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Cronotopi assoluti, di drammatizzazione e dislocazione

Se si escludono i procedimenti di amplificazione retorica, che in alcuni casi intensificano e potenziano lo svolgimento temporale dell’azione162, ma il più delle volte

158 Cavalli, M., Relazione dell’Impero Ottomano, in Albèri, E., a cura di, Relazioni degli ambasciatori

veneti al Senato raccolte, annotate ed edite da Eugenio Albèri, Firenze, Tipografia all’insegna di Clio,

IIIa serie, vol. 1, 1840, pp. 271-298.

159 Ivi, p. 102.

160 «Immagini dell’imperatore ed imperatrice di Costantinopoli, e del principe loro figliuolo con gli abiti imperiali, portate da Costantinopoli dall’illustrissimo signor Marin di Cavalli il cavaliere, ritornato ambasciator dall’imperatore Solimano, l’anno MDLX» (ibi, p. XXIII). Le illustrazioni, già presenti e similmente presentate nell’edizione francese di Villehardouin del 1601, sono riprodotte in Pertusi, A.,

Storiografia umanistica e mondo bizantino, cit.,, pp. 63-65; ne tratta inoltre Zorzi, N., Per la storiografia sulla Quarta Crociata, cit., pp. 739-746).

161 Come una lunga digressione storico-geografica nel caso della descrizione della Bulgaria e del suo stato presente (ivi, pp. 72-73; sul ruolo e le modalità retoriche negative che presiedono descrizione del regno di Valacchia e del suo terribile re Ioannissa vedi Marin, S., A Humanistic Vision, cit., pp. 82-88), mentre in altri casi è la divagazione sulla discendenza di alcuni protagonisti dell’impresa ad autorizzare un viaggio nel tempo, come nel caso di Baldovino di Fiandra (Ramusio, P., Della guerra di

Costantinopoli, p. 177) e di Bonifacio di Monferrato (ivi, pp. 197-198), e, talvolta, nello spazio, come nel

caso del lignaggio borgognone di Baldovino che conduce direttamente al più grande degli imperatori asburgici, Carlo Quinto e all’attualmente regnante figlio Filippo II, di cui è impossibile non evocare lo smisurato impero: «Sua Maestà Catolica ancora, oltre il dominio nel nostro mondo, essendo stati gli anni adietro dalla virtù della nazione spagnuola, acquistati nuovi paesi, verso l’Occidente, stende il suo imperio, quasi infino agli Antipodi. Onde con legitimo possesso di molti regni nell’Europa, con rara felicità, e lode di somma pietà e giustizia, regge ancora il Mondo Nuovo» (ivi, p. 132).

162 Ne sia esempio la resa drammatica visiva e sonora dell’assalto crociato, già potente in Villehardouin, ancor più intensificata da Paolo: «il crido dell’assalto fu si grande, che pareva, che la terra andasse in

ne rallentano e ne indeboliscono la narrazione, gli interventi principali di Paolo sulla cronaca di Villehardouin, quelli che permettono alla sua opera di offrirsi, oltre che come una ricostruzione di eventi regolati da ferrei rapporti di causa ed effetto, come una vera e propria trattazione corografica dell’impero marittimo veneziano e di quello latino d’Oriente, rispondono dunque anzitutto a esigenze di spazializzazione della narrazione cronachistica. Una logica di omogeneizzazione geografica, prettamente descrittiva, consente così di sottomettere all’indicazione spaziale numerosi riferimenti storici eruditi, il cui eventuale raccordo al tempo presente della compilazione più che introdurre una vera e propria eterocronia effettua un’attualizzazione funzionale al rafforzamento dello stesso quadro geografico e che in certa misura neutralizza lo sfasamento dei piani temporali. Ma in alcuni casi ben evidenti le addizioni di Paolo operano viceversa una sorta di storicizzazione degli spazi, in cui vicende storiche estranee sia all’intreccio che alla fabula di Villehardouin trovano modo di dispiegarsi in una dimensione eterocronica distante tanto dall’unitario decorso spazio-temporale della storia quanto dall’abituale procedimento descrittivo che lo glossa. A queste situazioni discorsive è possibile senza troppe pretese filologiche associare la fortunata categoria teorica del cronotopo, «una categoria che riguarda la forma e il contenuto della letteratura» in cui Michail Bachtin riconosce aver

luogo la fusione dei connotati spaziali e temporali in un tutto dotato di senso e di concretezza. Il tempo qui si fa denso e compatto e diventa artisticamente visibile; lo spazio si intensifica e si immette nel movimento del tempo, dell’intreccio, della storia. I connotati del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo da senso e misura163.

