Lo stesso procedimento di spazializzazione che Giovanni Battista aveva escogitato per trasformare le narrazioni dei suoi viaggiatori in una vera propria mappatura del mondo si realizza vistosamente anche nella Guerra, dove l’inserimento nel corpo della narrazione di una sessantina di medaglioni descrittivi, dedicati soprattutto a località, ma talvolta anche a regioni geografiche o a singoli monumenti cittadini, non si fa scrupoli talvolta a interrompere bruscamente lo svolgimento dell’azione drammatica. Di lunghezza molto variabile, questi medaglioni sono ben riconoscibili per le forme ricorrenti con cui vengono introdotti («è questa città», «è questo castello») e per la loro frequente segnalazione nelle rubriche apposte a margine del testo («descrittione dell’isola di Candia», «Coranto e suo sito»).
L’operazione corografica è chiaramente bipartita, determinata nei primi tre libri dall’asse lineare e unidirezionale della navigazione da Venezia a Costantinopoli, negli altri tre da un movimento centrifugo dalla capitale imperiale verso le province della Romania, della Grecia e dell’Asia minore, rispecchiando il passaggio dell’impresa da una dinamica offensiva a un atteggiamento difensivo127. Nel primo caso, grazie alla tesi di Villehardouin sul significato provvidenziale della diversione della crociata (la quale «fece che una pietà ad un’altra pietà succedesse»)128, la spazializzazione dell’itinerario contribuisce attraverso importanti argomenti storici a fissarlo nell’immaginario veneziano quale ramificazione naturale della Repubblica verso l’Oriente. In questo senso l’operazione si inserisce a pieno titolo in quel filone culturale veneziano che attraversa vari generi e che fa sì che questo viaggio, carico di significati simbolici, costituisca non solo luogo di pratiche commerciali e diplomatiche, ma anche spazio
126 Ivi, p. 81.
127 Marin, S., A Humanistic Vision, cit., p. 56.
geografico privilegiato di umanisti e cartografi, venendo a essere nel Rinascimento l’itinerario più narrato e descritto dagli occidentali, superiore per quantità persino alla tradizionale letteratura di pellegrinaggio. A mostrare come la trentina di medaglioni che costellano la prima parte della Guerra e accompagnano il lettore dalla basilica di S. Marco fino ai monumenti e ai dintorni di Costantinopoli129, abbiano per la loro esacerbata natura spaziale un effetto di demolizione rispetto ai luoghi del racconto, basti l’esempio della meraviglia provata da Villehardouin di fronte alle mura della città di Zara, così restituita nel testo tradotto da Giovanni Battista Ramusio:
La vigilia di San Martin vennero davanti Zara, in Schiavonia, e videro la terra serrata d’alti muri, e alte torre, che non potreste desiderar la più bella, né la più forte, né la più ricca. E quando i peregrini la videro, i se maravigliorno, e dicevano l’uno all’altro, come potrà esser presa mai questa terra per forza s’Iddio medesimo no’l fa130.
