• Non ci sono risultati.

L’epistemologia epicurea in Lucrezio

1. Regula prima, norma e libella: la canonica nel De rerum natura

1.3 Voluptas e dolor

Il terzo criterio della canonica epicurea, l’affezione (pathos), non si trova mai esplicitamente menzionato, in quanto tale, nel De rerum natura, ma risulta implicitamente indicato ogni qualvolta Lucrezio tratta di piacere (voluptas) e dolore (dolor) o di tematiche affini. L’assenza, in Lucrezio, di un vocabolo equivalente al greco pathe, destinato a raccogliere sotto di sé i concetti di voluptas e dolor, non risulta affatto casuale. A nostro avviso, infatti, la scelta lucreziana è un chiaro segnale del fatto che la prospettiva assunta nel poema è, almeno primariamente, quella fisico-epistemologica641. La semantica del termine pathos/pathe utilizzato da Epicuro, invece, porta con sé un evidente rimando alla dimensione più propriamente etica del sapere, e Lucrezio dovette avvertire piuttosto scomodo, almeno in questo caso, dato il taglio che intendeva assegnare alla propria opera, rimanere pienamente fedele al vocabolario epicureo.

Non è nostra intenzione, in questa sede, guardare a voluptas e dolor dal punto di vista della teoria delle emozioni, come non rientra nei nostri progetti quello di occuparci del ruolo insostituibile rivestito dalla Voluptas nella proposta lucreziana e, più in generale, epicurea. Impersonata da Venere, essa è legge universale e motore di ogni aspetto della

physis642, bene supremo a cui tendere, tant’è che «chi è nato deve perversare nel rimanere

in vita, / finché il soave piacere lo stringe nei suoi lacci» (Natus enim debet quicumque

est velle manere / in vita, donec retinebit blanda voluptas) (V, 177-178)643. Coerentemente agli obiettivi del presente lavoro, ci limiteremo a prendere in esame quei risvolti del piacere (e del dolore), ricavabili dal dettato lucreziano, che soli contribuiscono a giustificare l’attribuzione del titolo di canone di verità, e criterio conoscitivo, alle due affezioni.

Passando in rassegna le diverse occorrenze di voluptas e dolor presenti nel De rerum

natura, ne abbiamo riscontrata in particolare una sulla quale, per cominciare, conviene

spendere alcune parole, poiché riteniamo possa corroborare le considerazioni da noi sviluppate studiando i pathe in Epicuro. Questo il passo di nostro interesse:

641 Questo dato risulta particolarmente significativo in quanto potrebbe costituire una conferma del fatto

che delle due strade intraprese dall’epicureismo in Italia, quella di Lucrezio e quella di Filodemo di Gadara, era quella di Lucrezio, avente sede a Roma, a preferire le questioni di carattere fisico, laddove il nuovo ‘Giardino’ di Ercolano prediligeva problematiche inerenti la retorica, l’arte e la politica. In merito, si vedano Sedley 2012, pp. 63-68 e Maso 2012, p. 59.

642 Per questa lettura del valore connesso a alla figura di Venus/Voluptas tanto nel proemio del I libro,

quanto in tutto il resto dell’opera lucreziana, cfr. Boyancé 1985, pp. 77 ss.

643 Cfr. anche DRN II, 257-258. Va precisato che per questi due versi assumiamo l’inversione delle clausole

voluptas-voluntas in voluntas-voluptas proposta dal Lambin, di contro alle correzioni suggerite dal

162

Praeterea quoniam dolor est ubi materiai corpora vi quadam per viscera viva per artus sollicitata suis trepidant in sedibus intus,

inque locum quando remigrant, fit blanda voluptas...

«Inoltre, poiché si produce dolore quando gli elementi della materia / sollecitati da qualche forza attraverso gli organi vivi e le membra / all’interno si agitano sconvolti nelle loro sedi, / e inversamente quando si riassestano nasce un soave piacere...» (II, 963-966).

