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La stagione aurea del film sull’arte si inserisce, in Italia come in tutta Europa, all’interno dell’arco temporale di sperimentazione e poi di larga diffusione del film a colori, tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, accompagnato da un ampio dibattito a riguardo99. Anche il film sull’arte partecipa di questo clima, testando su un oggetto così delicato dal punto di vista della resa cromatica le possibilità e le implicazioni dell’immagine in movimento a colori.

Possiamo prendere come punto di avvio la posizione di Roberto Longhi, che nel suo editoriale su «Paragone» del 1950 si schiera espressamente per la realizzazione di documentari d’arte a colori:

95 Nella vasta bibliografia sui due autori, segnalo soltanto l’introduzione di D. ANDREW in André Bazin’s new

media, California University Press, Oakland 2014; M.BERTONCINI, Teorie del realismo in André Bazin, LED, Milano 2009; per Kracauer, l’edizione critica italiana a cura di L. QUARESIMA di Da Caligari a Hitler. Una

storia psicologica del cinema tedesco, Lindau, Torino 2001 (edizione originale: From Caligari to Hitler: A Psychological History of the German Film, Princeton University Press, Princeton New Jersey, 1947).

96 F. CASETTI, Teorie del cinema 1945-1990, Bompiani, Milano 1993, p. 42. 97 A. BAZIN, Peinture et cinéma, p. 130.

98 IBIDEM.

99 Al tema del colore è dedicato il numero speciale Il colore nel cinema di «Bianco e Nero. Rassegna mensile di studi cinematografici», anno XV, nn. 2-3-4, febbraio-marzo-aprile 1954. La letteratura scientifica recente a riguardo è amplissima; rimando ad alcuni contributi che inquadrano la questione in maniera generale, con particolare riferimento al contesto italiano: M. DALL’ASTA, G. PESCATORE (a cura di), Il colore nel cinema, numero speciale di «Fotogenia. Storie e teorie del cinema», n. 1, 1994; J. AUMONT (a cura di), La couleur en

cinéma, Mazzotta-Cinémathèque Française, Milano-Parigi 1995; S. BERNARDI (a cura di), Svolte tecnologiche

nel cinema italiano. Sonoro e colore, una felice relazione tra tecnica ed estetica, Carocci, Roma 2006; A. DALLE

VACCHE, B. PRICE (a cura di), Color. The Film Reader, Routledge, Londra-New York 2006; L. VENZI, Il colore

e la composizione filmica, ETS, Pisa 2006; W. EVERETT, Questions of Colour in Cinema. From Paintbrush to

Pixel, Lang, Oxford 2007; R. COSTA DE BEAUREGARD (a cura di), Cinéma et couleur, Michel Houdiard, Parigi 2009; F. PIEROTTI, La seduzione dello spettro. Storia e cultura del colore nel cinema, Le Mani, Recco-Genova 2012; ID., Un’archeologia del colore nel cinema italiano. Dal Technicolor ad Antonioni, ETS, Pisa 2016.

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«Gran parte delle opere artistiche vivono anche in essenza nei loro colori, dai quali perciò non sarà lecito astrarre. […] Dico subito che le obiezioni al colore nel nostro campo speciale reggono anche meno che per il film dal vero, per la forte ragione che il mondo della pittura, per sua indole, è già più selezionato che non il mondo esterno con la sua cruda confusione stereoscopica. […] E perché si può star sicuri che, coi rapidi perfezionamenti della nuova tecnica, fra qualche anno sarà possibile stendere della nostra arte un racconto colorato di bellezza incredibile e di universale accessibilità, mi chiedo se valga la pena si sperperare ora il nostro poco denaro in “bianco e nero” per poi vedersi, a breve scadenza, obbligati a rifar tutto daccapo coi colori propri100».

