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Non solo pittura: film su scultura, architettura, archeologia Parlare di documentari d’arte equivale, nella gran parte dei casi, a parlare di documentari

sulla pittura. Anche laddove si intende trattare l’argomento in generale, si avverte che il modello

273 P.HAESAERTS,De la toile à l’écran, «Critica d’arte», anno VIII, n. 47, settembre-ottobre 1961, p. 5 (corsivo

nell’originale).

274 Roberto Pane in M.GANDIN,M.MAZZOCCHI,Cosa pensano del cinema (3), p. 165.

275 V. GUZZI, Funzione e limiti del documentario d’”arte”, pp. 127-128.

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su cui l’autore conforma la sua argomentazione è quello del documentario pittorico. Il numero di film sulla pittura è significativamente più ampio di quelli dedicati alle altre arti, le quali presentano caratteristiche peculiari che differenziano molto il possibile approccio filmico.

Le indicazioni sui film di scultura e architettura, pur numerose, sono maggiormente disperse e frammentarie; è necessario raccogliere singole frasi, brevi paragrafi, note al testo per poter costituire un discorso coerente. Spesso, le due arti sono trattate insieme per via della loro natura tridimensionale, in opposizione alla bidimensionalità della pittura – anche se, chiaramente, l’esperienza della tridimensionalità resa possibile da una scultura è ben diversa dalla spazialità esperita tramite un’architettura, una differenza di basilare interesse per la loro traduzione cinematografica277.

L’opinione comune è che, in virtù del loro sviluppo tridimensionale e dunque fortemente temporale per l’osservatore, scultura e architettura, «a differenza della pittura, non entrano necessariamente in battaglia con il medium filmico278». Filmare una scultura è generalmente considerato più semplice che riprendere un dipinto per via del carattere unitario dell’opera, esperibile solo in una dimensione temporale che ben si concilia con il linguaggio cinematografico.

«Anzitutto un’opera di scultura è più semplice, quasi unitaria, direi; […] una statua di Michelangelo si presenta allo spirito in modo più immediato e completo, sia per la forma raccolta, sia per la maggiore unità di sentimento che ne emana rispetto ad un quadro dove siano diversi volti esprimenti diversi sentimenti, e diverse inflessioni dei corpi. Quindi il cinema ha rispetto ad essa un compito più immediato e più breve. E tuttavia esso ha un potere che sulla pittura non poteva avere, potere dato dalla spazialità dell’opera. Mentre davanti ad un quadro la macchina da presa si piazzava perpendicolarmente, sia pure spostandola qua e là per scoprire dettagli diversi, davanti alla scultura essa dispone di una scelta infinita delle posizioni intermedie che vanno dallo scorcio dall’alto allo scorcio dal basso, alle più varie inquadrature prospettiche. Importanza enorme, perché la bellezza di una statua si rivela dalla comparazione delle sue prospettive spaziali, e la comprensione nasce dopo la raggiunta padronanza di un’infinità di punti di vista279.»

Tuttavia, la totale libertà di movimento della camera indicata da Frosali e da altri come vantaggio nell’affrontare la scultura rispetto alla pittura è un falso mito: la quantità delle possibili posizioni di ripresa e di punti di visione è comunque limitata, e deve essere impostata da uno studio preliminare particolarmente attento: «le possibilità d’interpretazione offerte dalla scultura al regista sono assai limitate. Il suo compito dovrà limitarsi, per la maggior parte del tempo, a rendere sensibile la totalità delle forme organizzate nello spazio reale280». In questo esame devono rientrare anche considerazioni sull’illuminazione artificiale, che con effetti di

277 L’opposizione tra volumetria tridimensionale e resa bidimensionale, e il suo possibile superamento, è una

vexata questio nei rapporti tra architettura e scultura (ma anche design) da una parte e fotografia e cinema

dall’altra. Si veda il capitolo I per la riflessione attorno alla resa fotografica della scultura; per quanto riguarda il rapporto con il cinema, rilevante il recente contributo di V. ADRIAENSENS, L. COLPAERT, S. FELLEMAN, S. JACOBS, Screening Statues. Sculpure and Cinema, Edinburgh University Press, Edimburgo 2017. Sulla relazione tra cinema e architettura la letteratura critica è molto ampia; si segnalano P. CHERCHI USAI, F. KESSLER (a cura di), Cinema & Architecture, «Iris», n. 12, 1991; M. BERTOZZI (a cura di), Il cinema, l’architettura, la città, Librerie Dedalo, Roma 2001; V. TRIONE (a cura di), Il cinema degli architetti, Johan & Levi, Milano 2014; C. KEIM, B. SCHRÖDL (a cura di), Architektur im Film. Korrespondenzen zwischen Film, Architekturgeschichte und

Architekturtheorie, Transcript, Bielefeld 2015.

