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La veridicità del senso

L’epistemologia epicurea in Lucrezio

1. Regula prima, norma e libella: la canonica nel De rerum natura

1.1.2 La veridicità del senso

Come anticipato in apertura del capitolo, l’attendibilità dei sensi costituisce il tema cardine del IV libro del De rerum natura, considerato che è proprio nei molteplici aspetti dell’indagine intorno ai processi e ai fenomeni percettivi che il canto trova la propria unità. Per l’esattezza, Lucrezio, nel IV libro, appare intenzionato a corroborare l’assunto epicureo della veridicità della sensazione a partire da una messa in luce di talune problematicità legate all’attività dei sensi, ossia, come spiegato da Repici, «a partire da casi che parrebbero smentirlo e che invece, se ben compresi e spiegati, non lo scalfiscono»566. Questa strategia di stampo marcatamente difensivo prende le mosse dall’analisi di una serie di situazioni in cui la vista (che risulta tra i sensi quello più funzionale al progetto che Lucrezio ha in mente) percepisce solo apparenze, situazioni che potremmo così classificare567:

(A) percezioni diurne (IV, 269-452), a loro volta ripartibili in:

(a.1) apparenze riflesse (IV, 269-323), ossia gli inconvenienti connessi alle immagini restituiteci dagli specchi;

(a.2) apparenze passeggere (IV, 324-378), ossia visioni disturbate a causa di particolari condizioni del sensorio (è a questo sottogruppo che appartiene il noto caso delle torri568); (a.3) apparenze illusorie (IV, 379-452), ovvero illusioni in cui gli oggetti ci appaiono in movimento, mentre in realtà sono in stasi (o viceversa), oppure deformati;

(B) percezioni notturne (IV, 33-37; 453-461; 722-748; 762-764; 972), nelle quali l’illusorietà è aggravata dal fatto che gli oggetti vengono creduti realmente esistenti. Per ognuno dei casi concreti riportati, nei quali si crede di poter cogliere i sensi in errore, Lucrezio apporta delle spiegazioni, rigorosamente materialistiche, che evidenziano come, a ben vedere, gli inganni della conoscenza non siano mai da addebitare al senso569: esso, infatti, svolge fedelmente il proprio dovere, ed è opportuno che

...hic oculos falli concedimus hilum.

Nam quocumque loco sit lux atque umbra tueri

566 Repici 2011, p. 74 (ma anche p. 76).

567 Per la ripartizione da noi seguita, cfr. Repici 2011, pp. 75-76.

568 Per l’analisi di questo caso, che assumeremo come paradigmatico della peculiare posizione adottata da

Lucrezio in merito alla sensazione, si veda qui di seguito.

569 Si pensi per esempio al caso dell’abbagliamento, provocato dall’esposizione alla luce emessa da corpi

risplendenti quali il sole (IV, 324-331). Il fenomeno, in generale, va ricondotto agli elementi di fuoco contenuti nelle luci troppo vive. O al caso dell’itterizia, che porta a vedere di un colorito giallo tutti gli oggetti circostanti, e che dipende dal mescolamento tra immagini provenienti dall’esterno ed elementi di giallo presenti nel nostro corpo (332-336).

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illorum est; eadem vero sint lumina necne,

umbraque quae fuit hic eadem nunc transeat illuc, an potius fiat paulo quod diximus ante,

hoc animi demum ratio discernere debet, nec possunt oculi naturam noscere rerum. Proeinde animi vitium hoc oculis adfingere noli.

«non concediamo che gli occhi si ingannino nemmeno un poco. / Infatti vedere dovunque siano la luce e l’ombra, / è loro funzione: ma se sia o no la medesima luce, / e se l’ombra che prima era in un luogo si sposti in un altro, o piuttosto non accada ciò che ho detto poc’anzi, questo è il criterio della ragione a dover discernerlo: / gli occhi non possono conoscere la natura delle cose. / Dunque non attribuire a difetto degli occhi ciò che è colpa della mente» (DRN IV, 379-386).