Se nella Guerra la più complessa resa formale del passo attutisce di molto l’originario effetto di sorpresa, questo viene completamente oscurato dalla digressione geografica che segue immediatamente dopo:
passato il golfo del Quarnero fecero vela alla volta di Zara, nel porto della quale sendo gionti a’ dieci di novembre la vigilia di S. Martino, la trovarono presidiata di cavalleria mandata dal re d’Ongaria, e di mura, e di torri più forti che non si era imaginato. I capitani, e gli altri soldati, prattichi della guerra discorrendo fra sé e ragionando dicevano esser impossibile l’espugnarla e pigliarla con altre forze e con altro aiuto, che con quello di Dio. È questa città nella Dalmazia, ricca e potente d’uomini e di cavalli, colonia già del popolo romano, edificata diciotto miglia lontano dall’antica Zara, di cui si veggono ancora le vestigie in pezzi di muraglia su’l lito, discosto da Venezia dugento. Quei, che per l’Adriatico navigano verso il mare Ionio, l’hanno
129 Chiesa di S. Marco a Venezia (ivi, p. 11); Cistercio (p. 17); Zara (p. 28); Lucedio (p. 33); Durazzo (p. 39); Corfù (p. 40); le terre d’origine dei crociati (p. 43); Capo Malio (p. 43); Negroponte (p. 43); Gallipoli e Abido (p. 44); le isole della Propontide (p. 46); Calcidonia (pp. 46-47); Bosforo (p. 47); Scutari (p. 47); il sito di Costantinopoli (p. 48); il Corno d’Oro e Pera (p. 49); il golfo di Pera, il Bosforo e la Torre di Pera (p. 54); la chiesa dei SS. Cosma e Damiano a Costantinopoli (p. 56); le mura e le porte di Costantinopoli (p. 56); il palazzo di Blacherna (p. 57); la chiesa di S. Sofia a Costantinopoli (p. 66); la Valacchia e la Bulgaria (pp. 71-72); il mar Maggiore e suoi liti (p. 81); Filen (p. 81); il palazzo di Boccalone (pp. 103-104); Andrinopoli (p. 108); Salonicco (p. 115).
130 Villehardouin, G. de, Storia della Conquista di Costantinopoli, cit., cc. 8r-8v. «La veille de la sain Martin vindrent devant Jadres en Slavonie et virent la cité fermee de halz murs et de haltes torz, et por noïent demandesiez plus bele ne plus fort ne plus riche. Et quant li pelerin la virent, il se merveillerent mult et distrent li un as autres: “Coment porroit estre prise tel ville par force, se Diex meïsmes nel fait?”» (Faral, I, p. 78).
dalla man sinistra: ha da Settentrione il porto e dall’altre parti il mare tutto pieno di scogli, fuorché da quella banda, dove si leva l’inverno il sole, che vi ha la strada; onde si và in terra ferma131.
Altrove, mentre a Villehardouin basta dire che la sede imperiale di Calcedonia (Kadikoi) è situata sulla riva destra del Bosforo(«il palazzo dell’Imperatore Alessio, ch’era chiamato Calcedonia, ch’è all’incontro di Costantinopoli dall’altra parte del braccio, verso la Turchia»)132, Paolo sente invece il dovere di abbozzare una sorta di mappa dell’intera area:
entrarono nel porto di Calcedonia, sito assai dilettevole, presso al palazzo del tiranno Alessio, detto Calcedonio, e posto su’l lito dell’Asia, a canto al Bosforo dirimpetto a Costantinopoli in quella parte, dove l’istesso Bosforo, passando per un canale di lunghezza di due miglia incirca, ch’è tra Costantinopoli e Calcedonia, entra nella Propontide133.
L’operazione si fa ben più complessa nel caso di Costantinopoli, meta del desiderio, utopia politica dell’impero che veniva a sostituire quella religiosa della terra promessa, ancora viva per Villehardouin e che non scompariva del tutto neanche dal testo di Paolo134. Che il momento topico per eccellenza di questo viaggio, il momento anzi eterotopico, in cui l’utopia irrompe nel vissuto materiale e contingente del pellegrino, il momento cioè dell’arrivo nella capitale, sia non solo una costante della letteratura di viaggio a Costantinopoli dal Rinascimento ma oggi, ma risalga a un’epoca ben precedente, è provato da uno dei più bei passi di Villehardouin:
Allora si partirono dal porto d’Abido tutti insieme, e potresti veder fiorito il brazzo di San Zorzi all’insuso di navi, di galee, di ussieri, che era una gran maraviglia a vedere questa bellezza, e così navigorno all’insuso del brazzo di san Zorzi tanto che vennero a S. Stefano, che è una badia tre leghe lontana da Costantinopoli e allora discopersero tutto Costantinopoli, quelli delle navi delle galee, di ussieri, presero porto e sorgettero con li loro vasselli. Or potete saper che molto
131 Ramusio, P., Della guerra di Costantinopoli, cit., pp. 28-29.
132 Villehardouin, G. de, Storia della Conquista di Costantinopoli, cit., c. 14v; «un palais l’empereor Alexi dont li leus estoit appellez Calchidoines, et fu endroit Costantinople, d’autre parte l braz, devers la Turquie» (Faral, I, p. 134).