278 B. FARWELL, Films on Art in Education, p. 40. 279 S. FROSALI, Il cinema al servizio delle arti, p. 72. 280 J. VIDAL, Il film sull’arte in Francia, p. 124.

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luce, ombre, chiaroscuri e modulazioni può modificare sostanzialmente il senso plastico ed espressivo della scultura, più che nel caso di quadri o affreschi.

Certamente, come ricorda lo storico dell’arte tedesco Carl Lamb – che affrontò questi problemi concretamente nei suoi cortometraggi d’arte – la prerogativa dell’immagine in movimento rispetto all’immagine fotografica281 è che può fisicamente visualizzare i moti e le linee dinamiche nelle quali la statua si sviluppa: l’esempio portato da Lamb è quello della “serpentina” michelangiolesca, che la camera segue e riproduce per lo spettatore con continuità. La formula migliore per traslare il moto dinamico o la staticità ieratica delle sculture, a seconda dei casi, è però difficilmente definibile in astratto. L’espediente di girare attorno alla statua, per esempio, non è sempre utile:

«Nel caso della scultura il problema è ancora più complesso, ed è stato del resto sempre avvertito, tradotto nella raccomandazione che si giri intorno alla statua. In realtà una visione circolare non è sempre necessaria, né sufficiente, e per ogni opera si propongono soluzioni diverse e particolari […] per produrre una visione dinamica, appunto cinetica nel significato etimologico della parola282».

La minore presenza di film sulla scultura (e sull’architettura) deriva anche da considerazioni di carattere prettamente pratico: un film sulla pittura, che sia filmato sugli originali o su fotografie delle opere, si realizza velocemente, con un budget e una troupe contenuti. La quantità di attrezzature, professionisti, tempo che occorrono nel caso delle arti tridimensionali, oltre a far lievitare i costi produttivi, scoraggiano molti registi di documentari.

Ancor più che la scultura è l’architettura a presentare delle analogie concettuali tanto forti con il cinema da far intravvedere senza dubbi la rilevanza del contributo critico del film in questo campo. Architetto e cineasta condividono una medesima forma mentis: la loro opera è un rapporto tra un tutto e le parti, un percorso sequenziale, un insieme controllato di punti di vista successivi. «L’opera architettonica non è soltanto un volume plastico ma l’integrazione di due forme, l’una piena (esterno) e l’altra cava (interno), l’incontro e l’aggiustamento di due spazi la cui scoperta ed esplorazione costituiscono una sorta di scenario vissuto283.» Esplorazione che è sempre «una grande avventura, un tema drammatico284», dunque intimamente cinematografico. «La nostra rappresentazione dello spazio architettonico potrebbe arricchirsi infinitamente grazie alla dimostrazione cinematografica. E, all’inverso, la tecnica dei cineasti guadagnerebbe facilmente in flessibilità, in coerenza e dignità se fossero più coscienti dei principi dell’architettura285

È la caratteristica del movimento a entrare maggiormente in gioco in questo caso: percorrendo gli spazi, la camera può restituire la loro organizzazione e tridimensionalità, sviluppare quella promenade architecturale teorizzata da Le Corbusier e indispensabile per l’apprezzamento di qualunque complesso architettonico, tanto più che, dopo che «la visione fissa è stata travolta dall’invenzione dei fratelli Lumière, la nozione di spazio architettonico

281 La riflessione sull’uso corretto della fotografia nel documentare l’arte, nata già nel XIX secolo, era stata affrontata anche da Heinrich WÖLFFLIN nel noto articolo Wie man Skulpturen aufnehmen soll, 1896; trad. it.

Fotografare la scultura, a cura di B.CESTELLI GUIDI, Tre Lune, Mantova 2009. Cfr. capitolo I. 282 L.MAGAGNATO, Il film sull’arte e la critica d’arte, «Film. Rassegna internazionale di critica cinematografica», Atti del Secondo Congresso sul Cinema e le Arti Figurative, anno II, n. 5-6, p. 57.

283 A. CHASTEL, Le film, cet auxiliaire de l’architecture, in Film sur l’art. Architecture 1960, FIFA-Fréal & Cié, Parigi 1960, p. 7.

284 B. ZEVI, Architettura per il cinema e cinema per l’architettura, «Bianco e Nero. Rassegna mensile di studi cinematografici», anno XI, n. 8-9, agosto-settembre 1950, p. 60.

