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«È davvero spaventosa la quantità di riproduzioni che abbiamo.» (Vasilij V. Kandinskij) «Chi ha più fotografie, vince.» (Erwin Panofsky)104

Se finora si è preso in considerazione il luogo del cinema nella storia dell’arte, ribaltando la prospettiva ci si dovrà interrogare se e come la storia dell’arte rientri nel cinema.

È noto che, fin dagli esordi, il cinema ha guardato a modelli pittorici, esempi scultorei, apparati scenografici o celebri architetture per i propri scopi, riproponendoli, reinterpretandoli, risemantizzandoli: il cinema muto italiano, per fare solo un esempio, rappresenta un campo privilegiato dove verificare la simbiotica connessione tra la cultura artistica “alta” e la sua declinazione nel nuovo medium105. In generale, l’attingere all’enorme bacino iconografico della tradizione figurativa costituisce uno dei caratteri fondanti del cinema italiano, in un continuo seppur non sempre esplicitamente dichiarato legame con le arti plastiche106.

Il cinema (italiano, ma non solo) ha così agito da ricettore e mediatore delle arti nei confronti della cultura di massa; una funzione che, come già indicato107, il film sull’arte assolve in

102 F. DE BERNARDINIS, Arte cinematografica, p. 29. 103 IBIDEM.

104 Entrambi citati in W. GRASSKAMP, The Book on the Floor. André Malraux and the Imagery Museum, Getty Research Foundation, Los Angeles 2016 [ed. orig., André Malraux und das imaginäre Museum: Die Weltkunst

im Salon, C.H. Beck, Monaco di Baviera 2014], p. 100.

105 Cfr., come introduzione al tema, S. BERNARDI, L’inquadratura e il quadro. Presenza della pittura nel cinema

italiano, in P. BERTETTO, Storia del cinema italiano, vol. I, Uno sguardo d’insieme, Marsilio-Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma 2011, pp. 281-284. All’iconografia del muto italiano e ai suoi rapporti con le arti visive è stato dedicato recentemente un convegno all’Accademia di Francia di Roma, Verso un’estetica dello spettacolo

cinematografico. Il cinema muto italiano all’incrocio tra arti plastiche, sceniche e decorative 1896-1930

(Accademia di Francia Villa Medici, Roma, 15-16 giugno 2017) a cura di Jérôme Délaplanche e Céline Gailleurd.

106 IVI, p. 279.

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maniera lampante, ma che è implicitamente portata avanti anche da molti altri generi, in particolare lo storico, il melodramma, il biopic. Come scrive Paul Haesaerts, «la pittura si introduce in diverse maniere nei dominî del cinema. In effetti, la storia dell’arte è un lussuoso arsenale di suggestioni, di forme, di gesti dove i cineasti circolano senza sosta, s’interrogano, sognano. Innumerevoli pensieri vi nascono e vi si precisano108». E non si tratta solo – come precisa il critico e cineasta belga attraverso un rapido ma esemplare confronto tra la pittura di Pierre-Auguste Renoir (ancora un impressionista) e il cinema del figlio Jean – di contatti superficiali, citazioni estemporanee o fugaci richiami, bensì più spesso di profonde affinità di sguardo e di sensibilità all’immagine, pur coniugate secondo le esigenze di media differenti109. Il tema è stato d’altra parte ampiamente sviscerato fin dai primi decenni del XX secolo, dal momento che ben si prestava alla legittimazione culturale del nuovo medium, ponendolo sotto l’ala protettiva delle arti maggiori e più antiche. Negli anni Trenta, dopo che l’avvento del sonoro aveva scompaginato l’assetto del cinema e con esso le considerazioni estetiche fiorite nel periodo del muto, la necessità di una riconsiderazione globale portò a una nuova stagione di riflessioni anche sul tema della presenza delle arti nei film. È del 1940, per esempio, lo studio articolato e approfondito di queste reciproche relazioni condotto da Domenico Purificato (pittore e docente all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano) sulle pagine di «Cinema» per numerose puntate110. Prendendo in considerazione numerosi aspetti, dalla «basilare identità» tra film e dipinto alla questione del primo piano e del colore, Purificato compie una disamina che punta a rinvenire il pittorico nel cinema, ma anche il cinematografico nella pittura. Non che si possa dubitare della gerarchia tra di essi: per Purificato, anch’egli profondamente crociano, il cinema non può che essere un’arte imperfetta e subordinata alla pittura, dalla quale deriva tutte le forme e le caratteristiche che gli sono proprie: anche riguardo al primo piano, Purificato precisa come esso sia «un concetto ricavato soprattutto in base all’idea che di esso si ha in pittura111», eludendo il fatto che proprio il primo piano sia un elemento fortemente “autoctono” del linguaggio filmico, nato dall’evoluzione dei primi anni del medium112.

