La ragione stilistica per cui il libro di Marco Polo si presta facilmente al programma ramusiano di spazializzazione tocca la più scottante materia del contendere degli studi poliani, ovvero la natura stessa dell’opera, se sia da intendere nei termini descrittivi di una guida o di un trattato geografico dell’Asia, oppure sia da considerare nei termini narrativi di una straordinaria avventura personale affidata al racconto letterario. Optando per la prima opinione e riscrivendo la seconda in funzione della prima, è Ramusio stesso che apre questa diatriba, rendendola paradigmatica nella cultura europea, tuttora all’origine di letture scientifiche molto contrastanti. Rilevare la prevalenza di indicatori di mappa o di indicatori di percorso nel Milione non appare infatti un’operazione risolutiva di fronte all’ambiguità costitutiva di almeno tre aspetti dell’opera e della sua storia: l’autorialità incerta, l’assenza del testo originale, l’asserzione di veridicità
95 In proposito vedi la seconda parte (4.4).
formulata nell’introduzione.
Nel primo caso la discussione generale trova nell’associazione delle figure di Marco e di Rustichello da Pisa, e delle loro rispettive funzioni, informativa del viaggiatore e letteraria dello scrittore, un valore esemplare: «è significativo che questa collaborazione, storicamente data, fra viaggiatore e letterato divenga talmente canonica da costituirsi come paradigma strutturale del racconto di viaggio»97. Dal punto di vista filologico della storia della tradizione, la scelta ramusiana è inequivocabile: ignorando Rustichello e introducendo la figura di un gentiluomo genovese, che avrebbe frequentato le carceri dove il veneziano era rinchiuso e cui sarebbe stata dettata l’opera, originariamente stesa in latino (illazione di chiara portata ideologica), il segretario tenta in tutti i modi, a tratti maldestramente, di restituire veridicità storica all’opera98.
Questo romanzetto, addirittura imbarazzante nelle sue illogiche e insostenibili complicazioni, è tra l’altro ben eloquente sul grado altissimo di interventi “interessati” che la relazione di Marco Polo ha subito nel tempo. A farne le spese in sede iniziale, è sempre e comunque il redattore Rustichello, figura instabile ormai non solo nel nome, che con estrema disinvoltura viene spesso giustiziato99.
Nel secondo caso, la mancata sopravvivenza del testo originale, che Ramusio si preoccupa di ricostruire seppur con qualche intenzionale libertà, sembra deporre a favore della tesi degenerativa ramusiana:
giacché questo libro infinitamente letto, tradotto in tutte le lingue possibili, tradotto sempre da altre traduzioni, si è rifiutato di esistere nell’originale. Un libro che sopravvive solo in traduzioni […] Al suo posto dovevano subentrare innumerevoli testi […] L’Asia, coagulata nella memoria, riacquistava una vitalità spuria, ridiventava il “mondo”, luogo in cui le cose non cessano di mutare, gli eventi di accadere, finché innumere morti non li aboliscono. Possiamo immaginare che l’originale del Milione venne “ucciso” dai testi che da quello volevano nascere, gli impazienti e
97 Fasano, P., Letteratura e viaggio, cit., p. 13. «L’incontro di Rustico e di Marco Polo fu l’incontro di due mondi incompatibili» (Manganelli, G., Prefazione a Polo, M., Il Milione, Pordenone, Studio Tesi, 1991, p. XI).
98 Si confronti il Proemio primo sopra il libro di messer Marco Polo, gentiluomo di Venezia, fatto per un
genovese, in Ramusio, G. B., Navigazioni, cit., vol. III, p.75 con il proemio alla versione toscana del
Trecento pubblicata in edizione critica da Valeria Bertolucci Pizzorusso (Polo, M., Milione, Milano, Adelphi, 1975, pp. 3-4.