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concepito come massa omogenea in funzione di uno o più punti di vista privilegiati è sottomessa alla prova del movimento286». Proprio perché «il valore di un edificio sta nella sequenza dei suoi quadri prospettici [...] solo un mezzo dinamico, che ripercorra il cammino dell’osservatore, può dare il senso di questa sequenza287».

Sulle stesse motivazioni, Henri Lemaître arriva a ipotizzare la nascita di una cinéarchitecture: «il cinema è il solo capace di conferire all’architettura […] questa realtà visiva e di conferirgliela pienamente, grazie al carattere totale e dinamico dell’immagine cinematografica288». La superiorità dell’immagine filmica su quella fotografica, nel caso dell’architettura, è indiscutibile: «nemmeno cento fotografie prese dai più interessanti punti di vista potranno dare il senso della continuità dei punti di vista, della sequenza prospettica. In questo compito, nulla può sostituire il cinema289

Il movimento di camera può inoltre, in qualche misura, surrogare la visione stereoscopica necessaria all’apprezzamento architettonico:

«Un altro campo dove il film può raggiungere risultati impossibili da replicare con altri mezzi è la visualizzazione delle forme tridimensionali. La fotografia fissa, essendo monoculare, non trasmetterà mai un’impressione convincente dello spazio architettonico o del volume scultoreo. […] Ora, anche la macchina da presa è uno strumento monoculare ma test recenti hanno verificato ciò che da molto tempo è una comune esperienza: che un solo occhio può approssimarsi di molto alla percezione dello spazio della visione stereoscopica se l’osservatore – o l’oggetto – è in movimento. La macchina da presa, utilizzata con intelligenza, può produrre lo stesso effetto290».

Basil Wright si spinge a suggerire che la tecnologia per la visione cinematografica stereoscopica, sperimentata durante gli anni Cinquanta, debba essere incrementata e destinata anche ai documentari di architettura, ma la sua rimane una considerazione che, per ovvi motivi pragmatici ed economici, non trova alcun riscontro effettivo291.

A ciò si aggiunge la possibilità, particolarmente utile nel caso della didattica, di integrare nel film le immagini dal vero con gli strumenti grafici indispensabili alla comprensione di strutture architettoniche: mappe, alzati, assonometrie, planimetrie, prospettive, schemi ricostruttivi, plastici e modelli.

Ciò che il film non potrà mai riuscire a restituire, secondo Zevi, è il senso interno dello spazio dell’edificio, afferrabile soltanto percorrendo fisicamente la struttura, in presentia. L’architettura, forse più di qualunque altra arte figurativa, implica infatti un totale coinvolgimento fisico e la sua conoscenza non passa solo attraverso la visione, ma anche dalla propriocezione, dalla percezione generale del proprio corpo in proporzione e rapporto ad essa, dal senso dell’equilibrio e degli effetti di luce, dalla sensazione tattile dei materiali utilizzati. Come sempre, dunque, il film non potrà mai sostituire del tutto il contatto con l’originale.

«Ma il problema che qui esaminiamo non verte sulla sostituzione, in sé assurda, dell’opera d’arte, ma sulla sostituzione e sul diverso modo di esprimersi della critica storica. La trasposizione che noi facciamo di una concezione architettonica quando la caratterizziamo criticamente si avvale della letteratura e della fotografia. Il cinematografo

286 IBIDEM.

287 B. ZEVI, Architettura per il cinema e cinema per l’architettura, p. 60. 288 H. LEMAITRE, Beaux-Arts et Cinéma, pp. 57-58.

289 B. ZEVI, Architettura per il cinema e cinema per l’architettura, p. 60. 290H.W. JANSON, College Use of Films on Art, p. 39.

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può sostituire, o sintetizzare ambedue. È già un grande compito. Per dirla con la nomenclatura crociana, si tratta di impostare su larga scala, vicino alla poesia e alla letteratura cinematografica, una critica d’arte pensata ed espressa cinematograficamente292.»