Le obiezioni degli avversari al colore sono rovesciate facendo presente che, come ci si è abituati a studiare ed esaminare l’arte in bianco e nero, tanto più facilmente ci si (ri)abituerà a studiare su riproduzioni – statiche o in movimento – a colori, ancora più vicine all’aspetto e alla percezione reali dell’opera. Lo stato dovrebbe anzi adoperarsi, conclude Longhi, nella realizzazione di un catalogo completo del patrimonio culturale, in film e fotografia, sia in bianco e nero che a colori.

Non tutti però sono d’accordo sulla convenienza del colore nel film sull’arte, specie nei primi anni del dibattito. Il problema maggiore è ovviamente quello della fedeltà cromatica nella resa pellicolare, che secondo diversi autori, ancora all’inizio degli anni Cinquanta, non è sufficiente per giustificare una ripresa a colori. «Sprovvisto di quel chiaroscuro che rappresenta il lato metafisico della pittura, come di ogni possibilità di modulazioni e rapporti cromatici, che attraverso la varietà dei toni ne costituiscano la strumentazione, occorre riconoscere che il colore del cinema non è ancora colore101.» Roberto Pane, nell’inchiesta di «Cinema», si mostra dubbioso sulla possibilità di utilizzare sempre il colore, senza preventive valutazioni critiche: se nel caso di opere di pittori contemporanei, dalle cromie nette e forti, è certamente l’opzione migliore, più inopportuno appare di fronte ad artisti come Rembrandt o Tiziano, non riuscendo la pellicola a colori a rendere giustizia delle sottili variazioni tonali e dei delicati trapassi chiaroscurali quanto un ottimo bianco e nero102.

Il progresso delle tecnologie e dei tipi di pellicola, sempre più sensibili e recettive di toni e sfumature, fa velocemente migliorare la situazione nel corso del decennio, e il colore si impone definitivamente e in maniera abbastanza naturale come standard nel film sull’arte all’inizio degli anni Sessanta (come d’altra parte accade per il film tout court). Ne è prova la relativamente scarsa presenza dell’argomento in saggi ed articoli, e che tende a scemare sempre più nel corso degli anni: al colore si accenna di sfuggita, per lo più con un semplice richiamo alla necessità di una documentazione a colori il più fedele possibile all’aspetto cromatico originale. L’utilizzo del colore viene rimarcato solo in caso di film particolarmente riusciti dal punto di vista coloristico, di film dedicati a opere che hanno nel colore un aspetto imprescindibile della loro identità (per esempio le tele impressioniste) oppure di fronte ad utilizzi inventivi del colore, come in Le Mystère Picasso103.

100 R. LONGHI, Editoriale. Documentari artistici, pp. 4-5. 101 R. PAOLELLA, Arti plastiche e documentario d’arte, p. 101.

102 M.GANDIN,M.MAZZOCCHI,Cosa pensano del cinema (3), p. 165.

103 André Bazin sottolinea nella sua analisi del film la scelta del doppio registro cromatico: bianco e nero per le riprese di Picasso al lavoro, a colori per le immagini delle opere. In questo modo Henri-George Clouzot crea «il primo film a colori al secondo grado»: per risolvere il problema di come distinguere il mondo della pittura (che ha nel colore un suo elemento costitutivo) da quello reale, e non potendo “elevare al quadrato” il colore delle tele, il regista decide al contrario di “dividerlo per sé stesso”, riducendo la realtà al bianco e nero: «Annientiamo il colore naturale a beneficio della creazione artistica». In questo modo il colore viene svincolato da una nozione

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Ai più avvertiti commentatori non sfugge però che la fedeltà cromatica all’originale continua ad essere un problema, nonostante i progressi104. Un problema quasi insolubile e di natura per lo più tecnica, che riguarda precisamente la scelta della pellicola da utilizzare. In Italia, i due sistemi maggiormente in uso sono l’Eastmancolor, di origine americana, e soprattutto il Ferraniacolor, prodotto dall’azienda milanese di materiale fotosensibile e di attrezzature foto-cinematografiche105. In un articolo del 1953 sull’house organ dell’azienda, l’impossibilità di una resa cromatica perfetta viene esplicitamente messa in chiaro fin dall’esordio:

«Il primo requisito a cui deve rispondere una pellicola fotografica a colori è la “fedeltà” nella riproduzione dell’originale. È però noto che finora nessuna pellicola è capace di assoluta “fedeltà”, anche se questa la intendiamo non nel senso strettamente fisico, ma psicologico, cioè nel senso meno preciso di riportare allo spettatore l’impressione che egli riceverebbe vedendo l’originale106».

