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L’epistemologia epicurea

2. Verità e falsità

A dispetto della nutrita mole di studi incentrati sulla testimonianza sestana della verità di tutte le sensazioni, il problema della concezione epicurea della verità (e della falsità) in quanto tale, non connessa cioè a uno specifico campo d’indagine, non ha mai ricevuto la dovuta attenzione. Sollecitati in particolar modo da un recente lavoro di Bown,

351 Verde 2010a, p. 139.

352 «Opinion is closely linked with the epibole because it combines images in syntesis, but it differs in that

it acts at random and does not check its conclusions by epimartyresis and ouk antimartyresis» (Bailey 1926, p. 198).

353 Verde 2010a, pp. 140-141.

354 L’attività dell’epibole, infatti, è vera nella misura in cui si applica all’effettivo materiale percettivo

proveniente dall’esterno. Perspicua e chiarificatrice, in proposito, la seguente riflessione di Morel: «appréhender une impression de bleu ou de rouge, ce n’est pas encore juger que cette chose-ci est effectivement bleu ou rouge. C’est seulement avoir l’image de cette chose comme bleu ou comme rouge. Dès lors, la sensation contient à la fois la réceptivité physique qui la rende vraie, parce que matériellement conforme au réel, et l’acte d’attention infaillible sans lequel elle ne saurait être indicative du vrai. C’est pourquoi, lorsqu’il s’agit d’évaluer la validité d’un jugement, nous devons nous référer à la sensation qui en est l’occasion» (Morel 2011, p. 23).

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Epicurus on Truth and Falsehood356, cercheremo ora di indagare alcune interessanti sfaccettature della riflessione epicurea intorno alla nozione di verità, riferendoci in special modo, oltre che agli ipsissima verba di Epicuro, ad alcuni passi dell’Adversus logicos di Sesto Empirico.

Come emerso trattando dell’epibole tes dianoias, la questione dell’errore e della falsità sembra collocarsi, per Epicuro, esclusivamente al livello della doxa. Negli insegnamenti del Giardino, quest’ultima viene indicata anche attraverso il termine hypolepsis, che, pur richiamando la nozione di prolepsis, ne esprime in un certo senso il significato opposto, dacché, laddove la prolessi, in quanto criterio, è sempre vera, l’ipolessi (o supposizione) può rivelarsi tanto vera quanto falsa357. Volendo essere precisi, dunque, potremmo asserire, con Verde, che «il “luogo” della verità e della falsità è l’ipolessi»358.

Chiarito il legame tra opinione ed errore, Epicuro, nella seconda sezione di Hrdt. 50, chiamando in causa la terminologia legata alla famiglia semantica della martyresis (testimonianza/conferma), enuclea i quattro “criteri” in base ai quali è possibile stabilire il valore di verità di un dato giudizio (o opinione)359, criteri che convergono, nel loro complesso, in quell’unico e autentico “banco di prova” che è l’enargeia360. Per cogliere il significato del dettato e di Epicuro e del peculiare apparato lessicale da questi dispiegato, è bene ricorrere a un resoconto sestano (M VII 203-216 = 247 US), nel quale, in particolare, si legge che:

«Secondo Epicuro, pertanto, alcune opinioni sono vere, altre false, e sono vere quelle attestate (epimartyresis) e non smentite (ouk antimartyresis) dall’evidenza, sono false quelle, invece, quelle smentite (antimartyresis) e non attestate (ouk epimartyresis) dall’evidenza» (M VII 211)361.

356 Bown 2016b. 357 Verde 2013b, p. 76. 358Ibid.

359 Queste le parole di Epicuro nel passo in questione: «Il falso e l’errore sono sempre in ciò che si aggiunge

nell’opinione <rispetto a ciò che attende di venir confermato> o di non essere smentito e che tuttavia non venga confermato <o venga smentito> [...] (τὸ δὲ ψεῦδος καὶ τὸ διημαρτημένον ἐν τῷ προσδοξαζομένῳ ἀεί ἐστιν <ἐπὶ τοῦ προσμένοντος> ἐπιμαρτυρηθήσεσθαι ἢ μὴ ἀντιμαρτυρηθήσεσθαι, εἶτ’ οὐκ ἐπιμαρτυρουμένου <ἢ ἀντιμαρτυρουμένου> [...])» (Hrdt. 50).