Strettamente ricollegato a quello d’architettura è il film d’urbanistica, genere nel quale proprio in Italia, tra gli anni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta, vengono realizzati alcuni cortometraggi che raggiungono notorietà internazionale293. Basti ricordare, con Argan, che

«Per gli studi urbanistici poi (e l’urbanistica non è che la forma più attuale dell’architettura) il cinematografo è o dovrebbe essere un essenziale strumento di indagine; precisamente quell’indagine stratigrafica, per mezzo della quale ci rappresentiamo lo sviluppo di un nucleo urbano non soltanto nella successione o sovrapposizione degli stili architettonici, ma nelle condizioni di vita e di lavoro dei vari ceti sociali, nel ritmo della produzione e degli scambi, nella complessità dei fatti di cultura, delle consuetudini, delle relazioni, delle contraddizioni che costituiscono il tessuto vitale di un aggregato urbano. Quanta maggior chiarezza si potrebbe raggiungere, in questo campo, attraverso un sistematico “rilevamento cinematografico” delle nostre città; e un’attenta documentazione, non soltanto all’architettura aulica dei tempi e dei palazzi, ma di quella architettura “minore”, e così intensamente caratterizzata, che nelle sue forme riflette direttamente la vita e le tradizioni di civiltà dei più operosi ceti sociali294.»

Infine, una riflessione sistematica sull’apporto del film al campo dell’archeologia arriva soltanto molto tardi, con un catalogo edito dalla FIFA nel 1970 e dedicato ai documentari d’argomento storico, archeologico, etnografico. La prospettiva assunta nel saggio introduttivo da Jean Laude è quella di individuare quale sia la specificità del “film archeologico” e cosa lo differenzi dal generico film sull’arte dell’antichità; in altre parole, come il mezzo cinematografico possa contribuire al campo di ricerca specifico dell’archeologia. Laude individua due tipologie di documentari utili in questo senso: il “film d’insegnamento” e il “film di lavoro”.

Se la prima categoria sembra in realtà richiamare modelli e precisazioni già riscontrati in precedenza (a partire dalla suddivisione, piuttosto vaga, operata da Laude in film d’iniziazione didattica, film educativi, film di cultura generale), la seconda individua invece due sottogeneri prettamente afferenti alla sfera archeologica: il “film-documento” e il “film-analisi”. Con il primo, l’autore intende indicare i film realizzati durante gli scavi, che ne testimonino le attività e i ritrovamenti: «il problema dell’estetica del film qui non si pone. Quello che importa è la leggibilità dell’immagine, ma dell’immagine colta nel suo movimento, in un insieme, nella sua relazione all’insieme. […] Girato sui luoghi stessi degli scavi, il “film-documento” si trova così ad ottemperare a una doppia funzione: una funzione di controllo e di riferimento e una funzione

292 B. ZEVI, Architettura per il cinema e cinema per l’architettura, p. 63.

293 Ricordo soltanto i cortometraggi legati alle edizioni della Triennale di Milano, in particolar modo la trilogia formata da La città degli uomini, Una lezione di urbanistica e Cronache dell’urbanistica italiana realizzata per la X Triennale del 1954, sotto la supervisione di Ludovico Quaroni, Giancarlo De Carlo e Carlo Doglio, con la partecipazione dell’Istituto Nazionale di Urbanistica presieduto da Adriano Olivetti. Per i rapporti tra cinema e urbanistica rimando a L. CIACCI, Il cinema degli urbanisti, Marsilio, Venezia 2001. Riguardo al genere delle sinfonie urbane, fiorito in Europa nel periodo interbellico e strettamente legato al documentario architettonico e urbanistico, si vedano G.P. BRUNETTA, A. COSTA (a cura di), La città che sale. Cinema, avanguardie,

immaginario urbano, Manfrini, Rovereto 1990 e il recentissimo E.HILSCHER,S.JACOBS,A.KINIK (a cura di),

The City Symphony Phenomenon. Cinema, Art and Urban Modernity between the Wars, Routledge, Londra-New

York 2019.

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di allargamento, o di intensificazione dello sguardo295». Da una parte, esso è supporto alla memoria e alla documentazione del lavoro di scavo; dall’altra incamera e accumula immagini che potranno poi essere più comodamente esaminate in laboratorio, riportando all’attenzione aspetti passati inosservati al momento del ritrovamento dei reperti. Per questi motivi, l’elemento di questi film che deve orientare tutte le scelte pratiche – da quella dell’attrezzatura e delle pellicole fino alle posizioni di ripresa o alla durata di queste ultime – è la perfetta leggibilità dell’immagine, la “fedeltà” alla realtà catturata dall’obbiettivo. Il film-documento si avvicina, nelle intenzioni dell’autore, a una sorta di girato grezzo, il più possibile trasparente, creato sotto la guida di un operatore esperto che riesca a fissare in immagine il maggior numero di informazioni presenti sul sito di scavo.