Tuttavia, prosegue l’articolo, la pellicola Ferraniacolor è stata sottoposta a numerosi test di “fedeltà” proprio attraverso l’utilizzo in numerosi cortometraggi dedicati alle arti, testando la sua efficacia su tipologie di cromie e di opere molto diverse tra di loro, dai quadri fiamminghi alle tonalità postimpressioniste, dalle stampe giapponesi ai codici miniati, dai mosaici ravennati alle vetrate gotiche. Il primo film sull’arte a colori in Italia, Ceramiche umbre di Glauco Pellegrini, del 1949, fu effettivamente realizzato con il Ferraniacolor e salutato da Mario Verdone come «un esperimento sulle vie del colore, come film sull’artigianato e sull’arte, e anche – tout court – come cromofilm107».

Nonostante «lo spettro e la sensibilità dei sistemi di colore siano migliorati oltremisura, e il film a colori abbia ripetutamente provato d’essere capace di effetti tenui, freschi, sensibili e perfino di effetti di bianco-su-bianco108», il problema tecnico del viraggio inevitabile verso una dominante cromatica della pellicola (che per il Ferrania è il rosso), e dunque un ineludibile grado di infedeltà che lo spettatore avvertito dovrà tentare di compensare mentalmente, permarrà sempre109.

Da un punto di vista non strettamente tecnico ma più genericamente estetico, critico o didattico, come si può immaginare, le obiezioni al colore sono comunque piuttosto ridotte e vanno scomparendo nel corso degli anni. Mentre il film a colori si impone progressivamente come opzione maggioritaria, la concezione del bianco e nero si trasforma, passando da scelta

di naturalità e realismo e riassegnato al suo ruolo di elemento precipuo del linguaggio pittorico. A. BAZIN, Un

film bergsonien: «Le Mystère Picasso», in ID., Qu’est-ce que le cinéma?, Editions du Cerf, Parigi 1958-1962; trad. it., Un film bergsoniano: «Le Mystère Picasso», in Che cos’è il cinema?, a cura di A. APRÀ, Garzanti, Milano 1972 [1999], qui pp. 196-198.

104 Di questa opinione, per esempio, Mario VERDONE, I cortometraggi, «Cinema. Quindicinale di divulgazione cinematografica», nuova serie, anno IV, vol. V, fasc. 58, 15 marzo 1951, p. 148.

105 In Italia l’uso del colore, specie per il documentario, è promosso anche da una serie di incentivi ministeriali alla produzione: si tornerà su questo punto nel capitolo IV, § Il contesto italiano.

106 G. M., La produzione cinematografica con Ferraniacolor, «Ferrania. Rivista mensile di fotografia, cinematografia e arti figurative», anno VII, n. 5, maggio 1953, p. 20.

107 M. VERDONE, Il film sull’arte in Italia, «Bianco e Nero. Rassegna mensile di studi cinematografici», anno XI, n. 8-9, agosto-settembre 1950, p. 129.

108 R. DURGNAT, The Cinema as Art Gallery, «The Burlington Magazine», vol. 109, n. 767, febbraio 1967, p. 82. 109 Al di là del costoso procedimento del Technicolor, raramente utilizzato per i film sull’arte, il sistema più in uso negli Stati Uniti è l’Eastmancolor (su cui si basano il Columbia-, Pathé-, Warner- e DeLuxecolor); in Europa, oltre all’Eastmancolor, sono ampiamente impiegati i sistemi derivati dall’Agfacolor tedesco, ossia Sovcolor in URSS (che tende al rosa salmone), Ferraniacolor in Italia (con dominante rossa) e Gevacolor in Belgio (considerato talvolta il miglior sistema per i film sull’arte, sebbene punti ad accentuare le tinte scure). IBIDEM.