Il contesto in cui si inserisce il passo è lo stesso che caratterizza l’intera sezione che va dal verso 865 al verso 990 del II canto, la quale, come osservato da Bailey, ha lo scopo di preparare la dimostrazione fondamentale del III libro relativa alla mortalità dell’anima644. Nel passaggio che ci interessa, in particolare, Lucrezio è impegnato a mostrare come la sensibilità non appartenga all’atomo in quanto tale, analizzando il modo in cui essa viene meno o risulta lesionata. Non di rado, urti provenienti dall’esterno possono infatti risultare fatali per l’organizzazione di quel complesso atomico che è il nostro corpo; altre volte, invece, gli elementi riescono a ricomporsi grazie all’azione dei moti vitali, cosicché la morte è evitata e la sensibilità riappare. In questi casi, se il dissesto della composizione atomica provocato dall’urto esterno ha prodotto dolore (dolor), quando gli atomi ritornano nel loro luogo naturale, sorge una blanda voluptas. Dolore e piacere, perciò, che altro non sono se non la modalità di darsi della sensazione stessa, ci informano, per così dire, circa il grado e, soprattutto, il modo di organizzazione proprio degli elementi della materia di cui è costituito il nostro corpo.

In linea con il passo esaminato, merita segnalarne un altro che, pur non includendo i concetti di voluptas e dolor, pare confermare in maniera assai efficace le osservazioni appena svolte. Ci troviamo sempre nel II libro, nella sezione in cui Lucrezio prende in esame gli effetti prodotti dalla forma degli atomi sui nostri organi di senso, preoccupandosi in particolar modo di stabilire se sono piacevoli o dolorosi. Soffermandosi anzitutto sul gusto, il poeta conclude che «le sostanze di gradevole contatto ai nostri sensi» (ea quae sensus iucunde tangere possunt) sono provocate da atomi rotondi e lisci, laddove quelle costituite da particelle adunche e ruvide, «sogliono lacerare le vie dei sensi / e straziare il nostro corpo con la loro penetrazione» (solere vias

rescindere nostris / sensibus introituque suo perrumpere corpus) (II, 403-407). Ora, non

v’è dubbio che in questi meccanismi che Lucrezio sta descrivendo sia del tutto assente

163

l’attività del logismos (animus), cui non si accenna minimamente. Voluptas e dolor sono qui considerati in se stessi, ossia nel loro essere degli stati psicofisici irrazionali. Nonostante ciò, appare altrettanto indubbia, almeno a nostro avviso, la legittimità di considerare anche a questo livello il piacere e il dolore come dei criteri di verità: essi, infatti, rappresentano un indice attendibile del grado di conformità posseduto dalla disposizione atomica che dà luogo ai nostri organi di senso rispetto a quella degli oggetti che ci impattano dall’esterno. Come già puntualizzato trattando dei pathe in Epicuro, il

sensus non è mai neutro, di modo che oltre a testimoniare l’esistenza di una realtà esterna

(della quale, si badi bene, è impossibile conoscere l’identità anteriormente all’intervento della prolessi), esso ci informa altresì circa la rispondenza tra la nostra struttura atomica e quella dei corpi che continuamente ci colpiscono.

Già al loro grado “zero”, perciò, ovvero prima di qualunque intervento dell’attività razionale, tanto i voluptas e dolor lucreziani, quanto i pathe (hedone e algedon) di Epicuro possono definirsi, a pieno titolo, criteri di verità, una verità, certo, anch’essa al grado “zero”, una verità delle cose o “fattività”, una verità non relativa ai giudizi, ma alla quale tien dietro, a ogni modo, un indiscutibile valore gnoseologico.

Altra testimonianza che sembra muovere in questa direzione, ci proviene da un passaggio del IV libro del De rerum natura in cui Lucrezio con il curioso fatto che i leoni non sono in grado di tollerare la vista del gallo, e «a null’altro pensano che a fuggirlo» (IV, 172-173). La ragione, ci spiega il poeta, risiede nel fatto che i leoni provano un dolore fisico immediato (dolor) alla vista del gallo, causato da semina che si dipartono da quest’ultimo, i quali presentano una conformazione tale da provocare dolore una volta giunti a impattare l’apparato visivo dei leoni (714-717). La reazione del leone è istintiva, non coinvolge alcun giudizio: il gallo, infatti, non costituisce alcun reale minaccia per lui645. Cionondimeno, è evidente che il dolore provato dall’animale risulta già provvisto di un qualche contenuto informativo, e dotato perciò di valore conoscitivo: esso ci dice quantomeno che la compagine atomica che caratterizza gli occhi del leone non è per nulla compiacente rispetto a quella dei simulacri emanati dal gallo.

Qualora però la prospettiva che si sceglie di assumere sia quella etica, voluptas e dolor non potranno che tradursi in due affetti dell’umano prettamente funzionali al raggiungimento dell’eudaimonia, e tali da rendere necessario l’apporto del logismos (come del resto già appurato in riferimento a Epicuro e a quanto si legge nell’Epistola a

164

Meneceo). Paradigmatico, a tal riguardo, un passo del V libro, in cui Lucrezio, al culmine

del suo racconto circa le origini dell’umanità e della civiltà, ha cura di spiegare l’origine del male:

Ergo hominum genus incassum frustraque laborat semper et <in> curis consumit inanibus aevum, nimirum quia non cognovit quae sit habendi finis et omnino quoad crescat vera voluptas. Idque minutatim vitam provexit in altum et belli magnos commovit funditus eastus.