133 Ramusio, P., Della guerra di Costantinopoli, cit., p. 46.
134 «Havendo Dio fra tutte le provincie del mondo, quella sola di Gierusalemme, che per testimonio del medesmo Dio corre di latte e di mele, promessa mille volte a gli antichi padri, e lasciatala per testamento a’ quei che l’adorassero; onde grandissima indignità è per certo, che ella sia posseduta da gli empii nemici del nome cristiano» (ivi, p. 5).
guardavano Constantinopoli quelli che mai non l’aveano veduto, e non potevano pensar che già si ricca terra potesse esser in tutto il mondo, quando i videro quelli alti muri, quelle ricche torri, delli quali l’era cinta d’ogni intorno, e quelli ricchi palazzi, e quelle alte chiese, delle quali ve n’erano tante che niuno il potria creder, chi non vedesse con l’occhio la lunghezza, e la larghezza della città, che avanza tutte le altre. E sappiate che non vi era uomo così ardito a chi non tremasse il cuore, e questo non deve esser già maraviglia, che mai sì grande impresa non fu tolta contra tanta gente, dapoi che fu fatto il mondo135.
Paolo come al solito cerca anche qui di abbellire la prosa del cronista rallentandola e farcendola di notizie, ma l’esito della parafrasi in questo caso penalizza meno che altrove l’impatto emotivo dello spettacolo e l’enumerazione delle incomparabili meraviglie non soffoca la narrazione ma anzi finisce per esaltare la potenza della visione e del vasto panorama che essa abbraccia, secondo la felice immagine di Costantinopoli «mondo del mondo»136:
presero risoluzione di smontar sei miglia lungi dalla città in un borgo, circondato di mura assai alte, simile ad un piccol Castello, che da un nobil tempio dedicato al nome di santo Stefano hà preso il nome di Abbazia di S. Stefano: da questa ch’è posta su’l lito della Romania presso alla stessa Propontide, si scopre in grande eminenzia tutta la città di Costantinopoli, situata in parte sopra sette colli. Onde la sua prospettiva porgeva diletto grandissimo, essendo per natura, per sito, e per magnificenza di fabriche la più nobile, e la più potente di tutte le altre, come quella, che era tenuta madre delle città dell’Imperio. Quei ch’avevano o letto, o sentito parlar da diversi, dell’antichità, della richezza, e della bellezza di essa, vedendola giudicavano la fama molto minor della verità Si stupivano dell’altezza, e della forma delle muraglia, e delle torri, che d’ogni intorno a guisa di Roma vecchia la cingono: e vedendo le Colonne, le Guglie, gl’Archi, i Cerchi, chiamati da’ Greci ippodromi, gli acquedotti, un gran numero di tempij, e in particolare quello di S. Sofia, edificato già da Giustiniano, mirabile non solamente per la grandezza, ma molto più per
135 Villehardouin, G. de, Storia della Conquista di Costantinopoli, cit., cc. 13v-14r; «Lors se partirent del port d’Avie tuit ensemble, si peüssiez veoir flori le braz Sain Jorge contremont de nés et de galies et de uissiers, et mult grant mervoille ere la bialtez a regarder. Et ensi corurent contrenont le braz Sain Jorge, tant que il vindrent a Saint Astiene, a une abbaïe qui ere a trois lieues de Costantinople. Et lors virent tout a plain Costantinople cil des nés et des galies et des uissiers, pristrent porte et aancrèrent lor vaissiaus. Or poez savoir que mult grant esgarderent Costantinople cil qui onques mais ne l’avoient veüe; que il ne pooient mie cuidier que si riche ville peüst estre en tot le monde, cum il virent ces halz murs et ces riches tours, dont ele ere close tot entor a la reonde, et ces riches palais, et ces haltes yglises, dont il i avoit tant que nuls nel poïst croire se il ne le veïst a l’oil, et le lonc et le lé de la ville, qui de totes les autres ere soveraine. Et sachiez que il n’i ot si hardi cui la car ne fremist; et ce ne fu mie mervoille, que onques si grant affaires ne fu empris de tant de gent puis que li moz fu estorez» (Faral, I, pp. 128-130).
