.
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Dunque l’elemento precipuo e fondamentale del film sull’arte, prima ancora di quello critico, educativo, divulgativo, narrativo, drammatizzante o di qualunque altro, è il suo carattere spettacolare in senso profondo, che si fonda su una doppia istanza di mostrazione, quella del cinema che mostra l’arte e quella dell’arte che si mostra e viene mostrata. Questo carattere spettacolare agisce nei due sensi, e dunque la doppia afferenza dell’attrazione individuata da Gunning e Gaudreault si conferma anche nel caso del film sull’arte: l’attrazione è infatti costituita dall’arte esibita sullo schermo, ma anche dalla macchina cinematografica che si dà (implicitamente) a vedere nel rendere possibile questa visione elevata a potenza. Nel rivelare l’arte, il cinema ne trasforma lo spettacolo, ossia il suo darsi a vedere, il suo mostrarsi, in spettacolo tecnologico, ed esalta così il proprio apparato110.
Cosa fa, dunque, un film sull’arte? Fa vedere l’arte, che già di per sé si fa vedere; è lo spettacolo tecnologico di uno spettacolo visivo. Il film sull’arte costituisce una complessa dinamica di regimi di sguardo: quelli predisposti dall’opera e quelli predisposti dalla camera che, talvolta in accordo e talaltra in conflitto, producono una straordinaria stratificazione di senso e pregnanza delle immagini, generando un’immagine2.