360 Cfr. anche M VII 216, in cui Sesto definisce l’enargeia come basamento (krepis) e fondamento

(themelios) di tutto.

361 Si osservi, come correttamente puntualizzato da Bown (2016, p. 482), che sebbene i termini utilizzati

per designare i membri di ciascuna coppia (attestazione-non attestazione; non smentita-smentita) differiscano tra loro solo per la presenza o l’assenza della negazione (ouk), ogni membro di ciascuna coppia consiste in qualcosa di più forte che non la mera assenza dell’altro. La non attestazione, ad esempio, non rappresenta la mera assenza di attestazione: per poter classificare un giudizio come “non attestato” non basta appurarne la non attestazione, ma occorre mostrarne la falsità. Taluni giudizi, di conseguenza, potrebbero non risultare né attestati, né non attestati (così come né smentiti, né non smentiti).

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Nella sezione immediatamente successiva, Sesto porta a termine un’analisi dei quattro “rami” della criteriologia in esame (M VII 212-215). Da questa disamina, apprendiamo anzitutto che:

«L’attestazione è un’apprensione, conseguita mediante evidenza, del fatto che l’oggetto opinato è appunto quello che precedentemente veniva opinato, come, ad esempio, se Platone da lontano incede verso di me, io congetturo e opino, a causa della distanza, che si tratti di Platone, e, quando egli mi si è accostato, viene attestato che si tratti di Platone, mercé la soppressione della distanza, e la conferma si è avuta in virtù della stessa evidenza» (M VII 212).

Le sezioni di M VII 213-214 sono dedicate rispettivamente alla descrizione della non smentita e della smentita, particolarmente interessanti in quanto chiamano in causa l’esistenza del vuoto ammessa dagli Epicurei. Nel caso della non smentita, l’esistenza di qualcosa che non cade sotto i sensi, qualcosa cioè di non evidente (adelon), come il vuoto, viene provata attraverso una cosa evidente (d’enargous pragmatos), nel nostro caso il movimento (kinesis)362. Per quanto concerne la smentita, invece, è ciò che non cade sotto i sensi a confutare un fenomeno. Anche qui Sesto fa appello alla questione del vuoto, ma dal punto di vista stoico: gli Stoici, non diversamente dagli Epicurei, annoveravano il vuoto tra le cose non evidenti. In contrasto con la soluzione epicurea, tuttavia, essi assumevano la non-evidenza del vuoto per disconoscere l’esistenza dello stesso, salvo incorrere, così facendo, nella negazione dell’esistenza di quel fenomeno manifesto che è il movimento363. Per finire, il resoconto sestano così delinea la non attestazione:

362 Volendo proporre l’argomento attraverso il linguaggio della logica formale, otteniamo il seguente

schema, raffigurante il tipico andamento del modus ponens (cfr. Bakker 2016, p. 16): m → v se si dà il movimento, esiste il vuoto

m il movimento si dà ──── ──────────── v perciò il vuoto esiste.

363 Nel linguaggio formale otteniamo lo schema del modus tollens (cfr. Ibid):

¬v → ¬m se non ci fosse il vuoto, non si darebbe il movimento m ma il movimento si dà

───── ──────────── v perciò il vuoto esiste.

Lo schema della non-smentita, riportato nella nota precedente, se ci si attiene all’esempio di Sesto, piuttosto che al suo resoconto teorico, può venir ridotto alla medesima forma logica dell’argomento appena riportato, ossia di quello relativo alla smentita (ivi, p. 17). Come puntualizzato da Bakker, «The only difference is one of focus: contestation is about falsifying a hypothesis (viz. the nonexistence of void), whereas non-

contestation is about verifying a hypothesis (viz. the existence of void), by falsifying its negation (viz. the non-existence of void). In other words, according to Sextus’ account, non contestation does not just denote

- as the name would suggest - the mere absence of contestation, but contestation of the negated hypothesis, just as non-attestation was attestation of the negated hypothesis» (Ibid.).