Per ammissione di Bachtin stesso, che si interessa principalmente del significato di genere del cronotopo all’interno della letteratura, la categoria, in questa sua definizione minima di “spaziotempo”, può trovare applicazione anche in altre sfere della cultura.

profondo» (Villehardouin, G. de, Storia della Conquista di Costantinopoli, cit., c. 26r-v); «Era tanto il rumore, che si sentiva dall’una parte e dall’altra, cagionato dal grido degl’uomini, e dallo strepito delle machine, e de’ sassi scagliati, che pareva ch’l ciel co’l mare, e’l mar co’l ciel si confondesse» (Ramusio, P., Della Guerra di Costantinopoli, cit., p. 59).

163 Bachtin, M., Formy vremeni i chronotopa v romane: Očerki po istoričeskoj poetike, in Voprosy

literatury i estetiki, Mosca, Khudožestvennaja literatura, 1975, pp. 234-407; trad. it., Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo, in Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 2001, pp. 231-232.

Che la trattatistica di carattere geografico, la cronachistica o la letteratura di viaggio rientrino o meno nell’ambito originario di designazione del cronotopo ha dunque importanza relativa. La nozione si rivela invece di estrema utilità dal momento che riesce efficacemente a individuare quelle particolari modalità di interconnessione fra piano temporale e piano spaziale che nell’opera di Paolo si distaccano con forza dai procedimenti che sostengono l’intelaiatura generale del suo discorso, costituito fondamentalmente dall’alternanza fra sviluppo della narrazione storica e pause prodotte dalla digressione erudita, il più delle volte di carattere geografico e descrittivo. Se quest’alternanza riflette il tentativo di compensare la carente rappresentazione dei luoghi dell’azione (Villehardouin «non sa descrivere»164) con una loro ossessiva resa spaziale, in alcuni casi ben precisi da un luogo attraversato (o da uno spazio menzionato) scaturisce un’inaspettata e potente messinscena, che per lo sfasamento cronologico appare decisamente estranea al rimanente corpo narrativo, ma che proprio per il carattere narrativo eccezionalmente adottato non è nemmeno assimilabile a un ennesimo capitolo del solito e spesso meccanico commentario storico-geografico. In queste messinscene storiografiche narrazione e descrizione, tempo e spazio, sono condensati in un’unità indivisibile e smettono di contrastarsi creando un luogo (perché è il luogo la sede della contingenza storica) che non è quello presente della testimonianza autoptica del protagonista, ma è il luogo di un’eterocronia la cui localizzazione, inseparabile dal proprio paradigma narrativo, si giustifica per il proprio valore esemplare: coerentemente con la propria etimologia più che “spazio-tempo” il cronotopo dovrebbe allora intendersi come “luogo-tempo”. Quando poi raggiunge una certa intensità, per cui il salto temporale fa sì che quel particolare luogo smetta di intrattenere con altri determinati luoghi dei comuni rapporti di vicinanza, lontananza e opposizione e si fissi nello spazio mettendosi in relazione con tutti i suoi punti, allora il cronotopo in sostanza può essere considerato l’espressione temporale dell’eterotopia.

164 Così l’anonimo commentatore di un’edizione francese del 1910, che riassume bene l’ambivalente giudizio generale sullo stile e la lingua di Villehardouin: «Non sa descrivere, non sa comporre sapientemente il suo discorso, il suo stile è povero d’immagini, per nulla ricercato, le stesse parole ricorrono frequentemente, perché Villehardouin è incapace di esprimere sfumature. Ma, malgrado il suo arcaismo, è sempre perfettamente intelligibile, sempre chiaro, se non proprio preciso, vigoroso e solido, di una semplicità grandiosa» (Les chroniqueurs français. Villehardouin – Froissart – Joinville –