Non è che uno dei molti interventi del tempo che si susseguono sul tema, spronati anche dal graduale avvento della pellicola a colori che, inevitabilmente, provoca riflessioni su realismo e pittoricismo del film cromatico, e sul giusto equilibrio da mantenere tra queste due tendenze. Emblematico, in tal senso, il poderoso dibattito che si sviluppa attorno all’Enrico V di Lawrence Olivier113: il film viene unanimemente lodato e analizzato per l’uso del colore, che spinge le immagini verso il modello delle miniature tardogotiche coeve alla vicenda narrata (in

108 P. HAESAERTS, Art plastique et cinéma, Cinéma, numero monografico di «L’amour de l’art», p. 35.

109 Si pensi al caso dei pittori-cineasti o dei cineasti-pittori, da Giulio Aristide Sartorio a Michelangelo Antonioni, da Federico Fellini a David Lynch o Julian Schnabel (A. COSTA, Il cinema e le arti visive, p. 77 e segg.), prova di una profonda radice comune tra le due modalità espressive.

110 D. PURIFICATO, Pittura e cinema, «Cinema. Quindicinale di divulgazione cinematografica», anno V, vol. II, fascicoli 93, 94, 95, 96, 98, 99, 100, 103, 104, 105, 106, maggio-novembre 1940. L’intero contributo è riprodotto in versione anastatica in F. GALLUZZI (a cura di), Il cinema dei pittori. Le arti e il cinema italiano 1940-1980 [catalogo della mostra, Centro per l’arte Diego Martelli-Castello Pasquini, Castiglioncello, 14 luglio-4 novembre 2007], Skira, Milano 2007, pp. 198-219.

111 D. PURIFICATO, Pittura e cinema, «Cinema. Quindicinale di divulgazione cinematografica», anno V, vol. II, 10 ottobre 1940, p. 268.

112 Cfr. G. CARLUCCIO, Verso il primo piano. Attrazione e racconto nel cinema americano. Il caso

Griffith-Biograph, Clueb, Bologna 1999.

113 Cfr. F. PIEROTTI, La seduzione dello spettro. Storia e cultura del colore nel cinema, Le Mani, Recco 2012, pp. 192-199.

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particolare le celebri Très riches heures du Duc de Berry dei fratelli Limbourg) più che in direzione di un’accentuazione del grado di realismo.

Esaminare le influenze e le citazioni delle arti plastiche nei film, l’uso che il cinema fa dell’«arsenale dell’arte», tuttavia, non tocca (o tocca solo parzialmente) il nodo della relazione tra la disciplina della storia dell’arte e il cinema. Più che interrogarsi sulla presenza della storia dell’arte nel cinema, sembra più proficuo esaminare la storia dell’arte attraverso il cinema: considerare cioè, l’impatto dei cambiamenti apportati dal nuovo medium nell’osservazione, nell’investigazione, nella divulgazione del patrimonio artistico. Per parafrasare un’altra celeberrima affermazione dopo quella di Godard, questa volta ad opera di Walter Benjamin, più che domandarsi come la disciplina storico-artistica possa essersi inserita nel cinema, bisognerebbe domandarsi se e come il cinema abbia cambiato tale disciplina114.