136 Immagine, come si vedrà nel prossimo capitolo, riutilizzata da Tommaso Porcacchi nel suo isolario e dovuta all’umanista Celio Rodigino (Ludovico Ricchieri).
l’altissime cupole, coperte tutte di piombo, ch’avvanzavano tutti gl’altri edificij della Città, e tanto nunero di Palazzi, terme, di chiese principali, d’ospitali, quanto difficilmente potrebbe credersi da chi non gli havesse veduti; tutte queste cose raccontamo, perche non si potevano saziar di guardarle. Et chiamavano Costantinopoli non Bizantio di Pausania, non città di Costantino: ma mondo del mondo. Alla vista di Città così grande, cominciò ad alcuni soldati di non poca stima à battere il cuore à guisa di lepri, né senza cagione, percioché da gl’antichi, infino à qual tempo non era stata fatta guerra, né maggiore né più difficile, né più pericolosa di quella137.
Ripreso fiato dopo lo shock emotivo, può seguire qualche pagina più in là la minuziosa ed estesa ricognizione spaziale della città, della sua forma, dimensione, ampiezza («Ma perché da qui innanzi ci bisognerà fare spesse volte menzione di Costantinopoli, non sarà fuor di proposito il dire alcune cose del sito e della grandezza di tanta città […] E’ questa città da tre parti bagnata dal mare; da Settentrione ha un seno […]»)138, ricognizione completata da numerosi corollari dedicati a particolari monumenti della capitale (le chiese di S. Sofia e dei SS. Cosma e Damiano, il palazzo di Blacherna) o a specifiche località degli immediati dintorni (Pera, Scutari).
Ai rapidi e isolati quadri che scandivano il viaggio e a questa poderosa presa di possesso topografica della città che ne accompagnava la conquista militare, la serie dei medaglioni descrittivi che punteggia la seconda parte dell’opera è sia distribuita in maniera più regolare139 sia di maggiore interesse per gli studiosi e gli eruditi140. Dal primo punto di vista l’illustrazione geografica della partitio terrarum consente qui un’esplorazione più omogenea dei territori, mentre i sempre diversi obiettivi delle spedizioni militari permettono un’ulteriore osservazione delle province e dei suoi centri
137 Ramusio, P., Della guerra di Costantinopoli, cit., p. 45.
138 Ivi, p. 48.
139 In ordine: l’isola di Metellino (ivi, p. 120); l’isola di Lenno (p. 120); l’isola di Sciro (p. 120); l’isola di Scio (p. 120); Nicea (p. 125); Spigal (p. 127); la colonna istoriata di Costantinopoli (p. 128); Nicomedia (p. 129); Filadelfia (p. 130); Andremita (p. 133); Napoli di Romania (p. 134); la Morea a la Romania (p. 135); Modone (p. 136); Corone (p. 136); Calamata (p. 136); Corinto (p. 137); Arcadiopoli (p. 141); Nequise (p. 142); Rodostò (p. 154); Silivrea (p. 157); Napoli di Romania (p. 160); La Serra (p. 161); Filippopoli (p. 163); Stanemac (p. 164); chiesa della Madonna di Blacherna (p. 168); Eraclea già Perinto (p. 169); Atira (p. 170); La Terma (p. 181); Esquise (p. 182); Nicomedia (p. 182); Dramina e Filippi (p.183); Chivetot (p. 184); Marmora (p. 189); le catene montuose dalle Alpi Pennine fino alla Romania (pp. 193-194); Monte Hemo (p. 194); Cipsella (p. 195); Messinopoli (p. 196); Candia (pp. 202-204); la cappella veneziana di S. Nicolò a Palazzo Ducale (p. 205).