99 Bertolucci Pizzorusso, V., La figura del redattore nella ricezione delle scritture di viaggio medievali. Un
caso esemplare, in Gargano, A. e Squillante, M., a cura di, Il viaggio nella letteratura occidentale tra mito e simbolo, Napoli, Liguori, 2005, p. 130.
approssimativi testi dei traduttori e degli amanuensi, cui doveva essere restituita la licenza di immaginare l’Asia. Attraverso quella morte, Il Milione, nato come libro di memoria esatta, diventava una possibilità di favola, di fantasia100.
Da questo punto di vista i contrastanti statuti testuali assegnati al Milione si comporrebbero come fasi alterne della storia dell’opera, per cui l’originaria, asciutta e metodica materia descrittiva sarebbe stata sepolta da un incessante lavoro di stratificazione romanzesca. Se dunque «la doppia serie di contrasti, nello spirito di Marco, e tra Marco e Rustichello, ha come prodotto una compatta unità le due valenze, fantastica e documentaria, verranno invece saturate alternativamente nella pragmatica della fruizione»101. Infine, nel terzo caso, più chiaramente individuabile, l’ambiguità si inscriverebbe programmaticamente nelle dichiarazioni autoriali che introducono il libro, mantenute da Ramusio, laddove «le grandi e maravigliose cose» dell’Asia
tutte per ordine in questo libro si narrano secondo che ‘l nobil messer Marco Polo, gentiluomo veneziano, le ha dettate, avendole con gli occhi proprii vedute. E perché ve ne sono alcune le quali non ha vedute, ma udite da persone degne di fede, però nel suo scrivere le cose per lui vedute mette come vedute, e le udite come udite: il che fu fatto acciò che questo nostro libro sia vero e giusto senz'alcuna bugia, e ciascun che ‘l leggerà overo udirà gli dia piena fede, perché il tutto è verissimo102.
L’asserzione di verità del testo si fonderebbe infatti su di una presa di posizione metodologica che equipara la testimonianza autoptica (ópsis) al sentito dire (akoé), una presa di posizione che proprio in quanto esplicita e referenziale, non scredita la veracità del dettato ma è anzi funzionale a rafforzare la credibilità della descrizione di Marco103. Il che spiegherebbe come l’intervento ramusiano, che prevede l’invenzione preliminare
100 Manganelli, G., Prefazione, cit., pp. IX-X.
101 Segre, C., Introduzione a Polo, M., Milione. Le divisament dou monde. Il Milione nelle redazioni
toscana e franco-italiana, Milano, Arnoldo Mondadori, 2006, p. XV.
102 Polo, M., Proemio, cit., p. 75.
103 Vedi Hartog, F., Le miroir d’Hérodote, cit., p. 410. L’effetto si fa sentire sulla tradizione successiva: «Le ricerche sui manoscritti fanno piuttosto concludere che quanto più Marco Polo divenne famoso come esclusivo conoscitore dell’Asia, tanto più diventò interessante inserire nel suo testo aggiunte in cui il testimone oculare confermasse ciò che altri ritenevano di sapere, come pure sottolineature per dire che egli non raccontava nulla di superfluo o di scandaloso. Con questo non si vuole escludere che anche Marco Polo, quando il suo racconto – essendo lui ancora vivente – cominciò a diffondersi, abbia apportato integrazioni o cambiamenti» (Münkler, M., Marco Polo: Leben und Legende, Monaco di Baviera, Oscar Beck, 1998; trad. it., Marco Polo. Vita e leggenda, Milano, Vita e pensiero, 2001, p. 73).
di un aneddoto biografico ma poi insiste sul contenuto informativo del testo a scapito di quello personale o avventuroso, sia paradossalmente riuscito a spostare l’attenzione del pubblico dal libro alla figura di Marco, con effetti futuri certo non prevedibili dal segretario104.