Tuttavia proprio una funzione di genere è sorprendentemente riconoscibile anche ad alcuni di questi cronotopi, dal momento che sembrano fissare nella geografia mediterranea gli spazi e i luoghi fondamentali della mitografia veneziana (Venezia, Zara, Lepanto, la Prevesa, Famagosta, Costantinopoli) – e con essi tanto le eterotopie dei viaggiatori quanto le utopie dei cartografi – e sono destinati a ripetersi ossessivamente all’interno delle produzioni culturali più disparate della società veneziana fino alla fine della Repubblica. Questi cronotopi non sono infatti prerogativa della scrittura storiografica, ma animano cicli iconografici, a Palazzo Ducale come in altri luoghi pubblici veneziani, colonizzano i cartigli delle carte geografiche, si inseriscono nel mondo frammentato degli isolari e commentano raccolte di vedute prospettiche o a volo d’uccello, ma soprattutto diventano topoi di lunga durata della letteratura di viaggio e dell’editoria geografica. Imperversando nei settori più diversi della creazione figurativa, cartografica e letteraria, la loro funzione di genere non può certo rispondere alla categorizzazione che presupponeva loro Bachtin, ciononostante si fissano come elementi distintivi e immediatamente riconoscibili del viaggio da Venezia a Costantinopoli, ovvero di un discorso globalmente culturale (storico, geografico, odeporico, cartografico) che attraversa dunque i generi conservando tuttavia una fisionomia coerente e inconfondibile e che, se solo non disponesse di una gamma così variegata di possibilità formali, costituirebbe sicuramente un genere a sé.

A rigore di logica, e soprattutto nello svolgimento che ne fa Paolo, la Quarta Crociata nella sua totalità costituirebbe di per sé un cronotopo: la concatenazione necessaria degli eventi, per come ce li racconta il maresciallo, significa un’altrettanto inevitabile successione di spazi geografici unificati da un disegno provvidenziale. E la Quarta Crociata assolve precisamente questo tipo di funzione nel contesto delle Navigazioni, dove l’Esposizione richiede un salto temporale di cinquant’anni indietro rispetto al racconto poliano: digressione autorizzata dall’iniziale accenno alla presenza di un podestà veneziano in cui la precisazione giuridica cede velocemente il passo a una condensato e conchiuso flash-back drammatico. Quello che però è più interessante è rilevare la presenza di cronotopi internamente alla Guerra, nei quali il discorso del commento effettua bruschi salti temporali e la lineare successione degli eventi fornita da Villehardouin viene spezzata da vere e proprie isolate eterocronie.

Tre diverse modalità di articolazione di piani temporali e piani spaziali adottate da Paolo permettono di distinguere queste situazioni discorsive in altrettante tipologie: cronotopi assoluti, cronotopi di drammatizzazione e cronotopi di dislocazione. La prima tipologia, in questo caso la più decisiva e la più invasiva, e che non necessita di troppi commenti, si realizza nei momenti in cui il discorso tocca Venezia o Costantinopoli: descritte come utopie o esperite come eterotopie, queste città offrono l’impressione di ospitare una società organica e ideale, la prima indiscutibile paradigma di libertà e concordia («per tanti secoli ha goduto una perfetta libertà, non essendo essa mai stata (per grazia del sommo Dio e per la bontà esemplare della Republica) soggetta alla signoria d’alcuno»)165, la seconda esempio ineguagliabile di ricchezza e potenza («la più forte e la più ricca di quante ne fossero nell’Oriente»)166 ma allo stesso tempo già inquinata da pulsioni distopiche (classico il topos della perfidia Graecorum, per cui l’imperatore reinsediato non tarda a esservi «pervertito dall’astuzia greca»)167. In esse lo spazio e il tempo vi raggiungono il grado massimo della reciproca amplificazione, dilatandosi al punto da estendersi il primo al mondo intero (in senso proiettivo per Venezia, specola del mondo, in senso imperiale per Costantinopoli, «mondo del mondo»), il secondo alla storia universale per cui la caduta della capitale bizantina per opera dei veneziani segna nella storia dell’umanità una brusca cesura temporale, assumendo chiaro carattere di punizione divina: «Così questa città, la più potente di quante in quel tempo ne fossero, come quella che di tutto l’Oriente era capo e signora, a’ 12 d’aprile in lunedì, l’anno 1204 presa da Francesi e da’ Veneziani, pagò le pene della sua perfidia e della cambiata religione»168.