140 Per esempio la collazione delle carte di Fortunato Olmo con la Guerra dimostra come l’abate faccia tesoro dei nomi delle località della spartizione citati da Paolo (Carile, A., La Partitio terrarum, cit., p. 177n).
d’interesse, inframmezzata da regolari ritorni a Costantinopoli, dove emergenze monumentali in precedenza tralasciate forniscono al commentatore nuovo materiale descrittivo. Tuttavia per esigenze di simmetria e di strategia celebrativa, come la prima anche questa seconda parte pone ai propri estremi gli elementi fondamentali del discorso ideologico che conduce e il cui disegno è visibilmente chiastico: ai primi tre libri aperti da Venezia e chiusi da Costantinopoli, rispondono specularmente gli altri tre, che al principio offrono un quadro geografico dell’impero latino e nel finale un’esposizione di quello dell’impero marittimo veneziano originato dal primo. Dopo aver trattato la morte di Bonifacio di Monferrato, che concludeva la Conquista, nelle ultime sei pagine della Guerra, Paolo si applica infatti con impegno a celebrare le successive imprese militari attraverso cui la Repubblica prendeva possesso dei propri feudi, dall’occupazione di Negroponte all’acquisto di Andro e molte altre isole dell’Arcipelago, dalla vittoria sui corsari insediatisi a Corfù alla sua colonizzazione veneziana, dalla presa delle città greche di Modone e Corone fino alla confezione della più estesa, dopo quella di Costantinopoli, delle descrizioni geografiche incluse nel libro, ovvero quella dell’isola di Candia, articolata in varie parti (grandezza, forma, promontori, città, montagne, flora, fauna, storia antica e recente), delle quali l’ultima, relativa al popolamento veneziano e all’edificazione di nuovi edifici religiosi da parte del doge Ziani, permette all’autore di concludere finalmente con l’immagine già evocata degli antichi affreschi della cappella di S. Nicolò.
Dal secondo punto vista, l’interesse teorico e storiografico di questa seconda parte deriva anch’essa da esigenze di simmetria compositiva, e cioè dalla presenza in apertura di una lunga e densa riflessione sul rapporto fra storia, territorio e geografia, alla fine della quale lo stesso Paolo confessa di accorgersi «aver fatto quasi un nuovo proemio»141. I rivolgimenti che caratterizzano tanto la storia naturale (i terremoti, gli incendi, le carestie) quanto il corso ineguale delle vicende umane (l’ascesa e la caduta degli imperi, le invasioni, le guerre), dice l’autore, producono i loro effetti non solo sul paesaggio (in questo caso la rovina della Grecia, la scomparsa di antiche città, l’edificazione di nuove) ma anche sulle nostre conoscenze geografiche, legate a trasmissioni testuali soggette nel tempo a corruzione, abbandono o addirittura
scomparsa. L’effetto raggiunge il grado massimo nella confusione e nella mutazione dei nomi, come è possibile apprezzare nel caso di una terra travagliata dagli eventi come la Grecia e pone non poche difficoltà a un’opera come la Guerra, che si muove su piani temporali discontinui e non può accontentarsi di un quadro d’analisi sincronico. In quanto ricostruzione filologica di una vicenda medievale la Guerra esige anzitutto una fedeltà assoluta alle fonti documentarie per tutto ciò che concerne i fatti narrati dal cronista; in quanto prodotto umanistico di un appassionato antichista, non può tuttavia ignorare l’abbondante materiale geografico relativo alla Grecia e all’Asia minore consegnato dalla classicità; infine, in quanto parte integrante di un programma ideologico celebrativo della Repubblica, deve realizzare il proprio potenziale strategico nel presente, attualizzando, soprattutto nel caso dei possedimenti veneziani, la geografia di quegli stessi territori. Come Paolo stesso tiene a dichiarare, la sua scelta è dunque rigorosa nel momento