Oltre a queste ambiguità di ordine metatestuale (l’autore, il testo stesso) o paratestuale (il proemio), il contenuto del libro si è prestato a letture molto divergenti che di volta in volta hanno privilegiato il registro descrittivo-documentario o quello fantastico-narrativo dell’opera. Per Peter Jackson «nel suo insieme, comunque, il libro di Polo rappresenta un tentativo di esporre un compendio enciclopedico delle diverse parti del mondo “in ordine”»105, «una descrizione del mondo piuttosto che le memorie di un itinerario del viaggiatore stesso»106, il cui tono informativo sarebbe da porre in relazione al carattere formulare della scrittura diplomatica cinese, se non addirittura di quella degli ambasciatori veneziani. Antonio Carile ha messo in luce come quasi la metà dell’opera sia costruita secondo schemi rigidi di descrizione storico-geografica del territorio (distanze, notizie etnografiche, provviste necessarie, sicurezza dei trasporti, prodotti agrari e manufatti, merci e monete locali) per cui «attraverso il prisma del realismo mercantile in cui si esplica l’osservazione di Marco Polo, la realtà dell’ambiente è colta con una robustezza di sintesi»107 rimasta senza seguito. Per Enrico Vicentini «il Milione non venne inizialmente considerato testo scientifico, ma un insieme di eventi e date che potevano dilettare ed informare»108 mentre invece precisi raffronti con pratiche di mercatura e testi di navigazione due-trecenteschi inviterebbero a considerarlo come un vero e proprio portolano. Da tutto un altro punto di vista, quello etico, Syed Manzurul Islam, ponendo la distinzione fra viaggio nomadico, che è incontro con alterità e rottura performativa di un sistema di rappresentazione, e viaggio sedentario, pratica tanto
104 «Il resoconto di Marco Polo parlava dell’Asia e dei Mongoli; dei paesi, delle regioni e delle città del Medio e dell’Estremo Oriente, dell’ascesa dei Mongoli e della storia della loro dinastia fino a Cubilai Khan e dei ricchi e meravigliosi paesi e isole del sud-est asiatico che confinavano con il regno del Gran Khan. Anche questo interessava i lettori di Marco Polo a lui contemporanei: gli oggetti da lui descritti, non la personalità del viaggiatore. Questo quadro oggi si è quasi capovolto. Oggi l’interesse si indirizza di più verso il grande viaggiatore che verso la sua descrizione dell’Asia» (ivi, p. 4).
105 Jackson, P., Marco Polo and His “Travels”, in «Bulletin of the School of Oriental and African Studies, University of London», LXI (1998) 1, p. 89.
106 Ivi, p. 101.
107 Carile, A., Territorio e ambiente nel Divisament dou monde di Marco Polo, in «Studi Veneziani», I (1977), p. 31.
geografica quanto letteraria con cui si fissa «un punto di vantaggio dal quale condurre una rappresentazione della differenza»109, indica nel libro di Marco e nelle sue ambivalenze non solo un esempio massimo di viaggio sedentario (e chi nel Cinquecento sarà più sedentario come viaggiatore di Ramusio?), ma l’origine vera e propria di un discorso moderno di alterizzazione che stabilisce tassonomie di rappresentazione trans-culturale e logiche politiche di mediazione. Per tutte queste ragioni il Milione sarebbe in definitiva il testo medievale sull’Oriente che più era adatto a sopravvivere nell’era dello spazio, consolidando un’immagine che in Italia, a differenza di altri paesi europei, non sarebbe stata detronizzata nemmeno dalla «nuova conturbante decalcomania gesuitica della Cina»110.
