La rivelazione del film sull’arte avvenne nell’immediato dopoguerra, in Francia e Italia, grazie alla riscoperta delle opere di due autori: il belga André Cauvin con i suoi film L’Agneau mystique e Memling, peintre de la Vierge (risalenti al 1938-39) e l’italiano Luciano Emmer, in collaborazione con Enrico Gras, autore di diversi film nei primi anni Quaranta. Furono questi ultimi a colpire particolarmente la critica: puntando la camera su dettagli isolati, attraverso movimenti di macchina e un montaggio scrupolosamente strutturati, Emmer crea legami e dinamiche tra personaggi, oggetti, creature rappresentate nei dipinti intessendo una vera e propria narrazione, facendo emergere il dramma bloccato in forma statica nella pittura, cui la camera restituisce dinamismo e temporalità. Questa modalità di dinamizzare e narrativizzare l’arte si sviluppa ampiamente nei vent’anni successivi, producendo l’ampia categoria dei cosiddetti “film creativi”: film che vedono l’opera d’arte come punto di avvio per una creazione filmica personale, puramente cinematografica, sfruttando il bagaglio visivo offerto dal dipinto o dalla scultura. In questa categoria rientrano talvolta anche le biografie degli artisti, spesso di matrice psicologica, compiute attraverso le loro opere (i cui esempi più celebri sono i cortometraggi di Alain Resnais Van Gogh e Gauguin151) o i film “documento”152, ossia film che utilizzano le opere per illustrare il gusto di un’epoca o un fatto storico, dunque considerate
149 Sui festival di Venezia e Bergamo, si veda il capitolo VI. 150 R. DURGNAT, The Cinema as Art Gallery, p. 81.
151 Riguardo ai film di Resnais, si veda P. MICHAUT, Per una classificazione dei film sull’arte, p. 32 e segg. 152 Secondo la definizione datane da J. VIDAL, Il film sull’arte in Francia, p. 125.
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nella loro veste di documento visivo di un preciso periodo storico più che di fatto estetico o espressivo.
Il tratto unanimemente riconosciuto a questi film è di riuscire attraverso l’opera a rievocare e riattualizzare qualcosa che è altro da lei: una vicenda narrativa, una biografia, un fatto realmente accaduto. Secondo la bella definizione di Bolen153, ripresa poi da Kracauer154, il regista compie un’“atomizzazione” dell’opera d’arte: la scompone cioè in elementi discreti e significativi (primi piani, dettagli, singole figure isolate dalla composizione generale) rendendola materiale visivo malleabile e variamente ricomponibile, adattabile ai più diversi intenti, talvolta anche lontani dal messaggio o dall’intento originario. La definizione qui proposta di “cinedrammatizzazione” intende sussumere i due aspetti imprescindibili di questa sottocategoria: da un lato l’attenzione specifica rivolta al medium filmico, sfruttato in ogni sua possibilità linguistica per la creazione di un’opera filmica artisticamente valida; dall’altro, l’azione di drammatizzazione dell’opera o delle opere d’arte, non analizzate secondo intenti storico-critici, bensì con il fine di farne emergere «il dramma umano155» e così di coinvolgere lo spettatore nella vicenda raccontata, fino al limite (non in Emmer, ma riscontrabile nel caso di altri cineasti) di usare dettagli di opere di autori, aree geografiche ed epoche diverse in maniera interscambiabile per articolare una parabola narrativa, sia essa la passione di Cristo, la psiche del pittore, i moti del 1848.
L’aspetto di “creatività” in questa tipologia di film sull’arte viene rimarcato, specie nei primi anni, con la frequente apposizione di etichette come “sperimentale” o “d’avanguardia”: è lo stesso Emmer, in uno dei suoi primi scritti, nel 1946, a indicare i propri film come «una nouvelle avant-garde», da porre in continuità con gli esperimenti degli anni Venti e Trenta. Lo stretto connubio tra avanguardia, sperimentalismo e primi documentari d’arte, come si è già fatto presente156, era ampiamente percepito negli anni Quaranta: per esempio, nell’uso del montaggio di Emmer o Cauvin si riconosceva il contributo delle riflessioni sovietiche; più in generale, le sperimentazioni avanguardiste del periodo interbellico, dal cinema astratto al dada, erano considerate in qualche modo antesignane del film sull’arte, poiché per prime avevano fatto entrare la visione cinematografica in ambito artistico. Nel concepire il documentario d’arte come strettamente legato al film d’avanguardia se ne rimarca la forte impronta autoriale e il carattere di opera d’arte cinematografica autonoma più che di discreto mezzo informativo, didattico o finanche analiticamente critico. Negli anni Quaranta, la relativa “novità” del film sull’arte nel panorama cinematografico, nel quale è ancora in fase di progressiva emersione, e l’attenzione ad esso rivolta principalmente dai cineasti e da critici cinematografici, spinge dunque verso questa considerazione avanguardista del genere; con il progressivo standardizzarsi delle formule e l’ingresso in campo degli storici dell’arte, che prediligono la prospettiva del cinema come strumento didattico, la dicotomia tra film sull’arte come opera creativa da una parte e come documento oggettivo e “trasparente” dall’altra parte si accentuerà e verrà costantemente rimarcata. Nella seconda metà degli anni Quaranta, Emmer può ancora affermare, raccogliendo un sostanziale consenso, che «il film sul paradiso terrestre di Hieronymus Bosch non è e non deve essere la traduzione cinematografica di un’opera pittorica. Sarebbe stata un’esperienza assolutamente arbitraria e smisuratamente ambiziosa violentare
