L’epistemologia epicurea in Lucrezio
1. Regula prima, norma e libella: la canonica nel De rerum natura
1.1.1 I cinque sens
Coerentemente con quanto insegnato dalla tradizione atomistica, anche per Lucrezio ogni forma di sensibilità è una sensibilità tattile, poiché tutti i sensi risultano inequivocabilmente ridotti a percezione di oggetti per contatto546, benché i corpora destinati a impattare i diversi organi sensoriali si diversifichino tra loro547. Non si verifica mai, infatti, alcuna confusione o interferenza tra i sensibili propri di ciascun senso, tant’è che un odore «si avverte» (varios rerum sentimus odores), ma è impossibile «vederlo» (numquam cernimus) arrivare fino alle narici, ed è impossibile «scorgere» (nec...tuimur) e «discernere con gli occhi» (nec...usurpare oculis) il freddo e il caldo, o «vedere» (nec...cernere) i suoni, sebbene tutte queste cose esistano e possiedano natura corporea, dacché il senso è da esse toccato e stimolato (I, 298-304). Nel caso del gusto, invece, il sapore viene «avvertito» (sentimus) dalla lingua e dal palato per contatto diretto con il cibo che, nel masticare, viene «spremuto» nella bocca (IV, 615-619). Il gusto appare perciò estremamente simile al tatto, alla cui rilevanza Lucrezio dedica non poco spazio, dacché «il tatto, infatti, il tatto, per i santi numi degli dèi, / è il senso principale del corpo» (tactus enim, tactus, pro divum numina sancta, / corporis est sensus) (II, 434-435).548
546 Nello specifico, Lucrezio afferma che la vista (visione, visum) dipende da corpora che «feriscono gli
occhi» (feriant oculos) (IV, 217); l’olfatto da odori che «fluiscono ininterrotti da certe sostanze» (perpetuoque fluunt certis ab rebus odores) (218-220); l’udito da «voci mutevoli» (variae voces) che non cessano di aleggiare nell’aria (221); il gusto, invece, sussiste perché quando costeggiamo il mare arriva in bocca l’umidità del sapore salmastro, mentre ci punge l’amaro se vediamo rimescolare un infuso di assenzio (222-224); il tatto, infine, è stimolato da una «causa consimile» (consimili causa) a quella da cui dipende la visione, in ragione del fatto che il tatto permette di conoscere in tenebris le figure dei medesimi oggetti dei quali la vista percepisce alla luce l’immagine (230-238).
547 Repici 2011, pp. 66-67.
548 La trattazione offerta da Lucrezio (già parzialmente presente in Epicuro) in merito ai cinque sensi
potrebbe verosimilmente delinearsi anche quale critica a quello che Aristotele definiva, nel De sensu e nel
De anima, come sensorio comune (koine aisthesis), inteso capacità generale di sentire che, per un verso,
consente di aver coscienza della sensazione, per un altro, di percepire le determinazioni sensibili comuni a più sensi, quali il movimento, la quiete, la figura, ecc. In un certo senso, il ruolo ricoperto, in Aristotele, dal
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Diversamente che in Epicuro, la cui analisi, come abbiamo visto, si rivolgeva eslusivamente a vista, udito e olfatto, il poeta latino dedica ampio spazio anche a quelli che già Aristotele qualificava come sensi per contatto, vale a dire gusto549 e tatto550. È alquanto probabile che Lucrezio cercasse di “colmare” una lacuna lasciata dal maestro551; la mole di versi riservati al tatto, in particolar modo, pare indirizzata a risolvere alcuni aspetti controversi di questo senso che dovettero dare del filo da torcere già ad Aristotele552.