In piena consonanza con quanto insegnato da Epicuro570, naturam noscere rerum è compito dell’animi ratio: i sensi percepiscono comunque uno stato di cose reale; la genesi dell’errore è da attribuire al giudizio del pensiero (animus) sui dati forniti della sensazione. Questo assunto cardinale dell’Epicureismo è dunque posto in evidenza da Lucrezio a partire da fenomeni che

...violare fidem quasi sensibus omnia quaerunt, nequiquam, quoniam pars horum maxima fallit propter opinatus animi571 quos addimus ipsi,

pro visis ut sint quae non sunt sensibu’ visa. Nam nil aegrius est quam res secernere apertas ab dubiis, animus quas ab se protinus addit.

«tutti cercano, per così dire, di togliere credibilità ai sensi; / ma invano poiché la maggior parte di essi ci trae in inganno / a causa delle opinioni della mente che noi stessi aggiungiamo, / così da ritenere vedute cose non viste dai sensi. / Infatti nulla è più arduo che discernere le cose evidenti / dalle dubbie, che subito la mente da sé aggiunge» (DRN IV, 463-468).

Gli occhi non si ingannano, le sensazioni non sono fallaci: l’errore risiede nelle cattive inferenze costruite dal pensiero a partire dai dati fornitigli dal senso.

570 Cfr. Hrdt. 50-52; KD XXIII-XXIV.

571 L’espressione opinatus animi traduce il greco to proxdoxazomenon, «la cosa opinata» (Hrdt. 50). Come

riportato nei commentari di Ernout (1916, pp. 122-123), di Bailey (1947, p. 1236) e di Ernout-Robin (1962, p. 226), opinatus costituisce un’invenzione lucreziana per rimpiazzare opinatio/opinio, vocabolo inutilizzabile in un esametro.

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Da questi versi è inoltre possibile apprendere come il problema delle illusioni legate alla conoscenza sensibile non concerna, secondo il poeta latino, soltanto la sfera epistemologica, ma presenti anche delle ricadute in campo etico tutt’altro che trascurabili, come si evince in corrispondenza della sezione finale del IV libro. La responsabilità dell’errore, infatti, se non è da imputare ai nostri sensi, va ricercata in quello che il nostro giudizio aggiunge ai dati del senso: abbiamo perciò la possibilità di liberarcene572. Il tema dell’illusione dei sensi occupava un posto d’eccellenza nelle teorie degli antichi circa il valore della conoscenza. Prima di indagare quale potrebbe essere la fonte e quali gli obiettivi polemici degli argomenti lucreziani, conviene studiare più nel dettaglio come Lucrezio dipani il problema dell’illusorietà connessa al caso delle torri, esempio classico della controversia intorno ai presunti errori della sensazione573, che riteniamo emblematico al fine di cogliere un’importante differenza tra la posizione dell’allievo e quella del Maestro. Questo il passo di nostro interesse:

Quadratasque procul turris cum cernimus urbis, proptera fi tuti videantur saepe rutundae, angulus obtusus quia longe cernitur omnis sive etiam potius non cernitur ac perit eius, plaga nec ad nostras acies perlabitur ictus, aera per multum quia dum simulacra feruntur, cogit hebescere eum crebris offensibus aer. Hoc ubi suffugit sensum simul angulus omnis, Fit quasi ut ad tornum saxorum structa terantur, Non tamen ut coram quae sunt vereque rutunda, Sed quasi adumbratim paulum simulata vedentur.

«E le torri quadrate d’una città, se le scorgiamo da lontano, / accade per tale condizione che le vediamo rotonde, / poiché ogni angolo appare ottuso se guardato a distanza, / anzi neppure si distingue, e il suo impulso si perde, / né l’urto dell’immagine può giungere fino alle nostre pupille: / mentre i simulacri volano per ampi spazi, / lo fiaccano a forza i frequenti assalti dell’aria. / Quando a causa di ciò ogni angolo sfugge ai sensi, / avviene che le costruzioni di

572 In merito, cfr. Boyancé 1985, p. 201. Lo studioso fa osservare che nel caso dell’amore, di cui appunto

Lucrezio si occupa nella parte finale del IV libro (1037-1287), al piacere sessuale (Veneris fructu), che è buono e da eleggersi, si congiungono «oscuri impulsi che spingono a straziare l’oggetto» amato, ossia una pluralità di illusioni relative al possesso e alle attrattive che immaginiamo di ricercare in esso (cfr. anche Repici 2011, p. 76 n. 1). Da esse il saggio epicureo deve saper prendere le distanze fino a liberarsene, sì da mettersi al riparo dalle inevitabili sofferenze che da quegli inganni gli deriverebbero.