«E dunque il genere umano senza frutto e invano si affanna / in perpetuo, consumando la vita in inutili travagli; / e non fa meraviglia, perché non conosce misura al possesso, / e nemmeno fin dove il genuino piacere si accresca. / Ciò a poco a poco ha sospinto al largo la vita, / e ha sommosso dal fondo le grandi tempeste della guerra» (V, 1430-1435).

Il male, dichiara Lucrezio, deriva dall’ignoranza dei limiti imposti dalla physis al piacere genuino, cui fa seguito un’incessante ed erronea ricerca di inutili capricci e diletti, che conduce, a poco a poco, a guerre e ostilità. Ora, la vera voluptas di cui parla il poeta latino, evidentemente, non rappresenta più una risposta “automatica”, e quindi alogos, alla realtà esterna, ma uno stato essenzialmente connesso a un qualche “lavorio” della ragione646, la quale soltanto è in grado di cogliere quanto insegnato da Epicuro nella III

Massima Capitale, ossia che «Il limite di grandezza per i piaceri è la soppressione di

qualsiasi dolore». L’espressione vera voluptas, fra l’altro, sembra richiamare un’altra dicitura, assai problematica, rintracciabile in IV, 1081 (ma anche in III, 40), laddove Lucrezio spiega che l’amore ossessivo non può dar luogo a una pura voluptas, a un «piacere puro». Anche in questo caso, a essere in gioco è una specie di voluptas connessa a un qualche operare dell’intelletto e non riducibile a mera affezione a-razionale. A conferma di ciò, del resto, lo stesso Lucrezio, pochi versi prima, afferma che «La voluttà è più limpida ai sani647 che ai miseri dissennati» (Nam certe purast sanis magis inde

voluptas / quanm miseris) (IV, 1075-1076), alludendo verosimilmente al fatto che

solamente un ponderato calcolo dei piaceri e dei dolori, che sappia eleggere il piacere davvero autentico, può consentire l’accesso a una condizione di vera serenità e vero

646 Nel passo riportato si parla infatti di «conoscenza» della misura del possesso, espressione che, a nostro

avviso, allude a un’attività conoscitiva che valica i confini della sola percezione sensoriale, chiamando in causa l’operare dell’intelletto.

647 Nel senso di “sani di mente”. Abbiamo preferito modificare la traduzione di Canali, che rende il vocabolo

165

benessere, sia a livello del singolo individuo che dell’umanità tutta. A questo stadio, perciò, voluptas e dolor si comportano come criteri del vero solo in quanto subordinati al

consilium che ha sede nell’animus o mens648, poiché la verità in questione non è più la verità come fattività che propria della conoscenza percettiva, ma una verità legata alla capacità di giudizio, e, perciò, all’operare della parte razionale dell’anima.

A ben vedere, potremmo a questo punto concludere che il dettato lucreziano, da un lato, relativamente alla questione delle affezioni come criterio di verità al loro grado “zero”, risulta più chiarificatore (grazie al suo carattere esemplificativo) di quanto non lo sia quello dello stesso Epicuro, dall’altro, per quanto concerne il valore veritativo di

voluptas e dolor connesso all’apporto del logismos, pur rimanendo parzialmente oscuro,

sembra quantomeno indicare che la strada da percorrere in vista di una corretta esegesi delle parole del Maestro è quella che si è tentato di intraprendere nella sezione a esse dedicata649

1.4 Le applicazioni rappresentative della mente

Tra gli Epicurei cui Diogene Laerzio attribuisce l’aggiunta di un quarto canone di verità, le applicazioni rappresentative della mente (tas phantastikas epibolas tes

dianoias), è possibile annoverare, senz’ombra di dubbio, Lucrezio, il quale, seppur non

sviluppando mai per se stesso e da un punto di vista teorico il criterio dell’epibole, allude chiaramente a esso in più luoghi del De rerum natura.

Il primo passo che conviene esaminare si trova nel II libro, precisamente ai versi 739- 740. Lucrezio, dopo aver dissuaso il suo lettore dal credere che i corpi elementari presentino, di per se stessi, una qualche colorazione, ha cura di aggiungere un’importante puntualizzazione:

In quae corpora si nullus tibi forte videtur posse animi iniectus fieri, procul avius erras.