A primeggiare sono, però, come in Epicuro, i sensi della vista553 e dell’udito554. Il primo, come avremo modo di appurare, offre a Lucrezio un osservatorio privilegiato su una serie di problematicità legate alla sfera della conoscenza percettiva. Il secondo, la cui trattazione riprende quella formulata dal Maestro, merita di essere richiamato per il peculiare taglio esegetico conferito alla sua indagine da parte dell’autore del De rerum
natura. Anzitutto, diversamente da quanto emergeva dall’Epistola a Erodoto, l’analisi
lucreziana si concentra sul caso specifico dell’emissione di voce umana, proponendo, fra l’altro, una ricostruzione tutt’altro che scontata dell’apparato fonatorio (IV, 549-552)555. È fatta salva, a ogni modo, l’importante distinzione operata da Epicuro tra aisthesis ed
epaisthesis, ossia tra «udire chiaramente e distinguere [le parole] nei loro singoli suoni»
(IV, 554-555), così da intenderne il significato, e «udire il suono ma non comprendere il senso di quelle parole» (560-561, ma anche 613-614)556. Tale distinguo è però reinterpretato da Lucrezio in termini di distanza: decisiva appare infatti, molto più che in Epicuro, la lontananza dell’emissione di voce rispetto al sensorio che le è proprio, le orecchie (IV, 553-562).
Determinante, in relazione a vista e udito, la funzione dell’aria: in entrambi i casi è infatti proprio dall’aria che Lucrezio fa dipendere la possibilità di avere una visione di
sensorio comune, in Lucrezio (ed Epicuro) spetta all’anima, che, con il suo essere causa maggiore della sensazione, è l’unico elemento capace di rendere effettivamente attiva la facoltà sensitiva del soggetto.
549 DRN II, 398-407; 422-430; IV, 615-672. 550 DRN II, 333-477; IV 230-238.
551 Repici 2011, pp. 69-70.
552 Aristot., De anima II 11. Cfr. Repici 2011, pp. 69-70. 553 DRN IV, 239-468; 595-614; 706-721.
554 DRN IV, 522-614. Vista e udito, in questo frangente, sono detti “primeggiare” soltanto in riferimento
allo spazio, in termini di versi, che a essi Lucrezio riserva. In generale, infatti, i due sensi che, verosimilmente, rivestono maggiore importanza sono la vista e il tatto, dacché è solo sottoponendo gli eventi «alla constatazione della vista / e all’accertamento del tatto, le uniche due vie sicure / che si aprono alla ferma convinzione nell’animo e nello spirito umano» (V, 101-103), che sarà possibile ottenere una conoscenza davvero attendibile.
555 Repici 2011, p. 71. 556 Verde 2010a, pp. 142-143.
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oggetti o una percezione di suoni e parole più o meno precisa e dettagliata. Diversamente, si è spesso sostenuto che per Epicuro l’aria interposta non svolga alcun ruolo in relazione ai sensi a distanza. La posizione lucreziana, perciò, rimanderebbe direttamente all’atomismo delle origini: era infatti Democrito ad assegnare all’aria la funzione di
medium, ed è alla sua spiegazione che il poeta parrebbe voler tornare, seppur, come
puntualizzato da Repici, limitatamente alla causa fisica (esterna) dei diversi intoppi in cui può incorrere la percezione di qualità dei corpi quali dimensioni, colori, odori e suoni557. Vale la pena far presente, tuttavia, che conviene essere cauti nell’affermare che Epicuro abbia eliminato in toto la funzione dell’aria come intermediario della visione. Come suggerito da Asmis, risulterebbe di gran lunga più auspicabile pensare a una modifica, da parte di Epicuro, della dottrina democritea, piuttosto che a una radicale presa di distanza da essa558. In fondo, nemmeno Lucrezio richiama l’aria nell’atto della percezione, ma soltanto in relazione alla distanza che separa l’oggetto dal soggetto senziente, come rimarcato da Verde e Leone559. È sufficiente prestare attenzione ai versi 246-255 del IV libro del De rerum natura, infatti, per rendersi conto di come l’aria venga chiamata in causa anzitutto per calcolare la distanza che separa l’uno dall’altro percipiente e percepito, e mai nell’ambito dell’atto percettivo vero e proprio, pena il venir meno della validità della dottrina dei simulacri560. Quello che ci pare di poter osservare, avallando la posizione adottata da Asmis, è che Epicuro, lungi dal negare all’aria un qualche ruolo nella visione, se ne serva, in un certo senso, allo scopo di rimarcare la fiducia che occorre riporre nella veridicità della sensazione. Certamente l’aria opera degli smussamenti sugli angoli del simulacro, che saranno tanto più profondi quanto maggiore sarà la distanza che ci separa dall’oggetto della percezione, ma ciò non deve in alcun modo far dubitare dell’affidabilità dei nostri sensi. Nel II libro del Peri Physeos, infatti, si insiste sulla capacità dei simulacri di attraversare grandi distanze rimanendo intatti, allo scopo di salvaguardare la verosimiglianza dei simulacri con gli oggetti di provenienza. Lucrezio, da parte sua, come vedremo emergere ancor più chiaramente in seguito, sembra far ricorso all’aria da una prospettiva differente, quasi apologetica, verosimilmente interessata a
giustificare, tramite il ricorso al potere deformante dell’aria, l’illusorietà legata al
fenomeno della torre quadrata che da lontano appare rotonda. Volendo calcare un po’ la
