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Il contesto di applicazione del metodo e la polemica antistoica

L’epistemologia epicurea in Lucrezio

1. Regula prima, norma e libella: la canonica nel De rerum natura

3.1 Il contesto di applicazione del metodo e la polemica antistoica

Per comprendere come si inserisca, all’interno dell’opera lucreziana, il ricorso al metodo delle molteplici spiegazioni epicureo, occorre soffermarsi brevemente su alcuni aspetti dei due libri dell’opera in cui esso viene chiamato in causa, ovvero il V e il VI. I due libri, fa osservare Boyancé, sono dominati dall’idea della mortalità del mondo665, che si impone in maniera preponderante sin dal primo dei due libri, attraverso l’apocalittica dichiarazione per cui

una dies dabit exitio, multosque per annos sustentata ruet moles et machina mundi.

«...un solo giorno / porterà la catastrofe e, durate per tanti anni, / la mole e la macchina del mondo crolleranno di colpo» (V, 95-96).

663 In questo senso, ci muoveremo in direzione opposta alla posizione adottata da Sedley 1998 e Bakker

2016.

664 Verde 2013c, p. 139. 665 Boyancé 1985, p. 225.

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Tale questione, avverte Lucrezio, verrà affrontata attraverso «discorsi rasserenanti fondati sulla scienza» (V, 113), cosicché ci si convinca che la tesi dalla mortalità del mondo non è affatto empia e, di conseguenza, ben lontana dal poter scaturire l’ira degli dèi. L’obiettivo polemico del poeta latino sembrano essere qui tutte quelle posizioni filosofiche che legavano l’eternità del cosmo alla sfera della religione e del divino. Nel mirino ritroviamo sin da subito (e in particolar modo) la teoria degli astri divini (114- 116), dottrina che rinvia alla religione astrale professata da Platone, specialmente nel

Timeo e nelle Leggi, dall’autore dell’Epinomide (chiunque esso sia), dal primo Aristotele

e dagli Stoici666. Si è a lungo discusso, anche in relazione a tale tematica, sull’identità degli avversari effettivamente combattuti da Lucrezio. Sulla base di un resoconto ciceroniano presente nel II libro del De natura deorum, che ascrive la pratica del culto astrale allo Stoicismo, si è pensato che il bersaglio del poeta fosse anzitutto la dottrina stoica, da Zenone a Posidonio. Diversamente, alcuni commentatori, tra i quali ricordiamo Bignone667, hanno sostenuto che Lucrezio, limitandosi a riprendere la polemica di Epicuro, si sarebbe rivolto alle opere di Platone sopra citate e, soprattutto, al primo Aristotele, ovvero all’Aristotele dei dialoghi perduti, in primis il De philosophia. In linea con la seconda delle ipotesi riportate si è mosso Devid Sedley, che ha ritenuto di poter estrapolare proprio da questa prima parte del V libro un ulteriore elemento a favore del suo Lucrezio “fondamentalista”668. Al fine di soppesare la presenza, nel De

rerum natura, di un effettivo dialogo tra Lucrezio e la scuola stoica, lo studioso richiama

l’attenzione sulla figura di Posidonio di Apamea (135-50 a.C.), detto l’“Atleta”, considerato il più grande filosofo della sua epoca, del quale il Balbo del II libro del De

natura deorum costituisce verosimilmente il portavoce. Posidonio, in particolar modo,

fu certamente uno tra i maggiori cosmologi che la tradizione stoica abbia mai avuto669; attraverso la testimonianza ciceroniana sappiamo che egli argomentava a favore della struttura provvidenziale tipicamente stoica del cosmo, di contro alla mossa epicurea di individuare nel mero accidente la causa dell’origine dell’universo670. Ora, come si spiega la totale mancanza di interesse di Lucrezio verso qualunque forma di risposta alla sfida,

666 In merito, rimandiamo a Festugière 1949. 667 Bignone 1973, vol. II, pp. 103-187. 668 Sedley 1998, pp. 82-85.

669 Accanto a Posidonio, e quasi sicuramente a lui posteriore, vi è almeno un altro astronomo e matematico

stoico che merita di essere ricordato, Cleomede, del quale ci è pervenuta una sola opera, il De motu Circulari Corporum Caelestium (edita con il titolo Caelestia). Essa riprende esplicitamente le dottrine di

Posidonio, a tal punto da esser stata utilizzata per ricostruire il pensiero astronomico di quest’ultimo.