«Se per caso ti sembra che nessuno slancio dell’animo possa prodursi / e raggiungere l’essenza di questi corpuscoli, erri sviato lontano» (II, 739-740).

Lucrezio, che qui sembra rendere l’espressione greca epibole tes dianoias con animi

iniectus650, è evidentemente intenzionato a sottolineare la rilevanza di tale «proiezione,

648 DRN III, 95.

649 Parte Seconda, paragrafo 1.1.3.

650 “Sembra” in quanto non è possibile avere la certezza matematica che nel parlare di animi iniectus

166

slancio dell’anima» nell’ambito del processo conoscitivo delle realtà adela, tra le quali rientrano, appunto, i corpora di cui sta parlando651. All’obiezione per cui sarebbe impossibile per l’animus visualizzare, attraverso suddetta «proiezione», atomi privi di colorazione, il poeta controbatte chiamando in causa dapprima l’esempio del cieco, il quale, pur non avendo mai conosciuto il colore, con facilità riconosce al tatto gli oggetti, e successivamente facendo riferimento a quelle situazioni in cui noi, immersi nelle tenebre, tocchiamo le cose e le riconosciamo pur non distinguendone la tinta (II, 741- 747).

Un secondo rinvio all’epibole si verifica, sempre nel II libro, in corrispondenza dei versi 1044-1047, i quali appartengono a quella sezione del poema in cui Lucrezio si trova a dover introdurre l’idea di un numero infinito di mondi. In questo contesto, leggiamo che

Quaerit enim rationem animus, cum summa loci sit infinita foris haec extra moenia mundi,

quid siti bi porro quo prospicere usque velit mens atque animi iactus652 liber quo pervolet ipse.

«L’animo infatti richiede di conoscere a pieno, / essendo infinito lo spazio oltre i muri del mondo, / cosa esista lassù, dove intenda scrutare la mente, / dove il libero sbalzo dell’animo voli spontaneo» (II, 1044-1047).

In questo caso, evidentemente, lo «slancio» dell’animus non è rivolto a un oggetto particolare, ma è «libero» proprio nel senso di «unrestricted», «non limitato» in direzione dell’oggetto653.

Un possibile terzo riferimento al quarto canone epicureo potrebbe aversi all’altezza del verso 1080 sempre del II libro, qualora si scelga di ammettere l’emendazione proposta da Lipsius, il quale, correggendo indice mente con inice mentem, interpretò il passo come un’esortazione da parte di Lucrezio a considerare (nel senso di «rivolgere l’animo») anzitutto il mondo animale (In primis animalibus inice mentem).

Quanto traspare dai tre luoghi del De rerum natura appena esaminati, sembra evincersi altresì, seppur in assenza di riferimenti espliciti all’epibole (animi iniectus/iactus), da una

Diogene Laerzio (X 31), Epicuro nemmeno la annoverava tra i canoni del vero. Occorre, dunque, massima prudenza.

651 Cfr. Boyancé 1985, p. 150.

652 Si noti qui un’ulteriore variazione linguistica, da inectus a iactus: siamo certi che Lucrezio assuma i due

termini con il medesimo significato? Anche in questo caso è bene essere estremamente prudenti, dacchè, a nostro avviso, tale variazione terminologica va a complicare ancor di più la situazione delineata nella nota sopra (n. 650).

167

sezione del IV libro (versi 777-817) sulla quale vale la pena spendere qualche parola. Il contesto, in questo caso, è offerto dallo studio dei meccanismi che sottostanno al fenomeno del sogno. Le apparizioni dei sogni non sono immobili, ma compiono movenze in virtù della rapida successione di un enorme numero di immagini in un unico breve istante (768-776). Questa stessa idea riappare, seppur in una formulazione leggermente differente, alcuni versi più avanti, preceduta però questa volta dall’enunciazione di un’ulteriore problematica: «perché a chiunque venga il capriccio di qualcosa, d’un tratto gliene viene in mente l’idea?» (quod cuique libido / venerit, extemplo mens cogitet eius id ipsum) (779-780). La risposta di Lucrezio fa leva sul fatto che «in un singolo istante

che percepiamo [...] si celano numerosi attimi, di cui la ragione scopre l’esistenza» (794- 796)654. È per questo motivo, infatti, che simulacri tra loro differenti sono sempre e ovunque disponibili: «tale è la mobilità e così grande la quantità delle immagini» (799). La rapida successione e l’elevato numero di quest’ultime spiegano anche perché

...nisi quae contendit acute

cernere non potis est animus; proinde omnia quae sunt praeterea perunt, nisi <si ad> quae se ipse paravit.