Si tratta di un discorso estremamente ampio e che non può prescindere da quello, ancora maggiore, dell’influenza della fotografia sulla storia dell’arte115. La genesi concettuale e metodologica del film sull’arte parte però proprio da qui, dalla possibilità di riproduzione meccanica e fotochimica delle opere d’arte, in immagini che siano fisse o in movimento. Si richiameranno anche in questo caso soltanto alcuni dei nomi e delle opere fondamentali di questo panorama, con l’obbiettivo di delineare uno sfondo di pratiche e di teorie sul quale collocare la comparsa dei primi film sull’arte negli anni Trenta, e rimandando alle indicazioni bibliografiche in nota per ulteriori approfondimenti.

Le fotografie di opere d’arte sono ovviamente comuni fin dalla prima fase di diffusione del mezzo a metà XIX secolo, ma è nell’ultimo scorcio dell’Ottocento che la consapevolezza dell’influsso delle immagini fotografiche sulla conoscenza e sullo studio dell’arte inizia a farsi

114 «[…] già in precedenza, molto inutile acume era stato rivolto alla soluzione della questione se la fotografia

fosse un’arte – senza essersi posti la questione preliminare: se con l’invenzione della fotografia non si fosse trasformato il carattere complessivo dell’arte […]», W. BENJAMIN, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner

technischen Reproduzierbarkeit. È nota la complessa vicenda filologica di questo celebre saggio. Ne è

conservata una prima versione manoscritta, redatta probabilmente nell’autunno del 1935. A questa seguì una seconda versione dattiloscritta (la Zweite Fassung, redatta tra la fine del 1935 e il gennaio 1936), rinvenuta nel Max Horkheimer Archiv di Francoforte solo nel 1989: ampliata e approfondita rispetto al primo manoscritto, fu la base per la traduzione francese del saggio (L’Oeuvre d’art à l’époque de sa reproduction mécanisée), ad opera di Pierre Kosslowski con la collaborazione dello stesso Benjamin, apparsa sulla rivista «Zeitschrift für

Sozialforschung» nella primavera del 1936, con alcuni tagli e modifiche. Questa traduzione fu l’unica versione del saggio pubblicata durante la vita dell’autore, e ne provocò una prima, circoscritta ricezione. Una versione ampliata della zweite Fassung fu inviata nell’aprile del 1939 a Gretel Adorno negli Stati Uniti, ma è andata perduta. Una terza versione più corta (la dritte Fassung) redatta entro il 1939 fu invece pubblicata postuma nell’edizione degli scritti di Benjamin curata da Theodor e Gretel Adorno (1955). Ripubblicata separatamente nel 1963, su di essa si fondò a partire dagli anni Sessanta la grande fortuna del saggio, compresa la prima traduzione italiana, Enrico Filippini, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966. Nessuna di queste versioni deve tuttavia essere considerata definitiva: Benjamin continuò infatti ad accumulare appunti per L’opera d’arte fino alla morte, nel 1940. Dalla scoperta della Zweite Fassung nel 1989 è ampiamente accettato che questa versione rappresenti l’Urtext, il testo fondante che Benjamin avrebbe voluto vedere pubblicato. È a questa versione che si farà dunque riferimento, contenuta nell’edizione critica italiana a cura di F. DESIDERI edita per Donzelli (Roma 2012, pp. 45-91), che riunisce anche la versione francese e la dritte

Fassung. Si veda il saggio introduttivo I Modern Times di Benjamin di F. DESIDERI e la Nota al testo di M. BALDI per l’inquadramento filologico e filosofico del saggio. La citazione in oggetto è a p. 63, corsivo in originale.

115 Cfr. C. CARAFFA (a cura di), Fotografie als Instrument und Medium der Kunstgeschichte, Deutscher Kunstverlag, Berlino 2009; ID., (a cura di), Photo Archives and the Photographic Memory of Art History, Deutscher Kunstverlag, Berlino 2011; H. BUDDEUS, V. LAHODA, K. MAŠTEROVÁ (a cura di), Instant Presence.

Representing Art in Photography, Artefactum, Praga, 2017. Si veda anche, per un quadro più generale, E.

SPALLETTI, La documentazione figurativa dell’opera d’arte, la critica e l’editoria nell’epoca moderna

1750-1930, in Storia dell’arte italiana, parte I, vol. II, L’artista e il pubblico, a cura d G. PREVITALI, Einaudi, Torino 1979, pp. 415-482.