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obbligata ad alternativa minoritaria e consapevole, talvolta più adatta e significativa per il tipo di opera ritratta: si pensi ai casi delle stampe litografiche, della statuaria antica, dell’architettura.

«Il bianco e nero, specie per certe architetture, ha una possibilità d taglio plastico e di severità espressiva che a volte lo fa preferire alla colorazione chiassosa ed eccessivamente contrastata. Il connubio tra colore e bianco e nero deve essere però sempre evitato, sia per una coerenza di sviluppo delle immagini, sia perché questo associarsi di due diversissimi momenti visivi ingenera confusione e continui iati sempre infelici. Una splendente fotografia non colorata ha una potenza esaltativa delle forme plastiche che a volte il colore, con la sua maggior ricchezza, non possiede; questa sua ricchezza può risolversi in dispersione, fare più analitica l’inquadratura e portare l’occhio al particolare110.»

Ritorniamo così a Roberto Longhi, che, a quattrodici anni di distanza dal suo editoriale, può affermare che tanto nel cinema quanto nelle pubblicazioni editoriali d’arte111 il passaggio al colore è completamente avvenuto. Ma, in una situazione del genere, non solo è necessaria un’attenta supervisione del critico d’arte nei confronti del fotocolorista, al pari di quanto avviene con il regista di film sull’arte, ma è bene recuperare anche il «parente pauvre» del colore: il bianco e nero che, di fronte all’avanzata del fotocolor, «non ha quasi più stimolo a perfezionarsi, tende anzi a regredire»: una perdita certamente da evitare, dal momento che verrebbe a mancare la possibilità di «cogliere sottigliezze che il “fotocolor” non ha ancora raggiunto112».

«Rammento a proposito di musica ed immagine, che viene sempre spontaneo, allorché si visita una galleria d’arte o un monumento architettonico, viene spontaneo nel sottosuolo della nostra coscienza e si schiude lentamente un bisogno di sonoro, un bisogno di figure e di armonie come se le figure e le forme lo suggerissero, lo alimentassero come se fosse un completamento di esse113.»

Che questo “bisogno sonoro” inconscio cui fa riferimento Angelo Rossi sia la causa dell’onnipresenza del commento musicale nei film sull’arte, o che ciò semplicemente risponda – cosa più probabile – a una prassi abituale nei cortometraggi dell’epoca, è ad ogni modo innegabile che la musica ne rappresenti un ulteriore elemento di basilare significatività. Anche qui, però, una vera e propria riflessione articolata e a molteplici voci manca. Come per il colore, la questione della musica viene solitamente toccata con annotazioni spesso simili e piuttosto superficiali da un articolo all’altro, limitandosi a ribadire di volta in volta come l’accompagnamento debba essere consono all’opera trattata, adattarsi al ritmo cinematografico (senza avvedersi che è la musica stessa, in buona misura, a creare tale ritmo) e non risultare mai invadente. Il sonoro, si avverte, può divenire la «pietra d’inciampo» del film sull’arte, e per ovviare a questa spiacevole possibilità è possibile seguire un’unica strada: parola e musica devono rispondere a una sola virtù, la discrezione. «Sono lì per aiutare e sostenere la visione, non per farle concorrenza114

110 A.ROSSI,Nota sul documentario d’arte, «Cenobio. Rivista trimestrale di cultura», anno V, n. 7-8,

settembre-ottobre 1956, p. 434.