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pietra sembrano levigate al tornio, / tuttavia non come quelle che da vicino sono davvero rotonde, / ma quasi in abbozzo574 appaiono un poco somiglianti» (DRN IV, 353-363).

La soluzione addotta da Lucrezio fa leva chiaramente sulla funzione “destabilizzante” svolta dall’aria frapposta tra l’oggetto percepito e gli organi sensoriali del soggetto percipiente, la quale, smussando gli spigoli dei simulacri che la attraversano, deforma l’immagine a tal punto che «ogni angolo sfugge ai sensi» (IV, 360). La risultante, tuttavia, non è l’immagine di un corpo rotondo, ma quella di un oggetto di forma simile a quella di un corpo effettivamente rotondo, come in un dipinto «a chiaroscuro» (quasi

adumbratim paulum simulata vedentur) (363)575. Prestando, però, fede ai resoconti di Sesto Empirico (M VII 208 = 247 US) e Plutarco (Adv. Col. 1121a = 252 US), (Epicuro e) gli Epicurei risolvevano la questione in maniera differente, dichiarando che, quanto a veridicità, l’immagine di una torre che da lontano appare rotonda risulta equipollente a quella della medesima torre che da vicino risulta quadrata. Bailey, che considera quella lucreziana una «weak explanation», vale a dire una «soluzione debole», in cui i sensi, da ultimo, ne uscirebbero davvero ingannati e la sensazione irrimediabilmente fallace, ritiene che l’argomentazione riportata da Sesto e Plutarco sia tuttavia implicita nel dettato lucreziano, tanto da emergere in maniera esplicita ai versi 379-386 e 462-468 del IV libro576. Diversamente, Repici è del parere che il ricorso al potere destabilizzante del mezzo interposto (l’aria) consenta al poeta di escludere la presenza di un qualche difetto negli eidola che si dipartono dall’oggetto o negli organi sensoriali del soggetto ricevente577. Secondo la studiosa, inoltre, non è nemmeno possibile escludere che l’obiettivo di Lucrezio fosse quello di far fronte a un potenziale punto debole della tesi epicurea della verità di tutte le sensazioni, comprese quelle fra loro opposte, ovvero la violazione del principio di non contraddizione578.

Particolarmente interessanti, a nostro avviso, le considerazioni sviluppate da Godwin, in occasione del suo lavoro dedicato al IV libro del De rerum natura, in merito alla problematica di cui ci stiamo occupando579. Secondo lo studioso,la cui interpretazione, come da lui stesso indicato, riprende quella proposta da Annas e Barnes nel loro volume

574 Rendiamo qui adumbratim con “in abbozzo”, “vagamente”, contravvenendo alla traduzione proposta da

Canali (Dionigi 1994), che sceglie invece di rendere la forma avverbiale con “adombrandole”, perdendo di vista, a nostro avviso, il senso del dettato lucreziano.

575 Cfr. Bailey 1947, p. 1224; Repici 2011, p. 76. 576 Bailey 1947, pp. 1224 e 1228.

577 Repici 2011, p. 76. 578Ibid.

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The Modes of Scepticism580, i versi 353-363 restituirebbero l’immagine di un Lucrezio chiaramente in difficoltà. Questi, infatti, da un lato, sembrerebbe disposto a concedere che una torre realmente quadrata può apparire rotonda se scorta da distante, offrendo per altro una meticolosa spiegazione scientifica del fenomeno (smussamento degli angoli dell’immagine durante il tragitto attraverso l’aria). Dall’altro, si troverebbe, così facendo, a dover fare i conti con l’assunto epicureo dell’assoluta veridicità dei sensi, stando al quale le apparenze, se considerate in se stesse, non sono affatto da considerarsi illusorie o distorte: ad aprire le porte all’errore è piuttosto il giudizio avventato e scarsamente meditato dell’osservatore. Proprio questa situazione di disagio, secondo Godwin, avrebbe costretto il filosofo latino ad affermare che la torre vista da lontano non appare