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«Allo stesso modo, anche la mancanza di attestazione è contraria all’attestazione: per mezzo dell’evidenza, infatti, si è riscontrata un’incidenza (hypoptosis) in virtù della quale l’oggetto opinato non è certamente tale quale veniva opinato, come, ad esempio, se uno incede da lontano, noi a causa della distanza congetturiamo che è Platone, ma, una volta soppressa la distanza, ci rendiamo conto, mercé l’evidenza, che non si tratta di Platone. E un fatto di tal genere è mancanza di attestazione, perché l’oggetto opinato non è stato attestato da quello che appare» (M VII 215).

E conclude:

«l’attestazione e la mancanza di smentita costituiscono un certo criterio del fatto che una cosa è vera, mentre la mancanza di attestazione e la smentita costituiscono un certo criterio che una cosa è falsa» (M VII 216).

Soffermandoci sul resoconto sestano, riportato per intero, della coppia attestazione-non attestazione (M VII 212, 215), possiamo comprendere il significato dell’esser vero o falso di un giudizio:

 un giudizio è vero quando la cosa opinata (to doxazomenon) è tale quale veniva opinato;

 un giudizio è falso quando la cosa opinata (to doxazomenon) non è tale quale veniva opinato364.

Con Bown, definiamo la nozione epicurea di verità che traspare da questo resoconto sestano come «truth-as-correctness» (verità-come-correttezza)365. Tale caratterizzazione della verità si rivela applicabile non solo ai giudizi, ma anche alle rappresentazioni. Ciò appare chiaro dall’esempio della torre (M VII 208-210), in cui Sesto giustifica la verità della percezione affermando che l’oggetto percepito, comunque esso sia, possiede realmente i caratteri che manifesta: «this is precisely the kind of justification one would expect if the notion of truth in question is that of truth-as-correctness»366.

Accanto a questa caratterizzazione, piuttosto familiare, della verità-come-correttezza, Epicuro sembra riconoscere un’ulteriore nozione di verità, meno intuitiva ma più fondamentale rispetto a quella appena analizzata. Per comprenderla, è necessario, ancora una volta, fare riferimento alla lezione sestana, nello specifico a M VIII 9 (= 244 US), in cui si legge:

364 Cfr. Bown 2016b, p. 484. 365 Ivi, p. 485.

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«Epicuro ha affermato che tutte le cose sensibili sono vere ed esistenti. Per lui, infatti, non intercorre alcuna differenza tra il dire che una cosa è vera e il dire che una cosa esiste; onde egli, peraltro, nel fare una descrizione del vero e del falso, asserisce: “È vero ciò che è nello stato in cui si dice (legetai) che esso è” e continua: “È falso ciò che non è nello stato in cui si dice (legetai) che esso è”. Ed aggiunge che il senso [...] si trova in ogni caso nel vero [...] E mentre sono vere tutte le cose sensibili (aistheta), quelle opinabili (doxasta) differiscono tra loro, e alcune sono vere, altre false».

A partire da questo rendiconto di Sesto, è possibile estrapolare i seguenti significati di verità e falsità:

 vero è ciò che è nello stato in cui si dice che esso è;

 falso è ciò che non è nello stato in cui si dice che esso è367.

Diversamente da quanto si evinceva da M VII 211-216, qui verità e falsità sembrano venir ascritti non a ciò che proferiamo in merito alle cose che ci circondano, ma alle cose stesse intorno a cui proferiamo368. A essere chiamate vere o false, infatti, sono ora gli aistheta (cose percepite) e i doxasta (cose opinate), i quali, secondo la recente lettura proposta da Bown, si riferiscono a entità di tipo particolare note come “complessi predicativi”369. Ogni complesso predicativo, essendo composto da un attributo e dall’oggetto individuale di cui l’attributo si predica (per esempio ‘la torre rotonda’), corrisponde a uno ed un solo enunciato, vale a dire a quel particolare enunciato che ascrive quel determinato attributo a quel preciso individuo370. La torre rotonda, ad esempio, è chiaramente associata all’enunciato ‘la torre è rotonda’. In generale, scrive Bown, «for a predicative complex to be as its associated statement says it to be is for it to be combined»371, e proprio in ragione di ciò lo studioso definisce quest’apparentemente contro intuitiva accezione della verità come “truth-as-combination”. E poiché un complesso predicativo esiste solo quando l’attributo e l’entità individuale che lo compongono stanno effettivamente assieme, è evidente un complesso predicativo può definirsi vero precisamente quando può dirsi anche esistente372. È perciò in riferimento ai complessi predicativi che i predicati “vero” ed “esistente” risultano equivalenti, e dunque sinonimi, dacché qualcosa che non è

367 Ivi, p. 466. 368Ibid.

369 Ivi, pp. 470-474. 370 Ivi, p. 474.

371Ibid. Volendo enunciare quest’idea sotto forma di regola, potremmo affermare, sempre con Bown, che

«A predicative complex composed of an attribute F and an individual x is true [false] just when it is combined [divided], i.e. just when x has [does not have] F» (Ibid.).