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a lui contemporanea, lanciata da Posidonio alla filosofia del Kepos? Tale mancanza, a detta di Sedley, sarebbe ricavabile da due importanti indizi. Il primo è l’assenza di ogni preoccupazione, da parte di Lucrezio, per la questione della macchine astronomiche. Come ricordato nella sezione 3.1 della Parte Seconda del nostro lavoro, Epicuro, nel paragrafo 93 dell’Epistola a Pitocle, alludeva criticamente agli organa architettati dalla scuola di Eudosso di Cnido, richiamando la polemica presente in Nat. XI, [26.30] Arrighetti. In quel luogo, l’astronomo veniva criticato da Epicuro in quanto tentava di studiare le regolarità dei moti astrali ricorrendo alla costruzione di strumenti meccanici che ne riproducessero le orbite, dando luogo a un modus operandi successivamente difeso e promosso dall’insegnamento di Posidonio671. Ora, tra i materiali dell’XI libro del Peri

Physeos utilizzati da Lucrezio per la stesura del V libro del suo poema, spiega Sedley,

risulta chiaramente omessa l’intera critica nei riguardi delle macchine astronomiche, il che rende ancor più difficile ipotizzare una qualche forma di dialettica tra i versi del poeta e l’insegnamento della scuola stoica a lui coeva672. Il secondo indizio, invece, fa capo alla questione della grandezza del sole e degli altri corpi celesti, che, secondo Epicuro, andava considerata «uguale a come appare» (Pyth. 91), probabilmente allo scopo di rendere immuni gli astri dalle consuete leggi dell’ottica, rendendo inutili gli sforzi operati dagli astronomi di tracciare e misurare le loro orbite. Fu verosimilmente in virtù di questa motivazione ideologica che Epicuro, secondo Sedley, affermò la sua opinione sulla dimensione dei corpi celesti in apertura al suo studio dei moti astrali673. Lucrezio, da parte sua, discostandosi dall’ordine seguito dal Maestro, sceglie di spostare l’argomento in una posizione di minor preminenza, ossia dopo la sua digressione sull’astronomia epicurea674. Dato, quest’ultimo, che conferma ulteriormente il disinteresse del poeta a opporre l’approccio matematico all’astronomia, contribuendo a rendere ancor più improbabile l’ipotesi della presenza, nel De rerum natura, di una qualche risposta alla sfida messa in campo, nella prima metà del I secolo a.C., dalla cosmologia stoica di Posidonio675. Conclude Sedley:

671 Cic., Nat. deor. II, 88. Cfr. Sedley, pp. 82-83.

672 Sedley 1998, p. 83. Sarebbe interessante indagare (operazione che in questa sede, per evidenti ragioni

di spazio, non ci è possibile portare a termine) la ragione per cui, benché menzionata dallo stesso Epicuro, Lucrezio non alluda minimamente alla polemica contro gli organa di Eudosso di Cnido.

673Ibid. 674Ibid. 675Ibid.

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«Lucretius appears blissfully unaware of the entire debate raging around him. At no point is his defence of the Epicurean tenet adjusted to resist any known element in the Stoic critique, and he makes no use of the new generation of Epicurean counter-arguments preserved by Philodemus676. That would be most surprising either if he had had a serious interest in

combating contemporary Stoic cosmology, or if, as often assumed, he had enjoyed significant philosophical interaction with the Epicurean school of Philodemus»677.