557 Repici 2011, pp. 72-73.
558 Asmis 1984, pp. 308 ss. Cfr. anche Leone 2012, p. 96 n. 278. 559 Leone 2012, p. 96 n. 278.
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mano, potremmo affermare che il poeta, chiamando in causa l’aria per giustificare le alterazioni del simulacro, adotta, in un certo senso, un approccio che è non solo diverso, ma addirittura opposto a quella di Epicuro. Laddove questi, infatti, attraverso l’aria, capace di modificare i contorni dell’eidolon, intende rendere ancor più evidente la capacità dell’eidolon stesso di veicolare il vero, il poeta latino ricorre all’espediente dell’aria allo scopo di giustificare, a nostro avviso, come avremo modo di indagare e spiegare nel prossimo capitolo, il fatto che la piena veridicità della sensazione può talvolta venire meno.
In conclusione a questo breve excursus sui sensi, è doveroso richiamare l’attenzione su di un’importante e altrettanto delicata differenza con Epicuro che è stata spesso messa in luce, ossia la mancanza di riferimenti in Lucrezio, in materia di meccanismi percettivi, al potere causale dell’anima, che abbiamo appurato incarnare invece per il filosofo di Samo «la causa maggiore della sensazione» (Hrdt. 63)561. Tale eccentricità della trattazione lucreziana, che si rivela tanto più problematica se si tiene conto della questione circa il legame tra il IV e il III libro del poema562, è stata interpretata in modo duplice563. Da un lato vi è infatti chi, scorgendo in Lucrezio un “sensista” ancor più meticoloso di Epicuro, ritiene che all’altezza del IV libro (in particolare, 54-271) i sensi vengano presentati e studiati come guide affidabili alla verità, indipendenti dall’anima tanto sul piano fisiologico quanto su quello epistemologico, coerentemente con quanto emergerebbe dai versi del III libro (in special modo, 350-369)564. Dall’altro vi è invece chi preferisce avallare l’ipotesi, meno radicale, per cui il IV libro si occuperebbe di porre in luce le manifestazioni psico-fisiche dell’interazione di corpus, anima e animus/mens, protagonisti già delineati nel contesto del III libro565. Da parte nostra, riteniamo decisamente più persuasiva (nonché corretta) la seconda delle ipotesi prospettate, dacché è pur sempre nel contesto del III libro che Lucrezio afferma chiaramente che è l’anima «a diffondere per prima i moti sensitivi alle membra» (sensiferos motus quae didit prima per
artus) (III, 245), enunciazione che costituisce l’equivalente lucreziano dell’asserto
epicureo che attribuisce all’anima la causa maggiore della sensazione (Hrdt. 63).
561 Ivi, pp. 73-74.
562 Dedicato alla trattazione della natura e delle funzioni dell’anima.
563 In realtà, le soluzioni plausibili valicherebbero, come suggerito da Repici (2011, pp. 73-74), le due
alternative da noi menzionate. Tuttavia, per gli scopi del presente lavoro è sufficiente porre mente al problema in sé, piuttosto che soffermarsi a disquisire intorno alle sue possibili risoluzioni.
564 Solmsen 1968b, pp. 624-629. 565 Brown 1987, pp. 722-822.
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