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costituisce un complesso predicativo potrebbe benissimo esistere senza per questo poter dirsi vero nel senso appena indicato373. Solo di sfuggita, osserviamo già in Bown che una posizione affine a quella appena delineata è rinvenibile, a ben vedere, nel nono libro della

Metafisica di Aristotele, in cui leggiamo che

«Questi [scil. il vero e il falso], riferiti alle cose, consistono nello stare insieme o nell’essere separati, sicché è nel vero chi crede che siano separate le cose separate e che stiano insieme le cose che stanno insieme, mentre è nel falso chi ha una posizione contraria alle cose» (Metaph. Θ, X 1051b)374.

Da parte nostra, tuttavia, reputiamo questa lettura proposta da Bown piuttosto oscura e, soprattutto, inutilmente intricata. Quelli che lui chiama “complessi predicativi”, di fatto, dove li incontriamo in Epicuro? Ciò che Bown intende designare con l’espressione “complesso predicativi” sono, nel lessico epicureo, le doxai o hypolepseis. I “complessi predicativi” sono dei giudizi (come suggerito dalle due occorrenze della voce verbale

legetai in M VIII 9). Ma allora, domandiamo all’autore, se i termini esistono già, e sono

assolutamente chiari, perché complicare le cose, coniando espressioni tutt’altro che perspicue? A ogni modo, la nozione di verità qui in gioco è quella di verità come

adaequatio («combination»), la quale si affianca a quella verità come “esistenza”

delucidata sopra.

Chiarite le due nozioni di verità ascrivibili alla dottrina di Epicuro, è necessario mostrarne la stretta correlazione. Ora, il giudizio (doxa o hypolepsis) “Teeteto è seduto” è vero (nel senso dell’adaequatio) solo quando è vero (nel senso dell’esistenza) che Teeteto è seduto. Perciò, «a judgement that Theaetetus is seated is true-as-correct just when seated Theaetetus is true-as-combined»375, il che significa che la verità come “esistenza” doveva costituire per Epicuro la nozione di verità fondamentale, la sola realmente imprescindibile.

Accanto alla criteriologia appena delineata, occorre fornire alcune indicazioni in merito allo statuto delle opinioni che richiedono il vaglio dell’evidenza sensibile. Esse fanno capo a due distinte categorie: i prosmenonta376, ossia le opinioni che attendono di essere confermate attraverso una più vicina e nitida osservazione, come la congettura che

373Ibid. Scrive Bown: «‘Existent’ and ‘true’ are not strictly synonymous, but they do apply to exactly the

same predicative complexes at exactly the same times, and this is sufficient grounds for claiming that there is no difference in using one or the other expression with reference to a predicative complex» (ivi, p. 480).

374 Per la traduzione dei passi della Metafisica di Aristotele ci riferiamo all’edizione curata da Reale 1997. 375 Ivi, p. 488.

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quell’uomo che si sta avvicinando sia Platone, ricordata nell’esempio di Sesto Empirico, e gli adela377, ovvero ciò che è non evidente e che non si manifesta, non consentendo per ciò stesso un’osservazione più davvicino. Gli adela, a loro volta, includono da un lato le realtà che possono essere osservate solamente da lontano, come i fenomeni meteorologici e atmosferici (ta meteora), dall’altro le realtà la cui osservazione ci è totalmente preclusa, come nel caso degli atomi e del vuoto, principi basilari dell’intero sistema filosofico epicureo. Come puntualizzato da Bakker, i prosmenonta vengono saggiati attraverso il ricorso ai criteri di attestazione e non attestazione; gli adela, invece, tramite la smentita e la non smentita378.