111 Sul rapporto tra editoria d’arte e film sulle arti, T. CASINI, Il montaggio delle immagini a confronto: le

edizioni Skira e il documentario sull’arte, «Studi di Memofonte», n. 13, 2014, pp. 175-194.

112 R. LONGHI, Appunti. Il critico accanto al fotografo, al fotocolorista e al documentarista, «Paragone Arte», anno XV, n. 169, gennaio 1964, p. 30.

113 A.ROSSI,Nota sul documentario d’arte, p. 433.

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Bisogna certamente mettere in conto che una seria analisi del comparto sonoro, e in particolare musicale, necessita di conoscenze specifiche, appannaggio di compositori, musicisti o critici musicali, ma spesso non di coloro che normalmente si occupano di film sull’arte, siano essi critici cinematografici o storici dell’arte. Nondimeno, appare sorprendente come ben poche e sporadiche voci rilevino l’importanza dell’elemento musicale nella ricezione spettatoriale, anzitutto emozionale ma in seconda battuta anche conoscitiva e critica, sia del film che dell’opera ritratta. Inoltre, il sonoro aggiunge un ulteriore livello semantico al discorso di convivenza di forme espressive: alla struttura dell’opera plastica e a quella del film si sovrappone infatti quella della composizione musicale, anch’essa opera in sé compiuta e carica di significati. Il film sull’arte, dunque, a ben vedere risulta una simbiosi non tra due bensì tra tre linguaggi espressivi al tempo stesso indipendenti ma interconnessi, l’uno puramente plastico, l’altro puramente acustico, il terzo audiovisivo.

I due interventi fondamentali che indagano il ruolo della musica nel documentario d’arte vengono non a caso dalla penna di due compositori. André Souris porta, in un breve saggio115, la propria esperienza di composizione per il film di Henri Storck Le monde de Paul Delvaux, considerato quasi unanimemente uno dei capolavori del film sull’arte e in cui un ruolo essenziale è giocato proprio dal commento musicale che si accorda perfettamente, insieme alla regia di Storck, al mondo surreale e onirico del pittore belga. Souris ribadisce che, come per qualunque altro tipo di film, la musica deve adattarsi alle immagini filmiche e al ritmo cinematografico (prima ancora che alle opere mostrate) secondo i consueti parametri di altezza, timbro, velocità, articolazione e intensità, e che la più alta efficacia può essere raggiunta solo ricercando una relativa semplicità polifonica. Un discorso musicale troppo complesso distacca infatti il suono dall’immagine e attira su di sé l’attenzione dello spettatore: un’eventualità ovviamente da evitare in un documentario sulle arti visive. Davanti a una rassegna filmica di immagini pittoriche, nella quale avvenga con successo «la congiunzione di due strutture, quella del pittore e quella del cineasta116», il compositore dovrà cogliere il modo di far risaltare le coincidenze tra questi due diversi sistemi espressivi, sottolineando e moltiplicando i punti di contatto tra pittura, film e partitura. Nel caso di Delvaux, Storck ha desunto dalla pittura, in qualità di principio strutturale del film, un particolare “tempo” caratterizzato da una percepibile lentezza di movimenti di camera e di ritmo di montaggio, al quale la partitura si è dunque adattata. Il fatto che alcune critiche abbiano sottolineato, con entusiasmo, il ruolo di primo piano della musica non è però per Souris un risultato positivo: «Se così è stato, l’esperienza sarebbe completamente fallita, poiché il mio scopo era di dare alla musica un ruolo complementare nella totalità del film, ruolo d’altra parte difficile da descrivere se non attraverso delle affermazioni generiche117».

A meno di un anno di distanza, è il compositore e teorico Roman Vlad a intervenire sul tema, dalle pagine del numero speciale di «Bianco e Nero» dedicato ai rapporti tra film e arte118. Il suo intervento è articolato e complesso, e parte dalla fondamentale premessa che l’accompagnamento musicale non è indispensabile, anzi è talvolta deleterio, in questo tipo di film: «Se la riproduzione sullo schermo di tali immagini e forme [delle opere d’arte]

115 A. SOURIS, Musique et tableaux filmés. Notes sur la musique dans Le monde de Paul Delvaux, in Le film sur

l’art, numero speciale di «Les Arts Plastiques», n. 1-2, gennaio-febbraio 1949.