Altro dato rilevante, secondo Sedley, è l’assenza di qualunque allusione, nel poema lucreziano, a teorie scientifiche e astronomiche più recenti del III sec. a.C quali quelle formulate da Aristarco, Archimede, Eratostene o Ipparco678. Il riferimento alla «teoria babilonica dei Caldei» presente al verso 727 del V libro, teoria alla quale Lucrezio riconosce il merito di aver formulato una giustificazione plausibile del fenomeno delle fasi lunari, rappresenterebbe invece un chiaro rimando all’astronomo e astrologo babilonese Beroso, che di suddetta dottrina dovette essere l’autore. Stando a Sedley, Beroso fu la figura più recente cui il poeta latino dovette ispirarsi, e non v’è ragione di pensare che la teoria da lui elaborate in merito alla luna non potesse esser già nota a Epicuro sul finire del IV secolo679. È bene tuttavia far presente che, secondo alcuni, l’introduzione della teoria di Beroso in Occidente sarebbe dovuta proprio alla figura di Posidonio, il che porterebbe a escludere che essa potesse risultare già menzionata in qualcuno degli scritti di Epicuro.

Come che sia la questione, ciò su cui Lucrezio intende porre l’accento è il fatto che in realtà i corpi celesti «sono così lontani dal nume divino e così indegni di essere annoverati tra gli dèi», da risultare piuttosto atti a offrirci l’idea di un corpo privo di vita e sensibilità (V, 122-125). Il problema è che «le genti mortali», oltre a crearsi un’idea errata della natura degli dèi, finiscono per ascrivere a essi compiti che non gli competono affatto e, ponendo in cielo la loro sede e la loro dimora, si ostinano ad assegnar loro «effetti» (facta) quali i moti astrali, le piogge, i fulmini, i rombi improvvisi, ecc. (1169-1195). Questa confusione tra il divino e i fenomeni celesti si è tramutata, a poco a poco, in una forma di pratica cultuale assolutamente deleteria e nefasta, contraddistinta dalla superstizione,

676 Nel suo De signis Filodemo riporta infatti le controargomentazioni epicuree ad alcune obiezioni stoiche

formulate sul finire del II sec. a.C., le quali criticavano la posizione epicurea affermando che essa finiva per violare il presupposto stesso su cui si fondava il ragionamento per analogia con oggetti disponibili ai sensi promosso dal Kepos. Dei vari controargomenti (escogitati per esempio da Zenone di Sidone) riferiti dallo scritto filodemeo pare però non esservi traccia nel De reum natura di Lucrezio. Cfr. Sedley 1998, p. 84.

677 Ivi, pp. 83-84. 678 Ivi, p. 91. 679Ibid.

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nella quale Lucrezio individua la fonte principale del timore negli dèi (1196-1202). La

religio, del resto, non è che una deriva inevitabile dell’ignoranza; «ignorare le cause

assilla le menti dubbiose» (Temptat enim dubiam mentem rationis egestas) (1211)680, laddove una devozione (pietas) autentica consiste proprio nel «poter guardare tutto con mente serena» (mage pacata posse omnia mente tueri) (1203). Riuscire a spiegare i fenomeni celesti senza il ricorso all’intervento divino permette, perciò, di liberare l’uomo dal timore degli dèi:

Hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest non radii solis nec lucida tela diei

discutiat, sed naturae species ratioque.

«Questo terrore dell’animo, dunque, e queste tenebre occorre / che siano dissipate non dai raggi del sole o dai lucenti / dardi del giorno, ma dalla visione della scienza della natura» (VI, 39-41).

Ora, i fenomeni celesti, come prospettato dallo stesso Epicuro, si dividono in fenomeni astronomici, che sono quelli, già parzialmente esaminati, trattati nel V libro (509-770), e fatti meteorologici, al cui studio è dedicata buona parte dell’ultimo canto dell’opera. Proprio al fine di render conto di entrambe le classi di fenomeni, abdicando alla necessità dell’appello al elemento divino, Lucrezio fa intervenire il metodo delle molteplici spiegazioni, i cui principi, come avremo modo di accertare nel paragrafo che segue, si ritrovano delineati tanto nel V che nel VI libro.