A ristabilire la fondamentale ambivalenza del testo poliano non valgono i giudizi, magari un po’ datati, che scrittori come Anthony Burgess o Carlo Emilio Gadda hanno dato di un registro fantastico frutto di ingenua esagerazione, se non di cialtronesca millanteria111. Semmai è l’esistenza di un nesso fra piano razionale di descrizione e suo autore (la figura che ne diventa funzione), sottolineato dall’estro biografico della prefazione ramusiana, destinata a fare di Marco l’«icona culturale, molteplice e ambigua, dell’Europa e del suo rapporto con l’altro»112, a mettere in luce il valore narrativo di un «emozionante documento dell’incontro di un uomo con un mondo […] L’incontro di un uomo determinato con un mondo determinato»113. Per quanto razionale e lucido nel disporre l’Asia nella configurazione del mondo medievale e nell’offrirla a posteriori strategie spazializzanti, quello di Marco rimane il libro dell’esperienza:
Ai nostri occhi, oggi, il Milione appare come il libro aurorale di un nuovo possesso del mondo, e
109 Islam, S. M., The Ethics of Travel: From Marco Polo to Kafka, Manchester, Manchester University Press, 1996, p. viii.
110 Zoli, S., L’immagine dell’Oriente da Marco Polo al Settecento, in De Seta, C., a cura di, Storia d’Italia.
Annali 5. Il paesaggio, Torino, Einaudi, 1982, p. 49.
111 «Ciò che ostacola un racconto stringato e obiettivo dell’Oriente che fu meta dei viaggi di Marco, è l’entusiasmo fanciullesco che lo porta a esagerare, a vedere beltà e splendori in troppe figure di primo piano […] I poteri dell’immaginazione umana sono sconfinati ti e pericolosi. A Marco l’immaginazione non mancava e d’altra parte all’uomo medievale non veniva insegnata l’oggettività scientifica» (Burgess, A., Marco Polo, in Polo, M., Il Milione, Milano, Rizzoli, 1955, pp. 5-6); «frottole o semifrottole», «fandonie» (Gadda, C. E., Toscanelli e Colombo, in Cattaneo, G., a cura di, Gadda alla RAI, in «Paragone», XXIV (1973) 276, pp. 7-8).
112 Polezzi, L., Marco Polo: mito e ricezione, sé ed altro, in Medi@terraneo. Identità e differenze nella
cittadinanza, in «Imageuro. Annuario elettronico internazionale», 2001, p. 1, (ultima consultazione luglio
2010), www.imageuro.net/mediaterraneo/archivio/secolo/pdf/polezzi.pdf
insieme di una diversa intelligenza che il conoscitore ha di se stesso. E’ un libro di lucidità insondabile, dove assistiamo all’esplodere dell’esperienza, come momento tangibile e mentale dell’avventura114.
Il luogo fondamentale in cui questa esperienza prende corpo è proprio il centro di quell’utopia politica dell’impero che ne ha garantito il successo rinascimentale, quel luogo verso il quale Marco si rivolge in ogni punto della sua opera e verso il quale i suoi viaggi si configurano come veri e propri pellegrinaggi:
Non è a onta delle modeste intenzioni dell’autore, una semplice, se pur grandiosa, “guida dell’Asia”. L’esperienza umana di Marco, quale si riflette nella redazione stessa del suo libro, si organizza attorno a un centro, unità di destino e unità di tema letterario, che stabilisce le prospettive profonde del testo oltre l’esteriore frammentarietà. Questo centro d’esperienza vissuta fu per lui il cuore del grande Impero mongolo, la Corte del Gran Cane, da cui di diramava la poderosa organizzazione, insieme militare e burocratica, che Marco non cessava d’ammirare. Divenuto egli pure, mercè gli incarichi avuti dal Signore dei Tartari, di ambasciatore e di reggitore di città, qualcosa come un funzionario di quella organizzazione, essa rappresentò, per così dire, lo schema, il piano razionale precostituito che gli consentì la ricca avventura di vent’anni della sua vita. Fu quella organizzazione a render possibile a un europeo una esperienza che, altrimenti irrealizzabile, non cessa tuttavia dal tenere qualcosa di miracoloso: fu essa che ne permise e ne garantì l’ampio giro115.