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sentire e a divenire oggetto di trattazione e riflessione. Se da un lato, specie in ambito tedesco, l’accoglienza della tecnologia fotografica a scopi documentari da parte degli storici dell’arte fu precoce ed entusiasta, dall’altro lato essi non tardarono, come ha evidenziato Horst Bredekamp, a rilevare «il conflitto che sta alla base della storia dell’arte, ossia il fatto che essa si fonda ampiamente sullo studio diretto dell’opera d’arte originale, ma che l’interroga anche attraverso le lenti di una conoscenza basata sull’uso della fotografia116».

Notoriamente, Heinrich Wölfflin pubblica già nel 1896 un articolo su come andrebbe fotografata la scultura (ripubblicato con alcune modifiche nel 1914)117, nel quale si scaglia contro l’idea diffusa che le statue possano essere fotografate indifferentemente da qualsiasi punto, mentre la maggior parte di esse presenta chiaramente un punto di vista principale, solitamente quello frontale, dal quale l’artista ha concepito che la sua opera venisse osservata: questo, perciò, dovrebbe essere l’unica posizione legittima dalla quale fotografare la scultura. «Non sarebbe dunque superfluo, una volta tanto, accordarsi, all’interno di una cerchia più allargata sul modo con cui si devono fotografare le opere plastiche, e allo stesso tempo educare nuovamente l’osservatore a cercare la veduta che corrisponda alla concezione dell’artista. Non è corretto che un monumento plastico si possa guardare da tutti i lati118

Il testo di Wölfflin, nel rilevare la necessità di un accordo comune degli esperti d’arte sulle modalità corrette per documentare fotograficamente le opere, costituisce un primo chiaro momento di presa di coscienza dell’importanza e dell’influenza che le foto hanno ormai assunto per la disciplina. Al contempo, costituisce il punto d’avvio per il dibattito sulla fotografia di scultura: la tensione tra artefatti tridimensionali e riproduzione bidimensionale ne fa un campo d’indagine carico di molteplici risvolti, ancora oggi vivace119. Non va inoltre dimenticato che

116 H. BREDEKAMP, A Neglected Tradition? Art History as “Bildwisseschaft”, «Critical Inquiry», XXIX, n. 3, Spring 2003, trad. it., Una tradiziona trascurata? La storia dell’arte come Bildwissenschaft, in A. PINOTTI, A. SOMAINI (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina, Milano 2009, pp. 140-141. Nel suo saggio Bredekamp discute l’utilizzo della fotografia e di altri media nella riproduzione dell’opera d’arte per dimostrare come l’odierna contrapposizione tra storia dell’arte e visual studies sia improduttiva e dannosa per entrambi i fronti e come, in Germania e in Austria tra le due guerre, la storia dell’arte già si era definita come Bildwissenschaft, “scienza dell’immagine”, ampliando il suo raggio d’azione a tutte le immagini prodotte dalla società, comprese quelle mediatiche.

117 H. WÖLFFLIN, Wie man Skulpturen aufnehmen soll, «Zeitschrift für bildende Kunst», VII, 1896, pp. 224-228 e VIII, 1897, pp. 294-297. Il saggio fu ripubblicato sulla stessa rivista con il titolo Wie man Skulpturen

aufnehmen soll (Probleme der italienischen Renaissance), XXVI, 1914. La versione del 1896 è tradotta in

italiano in H. WÖLFFLIN, Fotografare la scultura, a cura di B. CESTELLI GUIDI, Tre Lune, Mantova 2008. 118 IVI, p. 12.

119 «In quanto medium elusivo e spaziale, la scultura si oppone alla fotografia, che fissa il tempo in un istante e comprime lo spazio in due dimensioni. Ma il medium della scultura viene anche cambiato dall’avanzamento tecnologico della fotografia. In una fotografia, la materialità e la scala di una scultura vengono resi portabili e flessibili – tanto di guadagnato per classificare, comparare e studiare l’oggetto da lontano. La scultura è pertanto trasformata in un’immagine illusoria (imaginative picture), una visione animata della propria forma, superficie o posizione.» S. HAMILL, M.R. LUKE, Reproductive Vision. Photography as a History of Sculpture, in ID. (a cura di), Photography and Sculpture. The Art Object in Reproduction, Getty Research Institute, Los Angeles 2017, p. 1. Si vedano, oltre alle opere citate nelle altre note di questo capitolo, H. PINET, R.M. MASON (a cura di),

Pygamlion photographe. La sculpture devant la caméra 1844-1936, Tricorne, Ginevra 1985; E. PARRY JENIS,

The Kiss of Apollo. Photography and Sculpture, 1845 to the Present, Frenkel Gallery, San Francisco 1991; M.