Legati invece a un preciso evento storico, preferibilmente tratto dalla recente storia militare veneziana, sono i cronotopi di drammatizzazione: caso fra tutti esemplare, il golfo di Lepanto non può essere pensato se non come teatro della famosa

165 Ramusio, P., Della guerra di Costantinopoli, cit., p. XIII.

166 Ivi, p. 93.

167 Ivi, p. 76.

168 Ivi, p. 86. La vittoria della Lega Santa, che già a inizio libro fa correre l’immaginazione dell’autore a una nuova presa di Costantinopoli (ivi, p. 5), riecheggia anche nella conclusione del “secondo proemio”, dove Paolo sogna la «recuperazione della città di Costantinopoli e dell’Imperio dell’Oriente dovuto ragionevolmente a crisziani» (ivi, p. 119). Sul nesso fra Quarta Crociata e la prospettiva cinquecentesca di un’azione comune contro i Turchi, vedi Zorzi, N., Per la storiografia sulla Quarta Crociata, cit., pp. 699-701).

battaglia della Lega Santa contro la flotta turca (il che significativamente non si verifica nella storiografia ottomana). Così, venendo incidentalmente a nominare Itaca, Paolo, che completa la sua opera pochi mesi dopo l’evento, rievoca il celebre scontro navale, prima dandone le solite e pedanti coordinate informative, poi passando però a una ben più vivace rappresentazione visiva:

Itaca, insieme co’ Curzolari, vicine alla bocca del Golfo di Coranto, e al luogo, ove entra in mare il fiume Acheloo, nobili per la vittoria navale ottenuta a’ nostri tempi da’ Cristiani. Imperoche in quel mare, che è fra l’Etolia e l’isole della Cefalonia, e del Zante, l’armata Christiana, sotto gli auspicij di Don Giovanni d’Austria, essendo Generale delle galee di di Pio Quinto Sommo Pontefice, Marc’Antonio Colonna; e di quelle della Republica Sebastiano Veniero, uomo valorosissimo, e Procurator di San Marco, vinse, e sconfisse a’ 7 di ottobre MDLXXI, il giorno di Santa Giustina, l’armata di Selim Imperator de’ Turchi, che era di più di trecento legni uscita del golfo di Lepanto, per assaltare i nostri; mentreche, essendo stato ferito à morte Agostino Barbarigo, figliuolo di Giovanni, Proveditor Generale dell’armata, e morti nella battaglia alcuni de’ governatori, e sopracomiti, che valororosissimamente combattendo per la Patria, prima de gli altri dal sinistro Corno havevano urtato ne gli nemici, l’istesso Veniero col resto dell’armata cacciatosi là, ove erano più spesse le galee Turchesche, e facendo prove meravigliose, riportò una gloriosissima, e non mai per l’adietro ottenuta vittoria contra il Turco169.

La cronaca di Villehardouin non nomina né Itaca, né Zante né alcuna isola o località ionica, passando invece direttamente da Corfù a Capo Malea, la punta più meridionale della Grecia, nel Peloponneso. È Paolo che con l’ausilio della cartografia ricostruisce gli elementi mancanti del quadro geografico sfruttandone le ricche possibilità divagatorie, in questo caso offerte dall’ampia eco conseguita in Europa dall’evento culminante della guerra di Cipro, il cui altro grande cronotopo di valore patriottico, consegnato in quello stesso 1571 alla memoria dei veneziani, rimaneva quello dell’eroica resistenza della città Famagosta assieme al martirio del suo capitano Marcantonio Bragadin.