Ma se l’utopia, che per Michel Foucault è un emplacement senza luogo reale, ma che ha la curiosa proprietà di essere in rapporto con tutti gli altri emplacements reali secondo rapporti generali di analogia diretta o inversa, è alla lettera inaccessibile all’esperienza116, questo nucleo di vissuto di Marco nel luogo che è il vertice ideale del potere universale, deve essere letto in altri termini. Foucault, in un saggio rimasto a lungo inedito, oltre a considerare la costante produzione di utopie in ogni cultura, prende in esame, attribuendogli analoga costanza storica, la produzione di eterotopie117, «luoghi reali,
114 Manganelli, G., Prefazione, cit., p. XIII.
115 Solmi, S., Introduzione, cit., pp. XII-XXIII.
116 «L’utopia è la cancellazione del luogo reale, e con essa anche la cancellazione della realtà del luogo, perché mostra come sia ben possibile fare esistere qualcosa che non è da nessuna parte» (Moscati, A.,
Spazi senza luogo, in Foucault, M., Utopie Eterotopie, Napoli, Cronopio, 2008, p. 57).
117 Il termine, sempre in opposizione a utopia, era stato in precedenza impiegato da Algirdas Julien Greimas nell’analisi semiotica dei discorsi narrativi, però in termini significativamente rovesciati rispetto a Foucault: allo spazio topico dei racconti, luogo in cui si manifesta sintatticamente la trasformazione
luoghi effettivi, luoghi disegnati nell’istituzione stessa della società, che sono una sorta di contre-emplacements, una sorta di utopie effettivamente realizzate, nelle quali gli emplacements reali, tutti gli altri emplacements reali che si possono trovare all’interno della cultura sono allo stesso tempo rappresentati, contestati e invertiti, sorta di luoghi che sono al di fuori di ogni luogo, benché siano tuttavia effettivamente localizzabili»118. Foucault propone sei principi che dovrebbero guidarne la descrizione (l’eterotopologia): le eterotopie sono una costante rintracciabile in qualsiasi gruppo umano e periodo storico; hanno un funzionamento preciso e determinato che può non corrispondere fra una cultura e l’altra; hanno il potere di giustapporre in un unico luogo reale diversi emplacements; effettuano una rottura con il tempo tradizionale, aprono cioè su delle eterocronie; prevedono sistemi di apertura e di chiusura che ne regolano l’accesso e l’isolamento; esercitano una funzione che può oscillare fra la denuncia dell’illusorietà di tutto lo spazio o il mondo circostante e la sua compensazione attraverso la creazione di un mondo ordinato e perfetto, quanto l’altro è caotico e disordinato. Se le eterotopie sono dunque descrivibili in quanto spazi, i loro effetti sono però apprezzabili solo nell’ordine dell’esperienza materiale e corporea, ovvero dei luoghi: in questo caso l’utopia intratterrebbe con l’eterotopia lo stesso rapporto intercorrente fra spazio e luogo la progettazione utopica delle reducciones gesuitiche del Paraguay non può restituire l’esperienza eterotopica vissuta da missionari e indigeni).
Concetto ambivalente, molto in voga nei recenti studi culturali e filosofici, quello di eterotopia si presta, quasi a rispecchiare la fragile soglia che separa utopia e distopia, tanto a letture positive, laddove si prediligano le eterotopie artistiche (il cinema, il teatro, il giardino), quanto a interpretazioni negative, laddove è la riflessione politica foucaultiana sul disciplinamento degli spazi a interessare gli studiosi (la prigione, la
narrativa, distinguibile a sua volta in spazio utopico (il qui, «luogo fondamentale dove il fare dell’uomo può trionfare sulla permanenza dell’essere») e spazio paratopico (il là, «emplacement delle prove preparatorie e qualificanti»), si contrappongono gli spazi eterotopici (l’altrove), ovvero i luoghi che inglobano, precedono o seguono la trasformazione (Greimas, A. J., Maupassant. La sémiotique du texte:
exercices pratiques, Parigi, Seuil, 1976, pp. 99-100).