Il “film di ricerca o di analisi”, invece, si avvicina maggiormente al film critico sulle arti figurative. «Si tratta qui molto meno di servirsi della camera come di un semplice mezzo per riprodurre la realtà, quanto di trattare in una certa maniera le immagini ottenute. E di trattarle, a titolo sperimentale, come elementi costitutivi che permettano di convalidare o di discutere un’ipotesi, oppure di provocarla o suscitarla, di fondare un discorso filmico critico.296» Entra dunque in gioco un’elaborazione profonda del materiale raccolto dal film-documento, guidata da un ragionamento critico. Questa seconda tipologia di film si apparenta strettamente al saggio scientifico ma il film non deve essere assolutamente concepito come un sostituto del libro; al contrario, la sua efficacia sarà reale solo se risponderà alle specificità del mezzo cinematografico.

«Il film può essere utilizzato non soltanto come un mezzo di riproduzione le cui funzioni essenziali saranno la memorizzazione e il controllo, le cui qualità principali saranno leggibilità e fedeltà, ma anche come una modalità specifica della ricerca e d’analisi […] dei materiali trattati, proprio per suscitare o costituire, per fondare o discutere delle ipotesi. Questo tipo di film si caratterizza per mettere all’opera un vero e proprio linguaggio critico, che è di natura differente dal linguaggio scritto, ma tuttavia efficace nel proprio campo297.»

È chiaro che tali film si rivolgono espressamente agli addetti ai lavori, e in questa accezione il film archeologico si avvicina maggiormente al film scientifico propriamente detto più che al documentario sulle arti, guidato invece dall’intento, specie nelle sue forme più divulgative o narrative, di portare la conoscenza dell’arte al più vasto pubblico possibile.

«Le due vittime»?

Tentando infine di modellizzare la struttura di un tipico intervento teorico sul film sull’arte tra fine anni Quaranta e inizio anni Sessanta, esso si articola in alcuni punti fissi: 1) un esame delle potenzialità di indagine, che rappresentano altrettanti possibili rischi di fraintendimento, della macchina da presa posta di fronte all’opera, in particolare per quanto concerne i movimenti di camera, la scelta dei dettagli, il montaggio, l’uso del colore, la presenza della musica; 2) un tentativo di classificazione del genere in sottocategorie che, variamente nominate, sono però riconducibili a tre macrogruppi (drammatizzazione, divulgazione e didattica, critica

295 J. LAUDE, Cinéma et archéologie, in Catalogue des films d’intérêt archéologique, ethnographique ou

historique, Unesco, Parigi 1970, p. 17.

296 IVI, p. 22 (corsivo mio). 297 IVI, p. 24.

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artistica per mezzo del film); 3) considerazioni sul ruolo del critico e del regista, sul rapporto tra i due, sui compiti di ognuno, talvolta sulla ricezione del pubblico.

Questi elementi possono essere intercalati a digressioni di natura estetica sugli scambi tra cinema e arti in generale, o con il commento a specifici documentari d’arte. Le molteplici possibilità cui il film sull’arte si presta e le forme variabili che può assumere ne dimostrano la flessibilità e la vivacità come genere cinematografico, ma ne rendono difficile la codifica a livello teorico. La quadratura del cerchio, insomma, non riesce mai perfettamente.

Il dibattito che abbiamo esaminato, infatti, non giunge all’obbiettivo di formulare una dottrina stabile e universalmente accettata. Se numerosi sono i punti di contatto tra la maggior parte dei commentatori (l’efficacia del film come mezzo divulgativo, l’importanza della collaborazione tra regista e critico), altrettanti sono quelli di distanza e di contrasto (l’uso dei movimenti di macchina e dei dettagli isolati, o la possibilità stessa di ammettere una critica cinematografica dell’arte).

Il dibattito, come si sarà facilmente rilevato, è dominato da storici e critici d’arte; gli esperti di cinema che si avventurano in questo campo sono meno numerosi. Le diversità di vedute tra questi due gruppi sono evidenti, e si esplicitano al massimo grado quando si tenti di definire cosa sia un “buon” film sull’arte: per i primi deve rispettare l’opera integralmente, ponendosi in prima istanza come strumento di conoscenza e di divulgazione; per i secondi, lo è solo se, rispondendo alle leggi dell’arte cinematografica, si distacca dal suo oggetto per divenire un’opera filmica autonomamente espressiva. Si tratta di un modo diametralmente opposto di intendere l’espressione “film sull’arte”. Per gli uomini del cinema esso è anzitutto un film; gli esponenti del mondo dell’arte accentuano, invece, il fatto che sia sull’arte. Per gli uni il film è il fine, per gli altri è solo il mezzo, e fine è l’arte rappresentata. I primi lo inquadrano quindi