153 F. BOLEN, Films and the Visual Arts, p. 6. 154 S. KRACAUER, Teoria del film, p. 302.
155 L. EMMER, Pour une nouvelle avant-garde, «Cahiers de Traits», no 10, 1945, poi in P. BÄCHLIN (a cura di),
Cinéma d’aujourd’hui. Congrés international du Cinéma à Bâle, Ed. Trois Collines, Parigi-Ginevra, p. 130.
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una realtà artistica completa in sé157». Alla base della concezione emmeriana sembra quindi esserci un’intraducibilità dell’opera nel linguaggio cinematografico: tentare di realizzare un film con le figure immobili della pittura equivale a risolvere un teorema matematico per assurdo, dovendo coniugare le esigenze e i limiti espressivi di due media autonomi.
Chiaramente questo tipo di film sull’arte, opere filmiche in senso pieno ma che piegano dipinti e sculture ai propri fini narrativo-drammatici, suscita entusiasmi soprattutto tra gli uomini del cinema (Bazin indica nei film di Emmer e Gras la «prima rivoluzione del film sull’arte», portata poi a compimento dai cortometraggi di Resnais158), ma generalmente perplessità, se non accesi attacchi, da parte di critici o storici dell’arte. Per Lauro Venturi esiste un’inevitabile inconciliabilità tra la drammatizzazione della pittura e il rispetto dell’opera d’arte: «è impossibile, ad ogni modo, rispettare la composizione pittorica e la determinazione spaziale dal momento che tutti gli elementi devono essere visti sullo schermo in una sequenza narrativa159». Ritorna così il conflitto tra simultaneità della visione pittorica e sequenzialità della visione cinematografica che, in questi film, si fa ancora più stridente.
«Da quando Luciano Emmer ne ha rinnovato la formula, il film sull’arte si avvia […] verso un destino che è al di fuori del suo oggetto. La scoperta magistralmente sfruttata da Emmer, scoperta che consiste nel potere quasi magico che ha la macchina da presa di “far recitare” le figure di un quadro, di strapparle alla loro esistenza plastica per farle partecipare a un dramma vero e proprio, è stata per il cinema una conquista di grande portata; […] ma ha allontanato il film sull’arte dalla sua primitiva missione culturale160.»
C’è dunque una netta scissione tra i sostenitori di una simile operazione («È un adattamento, una variazione su tema, come ne possono fare i compositori o i coreografi161») e i detrattori di questa modalità di presentazione della pittura («Non si può mettere Giotto a servizio del cinema, ma unicamente il cinema a servizio di Giotto162»).
Contro questa modalità di film sull’arte si esprime in particolare Umberto Barbaro su «Bianco e Nero», sotto la guida del magistero longhiano:
«Servirsi del film per raccontare il soggetto di un quadro o di un affresco o di una serie di quadri o di affreschi, anche se sembra un assunto di modesta umiltà, non sembra legittimo. Perché, così facendo, non si avvicina, ma si allontana lo spettatore dall’opera e dalla sua comprensione; si nascondono dietro la favoletta e la moraletta esterne, il più delle volte non scelte dagli artisti ma commissionate loro dall’esterno, i valori concreti e specifici delle opere, il loro reale e concreto significato profondo e la forma che lo esprime. Un
157 Ivi, p. 128.
158 A. BAZIN, Un film bergsoniano: «Le Mystère Picasso», p. 191.
159 L. VENTURI, Films on Art: An Attempt at Classification, p. 389. Nel caso di La leggenda di Sant’Orsola, per il quale Venturi lavorò insieme ad Emmer come operatore, l’autore spiega come la sequenza dell’apparizione in sogno dell’angelo alla santa sia risolta nel film creando un momento di suspense cinematografica, proprio grazie alla consecutiva apparizione del primo piano dell’angelo e poi della giovane martire; un elemento di suspense «interamente cinematografico e antipittorico. Se avessimo mostrato il totale del dipinto e poi ci fossimo mossi ai primi piani (come molti professionisti del mondo dei musei ci hanno criticato per non aver fatto) l’intera relazione cinematografica sarebbe stata distrutta» (IBIDEM).