FRIZOT, D. PAÏNI (a cura di), Sculpter-Photographier, Photographie-Sculpture. Actes du colloque organisé au

Musée du Louvre par le Service Culturel, Marval, Parigi 1993; E. BILLETER, C. BROCKHAUS (a cura di), Skulptur

im Licht der Fotographie: von Bayard bis Mappelthorpe [catalogo della mostra, Duisburg-Friburgo, 6 dicembre

1997-1 giugno 1998] Benteli, Berna 1997; G.A. JOHNSON (a cura di), Sculpture and Photography. Envisioning

the Third Dimension, Cambridge University Press, Cambridge 1998; R. MARCOCI (a cura di), The Original

Copy: Photography of Sculpture, 1839 to today [catalogo della mostra, Museum of Modern Art, New York, 1

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Wölfflin era noto per l’utilizzo di diapositive luminose durante le sue lezioni, giustapposte nella proiezione grazie a un doppio binario. Non è scorretto ipotizzare che l’attitudine comparatistica tra opere di stili ed epoche diverse tipica dello studioso monacense, secondo coppie concettuali oppositive, trovi riscontro in questa specifica pratica d’insegnamento e, riprendendo l’espressione di Wölfflin stesso, di «educazione dell’osservatore»120. Allo stesso modo non va sottovalutato il ruolo che le riproduzioni fotografiche e il loro uso, sempre più diffuso col passare degli anni, hanno avuto per l’ampia fortuna delle teorie formaliste e purovisibiliste nel primo Novecento.

La traduzione delle opere d’arte in fotografia è uno dei fenomeni principali– tra i più carichi di conseguenze – della «straordinaria azione di cambiamento della cultura – da cultura scritta a cultura visiva – avvenuta a cavallo dei due secoli trascorsi121». La possibilità di riproduzione meccanica delle opere d’arte presenta indubbi vantaggi: la loro immagine diviene disponibile, replicabile, modificabile (grazie a tagli mirati, ingrandimenti sui particolari, variazioni nell’illuminazione, nell’esposizione, nello sviluppo chimico della pellicola); le fotografie sono agevolmente accumulabili e collezionabili, archiviabili in vasti repertori, organizzabili di volta in volta in sequenze e assemblaggi a seconda degli scopi; l’obbiettivo meccanico può mettere in risalto qualità non chiaramente visualizzabili o apprezzabili a occhio nudo, e le opere d’arte si dimostrano estremamente “fotogeniche”; la fotografia può far circolare liberamente l’immagine dell’opera e farla giungere facilmente a un pubblico infinitamente maggiore di quello che potrebbe potenzialmente vederla dal vivo, nel museo o nel sito dove è conservata. Tutte considerazioni che, con minime e ovvie variazioni, varranno anche riguardo al film sull’arte. Ma la riproduzione presenta anche limitazioni e difetti. Intenzionalmente si è finora fatto attenzione a specificare che la fotografia rende disponibile, modificabile, combinabile l’immagine dell’opera, non l’opera in sé: considerazione banale, ma spesso sottovalutata. La storia dell’arte, con la fotografia, passa sempre più da storia di oggetti materiali a storia delle immagini fotografiche di questi oggetti: una storia dell’«arte iconizzata», ossia prevalentemente fruita e studiata nella sua forma fotografica122. La traduzione dell’opera in fotografia implica, come tutte le traduzioni, un passaggio di status e di linguaggio, che ne modifica profondamente, o che addirittura ne elimina, alcune caratteristiche, come è massimamente evidente nel caso della riproduzione scultorea: la materialità, la scala dimensionale, il colore, la relazione con l’ambiente circostante all’opera123. Se già la musealizzazione implica giocoforza una decontestualizzazione dell’opera, la fotografia ne sottende una ancora più radicale: ciò non

scultura, V. ADRIAENSENS, L. COLPAERT, S. FELLEMAN, S. JACOBS, Screening Statues. Sculpture and Cinema, Edinburgh University Press, Edimburgo 2017.