116 IVI, p. 22. 117 IVI, p. 24.

118 R. VLAD, La musica nel documentario d’arte, «Bianco e Nero. Rassegna mensile di studi cinematografici», anno XI, n. 8-9, agosto-settembre 1950.

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corrisponde a scopi meramente conoscitivi e viene realizzata in base a criteri di assoluta fedeltà documentaria, con la conseguente rigorosa esclusione di qualsiasi ricerca di autonomi valori cinematografici (tipo del documentario scientifico), l’intervento della musica non soltanto si presenta come superfluo, ma risulterebbe nocivo ai fini prefissi119».

È nel caso di film sull’arte volti a creare un’opera d’arte cinematografica autonoma che la musica può offrire il suo contributo. Ad essa spetta in prima istanza il compito di animare i movimenti con cui la camera esplora l’opera, di «suggerirne i movimenti interni, di creare un campo di forze dinamiche che compensi in una certa misura la stereotipia del semplice moto traslato dei rigidi fotogrammi120»; in seconda battuta, sfruttando il suo potere allusivo, la musica deve sostituire o trasfigurare i rumori e il parlato, quando questo non è chiamato a fornire informazioni insostituibili allo spettatore. Infatti, rumori realistici e voci dialoganti non si coniugano bene, con il loro naturalismo, alla stilizzazione delle immagini pittoriche: non le vivificano, ma al contrario ne accentuano il carattere fittizio, dando al film un aspetto artificioso e ibrido.

Infine, Vlad si pone il problema tutt’altro che secondario della consonanza stilistica tra opere indagate e accompagnamento musicale: si devono scegliere musiche coeve all’arte ritratta, o invece cercare le sonorità che meglio si adattano al carattere profondo dell’opera mostrata, con licenza di anacronismo e imprecisione storica? L’esempio di Luciano Emmer, che aveva utilizzato brani di Stravinskij e Ravel per commentare Bosch in Il paradiso terrestre e di Prokof’ev per Giotto in Il dramma di Cristo, dimostra che scelte all’apparenza azzardate si possono rivelare invece perfettamente coerenti. In tutti questi casi l’accordo emotivo tra musiche e immagini non poteva essere trovato se non utilizzando musiche moderne, e non musiche storiche. Questa straordinaria capacità di adattamento della musica viene ricondotta alla sua indeterminatezza semantica, «indeterminatezza che non significa non significatività, bensì plurivalenza del linguaggio e del brano musicale121», e al fatto che gli elementi sonori e visivi che convergono e si sommano liricamente nel risultato espressivo «non sono forme e stilemi, ma i loro corollari espressivi122».

Se si vogliono armonizzare immagini e musica secondo concordanze più profonde che non una semplice etichetta storica, secondo Vlad è raro che la scelta di brani musicali contemporanei alle opere sia soddisfacente, specie per le opere più antiche di due secoli. Gli accostamenti fatti in base a criteri puramente storici non sono efficaci poiché «le pure forme sonore, prive di significati concettuali, non conservano il loro potenziale, la loro “attualità” espressiva allo stesso grado delle forme visive e delle verbali123». La musica presenta cioè una più rapida «stagionatura» e talvolta una maggiore caducità rispetto alle altre arti, perché è costituita unicamente da rapporti dinamici tra suoni, «cioè tra sensazioni le quali come tali sono soggette alla legge fisiologica per cui la ripetizione dello stimolo esterno (nel nostro caso la forma, il rapporto sonoro) attutisce il grado di intensità delle sensazioni124». Dunque, secondo una nota legge musicale, gli intervalli disarmonici si “consumano” diventando sempre più consonanti e