160 J. VIDAL, Il film sull’arte in Francia, p. 120.
161 A. MICHEL, Comment faut-il présenter un œuvre d’art au cinéma?, La caméra et le pinceau…, in P. BÄCHLIN
(a cura di),Cinéma d’aujourd’hui, p. 135
162 W. SCHMALENBACH, Comment faut-il présenter un œuvre d’art au cinéma?, Le pinceau et la caméra…, in P. BÄCHLIN (a cura di),Cinéma d’aujourd’hui, p. 136.
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significato che molto spesso, non solo si distanzia, ma addirittura contraddice quello richiesto dai committenti e tradizionalmente espresso dalla favoletta commissionata163».
Prendere «il testo come pretesto» (secondo un approccio “parassitario” che, seppur piacevole per un pubblico generico, non può che essere deplorato dagli esperti d’arte164), realizzare film in cui «l’opera d’arte non è più nemmeno considerata per il suo esterno contenuto, raccontino o moraletta, ma come precedente, come punto di ispirazione per una nuova opera, personale, originale, indipendente165», è per Barbaro inammissibile. Sulla stessa linea si collocano altre voci, alcune esplicitamente polemiche come quella di Umbro Apollonio166, altre solo implicitamente, come nel caso delle personalità intervistate nell’inchiesta di «Cinema», concordi nel ritenere basilare il «rispetto dell’opera», con tutte le implicazioni sottese a questa espressione, in ogni trasposizione filmica.
Ma non mancano certamente opinioni, anche autorevoli, a favore. Sullo stesso numero di «Bianco e Nero» su cui scrive Barbaro, Argan argomenta riguardo al film I fratelli miracolosi di Emmer:
«Il regista ha inteso che la narrazione, bloccandosi nello spazio invece di srotolarsi nel tempo, si sviluppa qui come una proiezione dal fondo al primo piano, una riduzione della profondità alla superficie: cioè ha appurato che la poetica storia dei martiri fratelli si è concretata nell’Angelico in termini di spazio e che la prospettiva aveva il compito di fissare una successione temporale in una assoluta unità spaziale. Egli non ha perciò individuato il processo cronistico del racconto, ma il processo formativo o costitutivo della rappresentazione, la genesi della forma: cioè, malgrado l’intenzione narrativa è giunto, quasi inconsapevolmente, a un autentico risultato critico167».
Jean Mitry rimarca il possibile dissidio tra rispetto della pittura e libertà creativa del film, il quale se da un lato non fa altro che esplicitare il contenuto narrativo della pittura, dall’altro vi riesce solo distruggendone la forma, dunque con una perdita inaccettabile per chi punti a realizzare un film scientifico sull’arte.
«Il cinema, qui, non è per niente a servizio della pittura, e gli autori, al contrario, si
servono della pittura per raccontare una storia. Senza dubbio non le fanno mai dire quello
che non avrebbe voluto: non desiderano che penetrarne la vita interiore; ma non giungono
al contenuto se non distruggendone la forma. È un’interpretazione cinematografica fatta a
partire da un’interpretazione pittorica. Detto altrimenti, non si tratta per nulla di film
sull’arte, ma di film fatti con un’opera d’arte168.»
Certamente, nelle mani di autori validi come Emmer o Resnais, il cinedramma sulla pittura può giungere a risultati che, pur non immuni da critiche, presentano dei meriti intrinseci, fossero anche solo di natura cinematografica. Diverso il discorso per la pletora di registi che, specie negli anni Sessanta, realizza film narrativi sfruttando pitture, disegni e sculture, non apportando
163 U. BARBARO, Critica e arbitrio nel documentario sulle arti figurative, «Bianco e Nero. Rassegna mensile di studi cinematografici», anno XI, n. 8-9, agosto-settembre 1950, p. 48.
164 B. FARWELL, Films on Art in Education, p. 40.
165 U. BARBARO, Critica e arbitrio nel documentario sulle arti figurative, p. 48.
166 «Soltanto non si tratta di un film che punti su argomenti storici o critici o documentari: l’opera d’arte in sé non è che pretesto ad un racconto e può pervenire, come ha osservato Mario Verdone, al balletto.» U. APOLLONIO, Il film sull’arte, in Il cinema a Venezia dopo la guerra, a cura di F. PAULON, Marsilio, Venezia 1956, p. 86.
167 G.C. ARGAN, Lettura cinematografica delle opere d’arte, p. 43. 168 J. MITRY, Histoire du cinéma, p. 634 (corsivo in originale).
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nulla né al campo della divulgazione dell’arte, né a quello del cinema documentario. Ancora più comprensibile diviene allora la dichiarazione di Cesare Molinari, in apertura al repertorio edito dall’Istituto Internazionale del Film sull’Arte di Firenze nel 1963:
«È evidente che dal punto di vista del film sull’arte, è assolutamente impossibile accettare film composti a partire da opere non soltanto diverse ma addirittura eterogenee […], o che non esitano a ritoccare, in maniera visibilissima, i fondi e le figure stesse, per accentuare o isolare quel carattere della fisionomia, o quel gesto drammatico, o per ottenere effetti di suggestione luminosa169».