120 Sull’uso della fotografia per la storia dell’arte e sul dibattito a tal riguardo in Germania tra Otto e Novecento, si veda M.G. MESSINA, Scultura e fotografia, in ID. (a cura di), Scultura e fotografia. Questioni di luce [catalogo della mostra, Firenze 2001], Fratelli Alinari, Firenze 2001, pp. 15-16; R.S. NELSON, The Slide Lecture, or the

Work of Art “History” in the Age of Mechanical Reproduction, «Critical Inquiry», Vol. XXVI, n. 3, Spring

2000, pp. 414-434.

121 B. CESTELLI GUIDI, Il fotografo al museo, in H. WÖLFFLIN, Fotografare la scultura, p. 44.

122 Derivo quest’espressione da C. ZAIRA-LASKARIS, L’esperienza per immagini: condizionamento e possibilità

dello “sguardo fotografico” nella percezione dell’arte, in F. DESIDERI, M. MAZZOCUT-MIS (a cura dI),

Aesthetics of Photography, «Aisthesis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’estetico», vol. XI, n. 2, 2018, p. 159.

123 B.E. SAVEDOFF, Looking at Art through Photographs, «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», vol. LI, n. 3, Summer 1993, pp 455-462. Sulle implicazioni semiotiche ed estetiche della fotografia di pittura e scultura si veda anche F. POLACCI, Photographing Sculpture: Aesthetic and Semiotic Issues; sull’oggettività e

l’indessicalità della pittura in confronto con la fotografia, B. ROUGÉ, Léal Souvenir? La photographie, la

peinture et le serment de l’image fidèle: entrambi i contributi si trovano in DESIDERI, F., MAZZOCUT-MIS,M.(a cura di),Aesthetics of Photography, «Aisthesis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’estetico», vol. XI, n. 2, 2018.

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implica affatto che non sia uno strumento prezioso e indispensabile di documentazione e per lo studio dell’arte, ma che tutte queste “tare” devono essere tenute presenti nel relazionarsi con la fotografia di opere artistiche. È l’idea che sottotraccia percorre un intervento di Erwin Panosky sul tema delle riproduzioni d’arte, non solo fotografiche.

Per Panofsky, la riproduzione di un’opera (pratica ben più antica della fotografia e ampiamente realizzata nei secoli attraverso stampe, incisioni, disegni, calchi in gesso124) non deve mirare a sostituirsi all’originale, ma semplicemente qualificarsi come una buona riproduzione, e sarà tanto migliore quanto minore sarà il grado di intervento umano, con il suo inevitabile bagaglio di soggettività, implicato nel processo riproduttivo125. Un alto grado di meccanicità della riproduzione consente infatti di stabilire con sicurezza la «distanza» che la separa dall’originale, e dunque permette all’osservatore di valutare correttamente le caratteristiche della prima rispetto al secondo; l’intervento di un individuo rende invece la situazione più instabile, poiché non è facile stabilire se certi tratti della riproduzione dipendano dalle impostazioni fisiche o chimiche del processo riproduttivo o piuttosto dalla sensibilità artistica dell’esecutore. Nel caso della fotografia, per esempio, l’impostazione di determinati parametri (tempo di esposizione, fuoco dell’obbiettivo, tipo di pellicola usato, apertura del diaframma, tempi di sviluppo) sono certamente dipendenti da scelte del fotografo, ma rimangono comunque “misurabili”, “calcolabili” e rientrano nella sfera meccanica del processo, senza inficiarne la validità; altre scelte, come quella della posizione, dell’altezza e dell’angolazione da cui scattare, o il ritocco manuale, non chiaramente quantificabili, sovrappongono alla riproduzione meccanica dell’oggetto un sostrato soggettivo indipendente