effettivamente rotonda, ma solamente al modo di un ritratto in chiaroscuro di oggetti

veramente rotondi (IV, 362-363)581. Qualora però ponessimo mente alle nostre percezioni con maggior zelo e prudenza, ci renderemmo facilmente conto che, anche da lontano, in realtà, la torre appare quadrata582. Scrivono Annas e Barnes:

«Lucretius is not simply saying, as some modern philosophers have said, that the square tower looks like a square tower or that the square tower looks just the way square towers, when seen from a distance, do look. For that is trivial, and it is quite compatible with holding that square towers look round from a distance. Rather, he is saying that the tower really does

look square. Now this is surely just false, and the Epicureans are denying commonplace

truths (as ancient critics of their theory were quick to point out)»583.

Come che sia la questione, merita infine osservare come il ricorso lucreziano all’idea del dipinto in chiaroscuro per definire il tipo di somiglianza tra la percezione di oggetti reali e quella che di essi abbiamo in determinate condizioni (come quando per esempio guardiamo una torre da distante), sia chiaramente in consonanza con quanto leggiamo al paragrafo 51 dell’Epistola a Erodoto, in cui la medesima intuizione del dipinto viene adoperata da Epicuro per qualificare la similarità tra la percezione di oggetti reali e le immagini che di essi recepiamo nei sogni584. Ancor più interessante, tuttavia, rilevare come già Platone, nel Sofista (266c5-6), parli di certe «immagini apparenti» che prendono

580 Annas-Barnes 1985, pp. 105-106.

581 In questo senso è probabile che Lucrezio si limitasse a dire che la torre che da lontano appare rotonda,

non è, in realtà, proprio rotonda, ossia rotonda al modo di una torre effettivamente rotonda, vista da vicino.

582 Ivi, p. 105.

583 Ivi, pp. 105-106. Secondo i due autori, il tentativo messo in atto dagli Epicurei di negare che noi ci

troviamo realmente di fronte ad apparenze tra loro contrastanti fu «a gallant failure», come successivamente gli scettici non mancheranno di mettere in luce (ivi, p. 106).

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il nome di ombre, le quali si formano «quando si determina una zona di oscurità in presenza del fuoco», ossia quando, frapponendo un oggetto a una fonte di luce (per esempio un fuoco), si dà luogo alla corrispondente zona oscura585. Come i sogni e i riflessi che si formano spontaneamente in presenza di uno specchio, le ombre, spiega Teeteto, sono immagini naturali delle cose reali e, parimenti ai riflessi spontanei, ma diversamente dai sogni, si caratterizzano per il fatto di non celare la loro natura di immagini586. Come i sogni e i riflessi spontanei, le ombre appartengono, entro il genere dei simulacri (eidola), alla specie dei phantasmata, le parvenze illusorie e ingannevoli, e non a quella delle

eikones, le riproduzioni capaci di restituire fedelmente l’originale. Ancor più affini alle

immagini in chiaroscuro richiamate dai due epicurei risultano però quelle menzionate nella Repubblica (X 598b1-c5; 602d2). Qui, infatti, le immagini mentali dei sogni vengono messe in relazione con le immagini visive della pittura illusionistica o in prospettiva, ovvero di quella che Platone definisce skiographia, “pittura di ombre” o chiaroscuro (Resp. X 602d2; ma anche Theaet. 208e8), fermo restando che mentre quest’ultime sono immagini ingannevoli prodotte attraverso l’arte, quelle dei sogni sono immagini naturali generate tramite divino artificio587. Ciò che è bene sottolineare, a ogni modo, è che in entrambi i casi trattasi di immagini ingannevoli fatte per sembrare non un’immagine, bensì l’originale stesso.