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La sottile compagine dei simulacri che colpiscono la mente

2. Dalla parte del soggetto: la fisiologia del criterio

2.5 La sottile compagine dei simulacri che colpiscono la mente

Altro significativo indizio del fatto che Epicuro molto probabilmente conosceva almeno in parte gli scritti di Aristotele, è la presenza del verbo proodopoiethenai nel passo del XXV libro del Peri Physeos sopra richiamato ([35.10] Arrighetti), hapax negli scritti del filosofo di Samo, ma presente nel De divinatione dello Stagirita (1, 463a 26). Aristotele se ne serve per indicare la via aperta che collega lo stato di veglia allo stato di sonno, via lungo la quale può verificarsi uno scambio reciproco tra movimenti percettivi diurni (che emigrano nei sogni) e movimenti immaginativi notturni (che finiscono per preparare la via all’attività diurna). Come segnalato da Masi, il ricorso al medesimo termine in un contesto altamente tecnico quale quello del XXV libro142 non può essere casuale, e conviene intenderlo come spia della familiarità di Epicuro con lo scritto di Aristotele, con la teoria dei sogni di quest’ultimo e con la polemica nei confronti di Democrito contenuta nell’opera143. Adottare questa linea interpretativa, favorevole ad ammettere una certa continuità tra Epicuro e Aristotele, si rivela vantaggioso specialmente in quanto consente di chiarire il quadro polemico all’interno del quale dovette avere origine una tra le dottrine più discusse dell’epicureismo, quella della maggior sottigliezza delle immagini mentali rispetto a quelle oculari144. Di questa dottrina, esplicitamente sottoscritta da Lucrezio, non v’è alcuna chiara affermazione negli scritti di Epicuro a noi sinora pervenuti. Ponendo però mente ad alcune riflessioni aristoteliche, non sarà difficile comprendere come, in realtà, essa risulti già di fatto dispiegata nel dettato del fondatore del Kepos.

Il passo del De divinatione in cui compare il verbo proodopoiethenai fa capo a un contesto polemico nei riguardi della teoria onirica di Democrito, il quale, al fine di negare l’origine divina dei sogni, affermava che le anime dei sognatori possono essere colpite

141Ibid.

142 L’idea, veicolata dal verbo proodopoiethenai, per cui i simulacri, tanto nella veglia, quanto nel sonno,

al fine di impressionare la mente debbano schiudere meati, e farsi strada rendendo la natura adeguatamente porosa al passaggio, è ripresa anche da Lucrezio (DRN IV 973-986) e da Diogene di Enoanda (fr. 9 II 9-IV 2 Smith).

143 Masi 2015, p. 123.

144 Per un’accurata ricostruzione di tale dottrina, si veda Masi 2015, studio che abbiamo assunto quale filo

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nel sonno da simulacri provenienti anche da considerevoli distanze (Div. Somn. 2, 464a 16-17). Di contro a tale spiegazione, Aristotele preferisce avvalorare l’ipotesi per cui a impattare le anime dei sognatori sono dei movimenti percettivi residuali dell’esperienza diurna, movimenti più piccoli di quelli generati dalla percezione, capaci tuttavia di provocare grandi effetti nel sonno (Div. Somn. 1, 463a 7-11 e 2, 464a 16-17). Tali

kineseis, cui si è accennato anche nella sezione precedente del nostro lavoro145, possono giungere a destinazione in maniera più o meno distorta a seconda del diverso grado di fluidità del mezzo attraverso cui viaggiano, ossia il sangue (Ins. 3, 460b 28-461b 7). Quest’idea, a ben vedere, non può che richiamare la soluzione indicata da Epicuro nel passo del XXV libro analizzato in precedenza ([35.10] Arrighetti)146, in cui si affermava che le immagini impressionano la mente in gradi diversi, mantenendo un’omogeneità di

schema, ma non di morphe, con i simulacri che penetrano gli occhi. È assai probabile,

inoltre, che proprio i concetti di synizesis e allelouchia, indagati nel primo capitolo di questa Parte Prima del nostro scritto, rappresentino, come già suggerito in precedenza, i dispositivi escogitati da Epicuro per giustificare il meccanismo in virtù del quale, pur attraversando zone ad elevata densità, quali quelle circondanti l’aggregato mentale, le immagini sono comunque in grado di preservare l’homoioschemia con gli steremnia di partenza. Questo, fra l’altro, contribuirebbe a chiarire e giustificare il dibattuto passaggio posto in chiusura di Hrdt. 49, in cui si legge che i simulacri che impattano gli occhi e la mente possiedono «una grandezza adatta alla vista e al pensiero».

L’interpretazione dell’adattabilità del simulacro alla grandezza dell’occhio e della mente nei termini di una riducibilità dello stesso147 trova conferma, almeno per quanto riguarda il versante della mente, in seno al dettato lucreziano, e, successivamente, nell’iscrizione di Enoanda. Entrambe le fonti, infatti, dichiarano esplicitamente che i simulacri che impattano la mente sono i medesimi che penetrano negli occhi, dotati però di una maggior sottigliezza. Nel IV libro del De rerum natura sono rintracciabili due chiari riferimenti alla maggior finezza della trama delle immagini che colpiscono l’animo, il primo in corrispondenza dei versi 728-731, il secondo all’altezza della sezione 752- 761. Nel primo passo, in riferimento ai simulacri che penetrano l’animo, Lucrezio afferma che:

Quippe etenim multo magis haec sunt tenvia textu

145 Cfr. Parte Prima, paragrafo 2.4.

146 Per il testo del passo, cfr. paragrafo 2.2 di questa Parte Prima.

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quam quae percipiunt oculos visumque lacessunt, corporis haec quoniam penetrant per rara cientque tenvem animi natura intus sensumque lacessunt.