«...la mente non riesce a scorgere con precisione / se non quelle cui si protende; perciò tutte le altre esistenti / si perdono eccettuate quelle a cui l’animo stesso si rivolge» (IV, 802- 804655).

Questa capacità della mente di concentrarsi e di selezionare un’immagine tra le moltissime in ogni istante a portata di mano richiama indubbiamente il criterio dell’epibole tes dianoias, anzi, potremmo dire che ne costituisce una descrizione assai perspicua. Significativa, inoltre, l’analogia costruita da Lucrezio tra il percepire della mente e il percepire degli occhi:

Nonne vides oculos etiam, cum tenvia quae sunt cernere coeperunt, contendere se atque parare, nec sine eo fieri posse ut cernamus acute?

«Non vedi che anche gli occhi, quando cominciano a fissare / oggetti di piccola misura, devono aguzzarsi con sforzo, / altrimenti non è data alcuna visione precisa?» (IV, 807-810).

654 Interessante chiedersi se i tempora multa riconosciuti dalla ratio e celati tempore in uno messi a tema

da Lucrezio in questi tre versi siano o meno da considerarsi dei minimi temporali. In merito, si veda Verde 2013°, in particolare pp. 119-120, n. 40.

655 Cfr. anche vv. 814-815: «Perché stupirsi dunque se la mente smarrisce ogni altra immagine, fatta

eccezione per quelle su cui si concentra?» (Cur igitur mirumst, animus si cetera perdit / praeterquam quibus

168

Al protendere dell’animus verso determinate immagini Lucrezio affianca l’aguzzarsi degli occhi e il posarsi dello sguardo su particolari oggetti del campo visuale, oggetti che, altrimenti, apparirebbero lontani e perdutamente remoti (811-813). L’idea che traspare da questi versi pare comprovare, a nostro avviso, quanto indicato (in maniera meno esplicita rispetto a quanto non accada in Lucrezio) da Epicuro in corrispondenza del paragrafo 38 dell’Epistola a Erodoto, ovvero che l’epibole può essere tanto del pensiero (epibole tes

dianoias), quanto di qualunque altro senso (epibole ton aistheterion).

Degni di nota, infine, i versi 816-817, dai quali possiamo ricavare elementi utili per tentare di disambiguare un’idea già presente, seppur in maniera piuttosto criptica, in Epicuro, concernente il rapporto tra l’epibole e l’errore. Scrive Lucrezio:

Deinde adopinamur de signis maxima parvis ac nos in fraudem induimus frustraminis ipsi.

«Poi da piccoli segni congetturiamo grandi sistemi, / e finiamo per involgere noi stessi nell’inganno dell’illusione» (IV 816-817).

Il latino adopinari corrisponde alla voce greca prosdoxazesthai, rintracciabile in Epicuro ai paragrafi 50 e 62 dell’Epistola a Erodoto. Il verbo utilizzato da Lucrezio, e non attestato altrove656, riunisce due termini presenti al verso 465 del IV libro, ossia opinatus e

addimus. Il riferimento è alla falsa interpretazione (prosdoxazomenon) operata dalla

mente sulle sensazioni. Ora, se invece di interpretare il deinde posto in apertura al verso 816 in senso temporale657, gli attribuiamo, come suggerito dalla traduzione di Ernout658, un’accezione logica, il significato del passo potrebbe essere il seguente: la falsa opinione che sovente la mente costruisce a partire da ciò che vede, è una prova dell’attenzione che essa ripone esclusivamente su di un esiguo dettaglio, a partire dal quale, attraverso il processo descritto in IV, 462-468, plasma, a poco a poco, un’idea totalmente falsa659. Di conseguenza, l’epibole, la «focalizzazione» della mente o, in generale, di uno degli organi sensoriali su di un determinato dettaglio, non è di per sé erronea; è l’interpretazione che l’intelletto elabora a partire da essa ad aprire le porte all’errore, finendo per «involgere noi stessi nell’inganno dell’illusione». L’epibole sta prima della falsa opinione, ed è proprio per questo motivo che essa rientra, a pieno titolo, tra quelli che abbiamo definito

656 Dionigi 1994, p.389.

657 Come propongono le traduzioni di Godwin (1986, p. 55) e Canali (Dionigi 1994, p. 389).

658 «Souvent encore sur de faibles indices nous imaginons les rêves les plus vastes, et nous sommes nous-