118 Foucault, M., Des Espaces Autres (1967), in Id., Dits et Ecrits, Parigi, Gallimard, 1994, vol. IV, pp. 755-756, trad. mia; trad. it., Eterotopie, in Id., Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 3.
fabbrica, la clinica)119. Da questo punto di vista un’eterotopia carceraria, come osserva ancora Giorgio Manganelli, presiederebbe alla redazione stessa del Milione:
E’ solo un’arguzia del destino, il fatto che questo libro, che parla di uno spazio di mondo mai fino a quel tempo percorso da un uomo, venga dettato nell’ambito angusto e ripetitivo di una prigione? […] Sulle pareti grigie del carcere genovese si spalanca un infinito spazio mentale, che non è fatto di materie verificabili, di documenti, ma unicamente di memorie, più esattamente di parole. […] Non già una descrizione, un documento, ma un’“istoria”, una invenzione veridica ma tutta mentale di qualcosa che esiste non perché è sperimentabile, ma perché è raccontabile e materia di ricordo. […] La memoria gli si offre senza più di una vaga traccia di emotività; le cose ricordate sono “ferme”, immagini inesauribili ma immote, depositate in un luogo che non può aggiungere né detrarre alcunché al proprio essere concluso; l’Asia di Polo, prima di essere raccontata, ha voluto essere uccisa. Il raccontatore è così immerso nello spazio perfetto della memoria che non sa, non può sapere che il racconto orientale è continuato anche in sua assenza; e quindi ignora che Qubilai Can, il Sovrano che ammirò e amò, è ormai morto, è perduto nello spazio di un continente, immortale solo nel libro della sua memoria. Che egli non sappia, anzi nemmeno dubiti della morte di Qubilai, conferma che per Polo l’Asia era un luogo della mente […] Egli ha “lasciato” l’Asia, ed ora essa è solo una immagine infinita, talmente infinita che scrivere su di essa duecento libri o duecento capitoli non fa alcuna differenza120.
D’altra parte la mappa stessa, theatrum orbis, utopica per eccellenza, contenitore di utopie geografiche, in quanto oggetto di esperienza contingente e di immaginazione cartografica (Marlow davanti alla vetrina del negozio in cui è esposta una carta dell’Africa), è un’eterotopia in quanto capace, come il cinema, il teatro, il museo o la biblioteca, di giustapporre in un solo luogo reale spazi incompatibili fra loro. Nel caso
119 Mentre Georges Teyssot molto foucaultianamente applica la categoria alla storia del sistema ospedaliero di Caen (Teyssot, G., Eterotopia e storia degli spazi, in Il dispositivo Foucault, Venezia, Cluva, 1977, pp. 23-36), Pierre Dalla Vigna rilegge il saggio di Foucault nel contesto della riflessione filosofica di Merleau-Ponty sul corpo e sull’espressione corporea, concludendo che eterotopie sono «tutte quelle forme di codificazione in un luogo concentrato dell’esperienza vissuta, tali da far pensare che lo spazio esterno, al confronto, sia caotico e disordinato […] eterotopici, alla stessa stregua, sono tutti i luoghi della produzione artistica […] Il loro paradosso, che è poi il paradosso delle eterotopie in generale, è quello di dar conto di un luogo che sembra contenere l’essenza dell’arte» (Dalla Vigna, P., A partire da
Merleau-Ponty. L’evoluzione delle concezioni estetiche merleau-pontyane nella filosofia francese e negli stili dell’età contemporanea, Milano, Mimesis, 2002, p. 118). Al contrario per Salvo Vaccaro mentre l’utopia è
un messaggio di consolazione che «anestetizza nella trascendenza salvifica e, talvolta, mondana»,