«Invero tali simulacri sono d’una trama molto più sottile / di quelli che invadono gli occhi e stimolano la vista, / poiché penetrano attraverso le parti meno dense del corpo / e stimolano al suo interno la lievissima essenza dell’animo eccitandone il senso».

Questo, invece, il testo del secondo: Nunc igitur docui quoniam me forte leonum

cernere per simulacra, oculos quae cumque lacessunt, scire licet mentem simili ratione moveri

per simulacra leonum <et> cetera quae videt aeque nec minus atque oculi, nisi quod mage tenvia cernit. Nec ratione alia, cum somnus membra profudit, mens animi vigilat, nisi quod simulacra lacessunt haec eadem nostros animos quae cum vigilamus, usque adeo, certe ut videamur cernere eum quem rellicta vita iam mors et terra potitast.

«Or dunque ho spiegato che poiché io, ad esempio, un leone / scorgo ad opera dei simulacri, quelli che la vista percuotono, / sapere si deve che la mente similmente si muove / ad opera dei simulacri dei leoni e del resto di ciò che vede né più / né meno degli occhi, se non che li scorge più tenui. / Né diversamente, quando il sonno le membra fece riposar, / la mente dell’animo è sveglia, soltanto perché questi medesimi simulacri percuotono i nostri animi come quando siamo svegli, / al punto che, in modo sicuro, ci sembra di scorger colui di cui, / abbandonata la vita, la morte e la terra sono già in possesso».

Coerentemente con quanto già indicato dal Maestro, Lucrezio afferma esplicitamente che il motivo per cui le immagini che penetrano nella mente presentano una trama particolarmente sottile va ricercato nella marcata tortuosità del tragitto che esse si trovano a dover percorrere, affine a quell’iter flexum che certi tipi di emanazioni (quali odori, vapori, profumi, ecc...) devono intraprendere al fine di raggiungere la superficie dei corpi (DRN IV, 90-94)148. Lungo questo percorso che separa gli occhi dalla mente i simulacri subiscono inevitabilmente un processo di rarefazione o assottigliamento (ossia un’alterazione della loro morphe), riuscendo comunque, grazie a determinate

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caratteristiche e potenzialità proprie della loro compagine, a conservare una figura omogenea a quella delle immagini che attraversano gli occhi149.

Tornando ora alla questione iniziale, ossia al probabile legame tra dettato aristotelico ed epicureo, sembra lecito ipotizzare che la dottrina della maggior sottigliezza dei simulacri mentali, esplicitamente restituitaci dal De rerum natura e basata su di un meccanismo di assottigliamento già delineato negli scritti di Epicuro, sia stata concepita dal Kepos come un tentativo di “aggiustamento” della teoria onirica di Democrito150. Riflettendo, da ultimo, sul perché della non esplicita affermazione della dottrina nei testi di Epicuro di cui disponiamo, specie nella Lettera a Erodoto, sembra opportuno porre mente ad almeno tre spiegazioni plausibili151. La prima consiste nel ritenere che l’assenza della dottrina dall’Epistola a Erodoto derivi dalla natura compendiaria di quest’ultima, nella quale, tuttavia, non mancano allusioni a una capacità di progressiva riduzione dei simulacri lungo il percorso che, dall’oggetto solido, conduce all’organo di senso (Hrdt. 49-50)152. La seconda, invece, suscettibile di integrazione con la prima, fonda l’esclusione della dottrina dall’Epistola a Erodoto sul fatto che, al tempo della stesura della lettera, la bipartizione dell’anima (tanto topografica, quanto funzionale), che Lucrezio connette alla dottrina dell’assottigliamento, non era stata ancora formulata da Epicuro. La terza ipotesi, infine, consiste nel congetturare che la dottrina fosse esplicitamente affermata in una sezione del Peri Physeos a noi non pervenuta.

149 Questa linea di lettura, avallata da Masi (2015), ha tuttavia destato alcune perplessità in Asmis, la quale,

in occasione della sua recensione a Masi-Maso 2015, si è chiesta come sia possibile considerare plausibile l’ipotesi per cui «the altered eidola should «cohere» throughout their journey, so as to retain their correspondence to the external solid» (Asmis 2016a, pp. 94-95). Tale obiezione non tiene però conto, a nostro avviso, dell’efficacia di quel dispositivo delineato da Epicuro nel II libro del Per Physeos che va sotto il nome di allelouchia, il quale ha proprio lo scopo di consentire alla compagine atomica dei simulacri di rimanere salda e coesa nonostante i molteplici (e sovente assai tortuosi) spostamenti a cui risulta inevitabilmente sottoposta.

150 Masi 2015, pp. 123-124. Secondo la studiosa, il processo di assottigliamento delle immagini mentali,

così come teorizzato dalla scuola epicurea, fu originariamente escogitato e introdotto allo scopo di giustificare: 1) in che modo la mente possa essere interessata dagli stessi simulacri che penetrano negli occhi, benché quest’ultimi siano chiusi e il cammino da percorrere sia assai tortuoso; 2) il fatto che non tutti i residui percettivi riescono sempre a impressionare l’animo in maniera vivida e veridica, specie durante il sonno (Ivi, p. 124).

151 Cfr. ivi, p. 131.

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