in cui affronta gli eventi narrati da Villehardouin, nel rispettare i nomi delle località registrati nei documenti d’archivio, ma si fa più elastica nell’aggiungere dove opportunamente richiesto dalle necessità descrittive toponimi antichi e moderni, veneziani e stranieri142. Questa possibilità di «mescolare alle volte i nuovi co’ vecchi, e i nostri con gli stranieri»143 ha la conseguenza fondamentale di appianare, grazie all’omogeneità della logica cartografica, sia le asperità del processo storico sia i dislivelli temporali fra i testi che questo processo ci restituiscono. Questa logica di spazializzazione permette inoltre non solo di propugnare l’identità fra mappa e territorio (Paolo «cercando d’applicare e accomodare i nomi antichi alle cose e a luoghi, come se fossero nati con essi»)144 ma finanche di abolire, a favore dello spazio, ogni distanza temporale, secondo un procedimento di detemporalizazzione che si vuole tuttavia compatibile e confacente alle esigenze narrative della rappresentazione storiografica, nelle cui finalità mimetiche trova anzi la propria giustificazione teorica:
Imperoché, sì come l’istoria il più delle volte rappresenta nell’animo, come fresche le cose già di molto tempo passate, né mai è si nuda e sì semplice, che non faccia spesso menzione di terre, di regioni, di re e di popoli: così ricerca il dovere, che nell’intendere la distribuzione delle città dell’imperio fra i francesi e fra i veneziani, mettiamo quasi dinanzi agli occhi, tutti i luoghi
142 Ivi, p. 118.
143 Ivi, p. 119.
antichi, se ben distrutti e estinti, non altrimente, che se fossero ancora al presente in essere e con ogni diligenza cerchiamo, non dove ora siano, ma in qual contrada già fossero145.
Il racconto della partitio terrarum richiede di conseguenza «una diligente osservazione de’ nomi delle città, de’ monti, de’ fiumi e delle ville e d’altri diversi luoghi»146 e una esacerbata attenzione per la toponomastica, come prova l’inserimento da parte di Girolamo di un indice apposito, che rispecchia le operazioni paratestuali di Aldo Manuzio sui Commentari di Giulio Cesare o quelle di Giacomo Gastaldi, che alle seconda e terza carta del suo Disegno dell’Asia, quelle che riconoscevano definitivamente il contributo di Marco Polo alla cartografia, faceva accompagnare altrettante tavole di Nomi antichi e moderni147.
L’effetto di spazializzazione è rafforzato e non indebolito dai numerosi interventi di attualizzazione che costellano l’opera e che rispondono a una duplice finalità: ideologica, incanalando il giudizio sugli eventi passati in relazione alla situazione politica contemporanea; geografica, per cui si cerca di garantire, malgrado la presa di coscienza della sua problematicità, una corrispondenza fra descrizione antica del territorio e sua presente verificabilità. Nel primo caso il legame con la contemporaneità è reso esplicito in molti passi del libro al punto che nell’incipit, dove Paolo fa l’elenco delle numerose guerre combattute dalla Repubblica nei secoli, fra le quali la maggiore deve ritenersi senza dubbio l’impresa di Costantinopoli, Girolamo sente il dovere di apportare un aggiustamento alla Reductione e far concludere il padre con «quella finalmente de’ turchi, al tempo della quale scrivo la presente istoria»148. Gli ottomani ricompaiono poi con frequenza nel corso dell’opera e sono al centro di
145 Ibidem.
146 Ibidem.
147 Gastaldi, G., Il Disegno della prima parte dell’Asia, Venezia, Fabio Licinio, 1559; Id., I nomi antichi
e moderni della prima parte dell’Asia, Venezia, s.e., 1559; Id., Il disegno della seconda parte dell’Asia,
Venezia, Fabio Licinio, 1561; I nomi antichi e moderni della seconda parte dell’Asia, Venezia, s.e., 1561; Id., Il disegno della terza parte dell’Asia, Venezia, Fabio Licinio, 1561; Id., I nomi antichi e