Esiste un momento della Guerra in cui questo procedimento che conduce dal testo alla mappa alla digressione e dal quale emerge come sia la lettura di una carta geografica a evocare una determinata situazione storica, viene portato alla luce dal

compilatore stesso e come dire scopertamente confessato. È il momento in cui Paolo, imbattutosi nella menzione della città di Corinto, assediata dai crociati, ricorda di aver a suo tempo visto un’antica e pregiata mappa della Morea, appartenuta a Vincenzo Cappello, generale dell’armata veneziana sconfitto dai Turchi nella celebre battaglia Prevesa avvenuta nel 1538. La proprietà del manufatto, su cui si esercita l’immaginazione cartografica (estetica in questo caso) del compilatore, che assimila il tracciato costiero del Peloponneso a una foglia di platano, permette come nel caso di Lepanto di rievocare con vivaci pennellate lo scontro bellico, cui avrebbe partecipato la stessa mappa, nelle mani di Cappello e dello stesso generale Andrea Doria a capo degli imperiali:

Abbiamo veduto in un largo foglio di carta pecora, fatto con molta diligenza uno antichissimo disegno geografico di Coranto, e di tutta la Morea insieme, conforme a quanto se ne legge in diversi scrittori, molto simile veramente a una foglia di platano per li golfi, e per li promontorij, de’ quali, come di tante piccole radici, sono sparsi i suoi liti; e perché da uno stretto sentiero cominciando, si và di mano in mano allargando. Questo disegno fu di Vincenzo Capello, uomo non meno chiaro in pace, che in guerra; il quale, generale dell’armata veneziana, nella guerra contra il Turco alla Prevesa, espugnato nel golfo di Cataro Castel nuovo, fu, essendo lontano, con consenso di tutta la città eletto procurator di San Marco in luogo di Pietro Lando, creato Doge. Di questo disegno, lavorato per mano di pittore eccellente, si dice, che si servirono l’istesso Capello generale de’ veneziani, Andrea Doria general dell’imperatore, e Marco Grimani, nipote del Doge Antonio, che di procurator di san Marco fu fatto patriarca d’Aquileia, generale del Papa, quando, avendo rinchiuso nel golfo di Larta Ariadeno Barbarossa con tutta l’armata turchesca, affondati alcuni vaselli nella bocca del medesimo golfo, messi in tra i soldati, ed espugnata la Prevesa, trattavano di vietarli l’uscita, e col consiglio particolarmente dell’istesso Capello, disegnavano di passar con l’armata nel golfo di Negroponte, e con grande utilità di tutto il cristianesimo espugnarlo, insieme con quei castelli, che sono nello stretto di Corinto170.

Terminata la rievocazione drammatica, lo sguardo ritorna alla mappa, appuntandosi stavolta sull’istmo di Corinto, che apre un’ulteriore digressione circa i tentativi antichi di scavo del canale e poi di quelli veneziani di ricostruzione di un vallo che separasse la Morea dalla Grecia continentale. Infine ad attirare l’attenzione del commentatore e a precipitare il lettore all’interno della mappa stessa, la possente rocca dell’Acrocorinto

«onde si veggono le spaziose prospettive di diversi mari del Ionio e dell’Arcipelago»171, immagini per le quali, in mancanza dell’originale, ma ad esso paragonabili se non altro per il supporto pergamenaceo e l’eccellente fattura pittorica, è possibile contentarsi delle carte della Morea confezionate a metà Cinquecento dalla bottega di Battista Agnese (fig. 5).

A volte il cronotopo, invece di realizzarsi nel luogo di evocazione, costringe a un movimento nello spazio, agendo cioè per dislocazione, dove la località che autorizza la digressione, per essere stata nel passato teatro di determinati avvenimenti storici, cede velocemente il passo ad un altro luogo rispetto al quale si rivela in ultima istanza periferica. Già il procedimento che giustificava l’Esposizione di Giovanni Battista era di carattere doppiamente dislocante, laddove la sola menzione di Costantinopoli, punto di sutura fra Oriente e Occidente, consentiva un’ampia divagazione che legava a stretto filo l’Oriente poliano non solo alla sua porta d’accesso, ma a Venezia stessa, di cui la prima si rivelava propaggine immediata. Non diversamente nell’opera di Paolo la località verso cui senza eccezioni convergono le dislocazioni storiche è Venezia. Paradossalmente, perché tutto il racconto della Guerra gravita verso Costantinopoli, sia nella prima parte in cui questa si profila come meta e punto d’arrivo di una missione, che nella seconda parte dove invece in qualità di capitale del neonato impero, funge, come Parigi nei poemi epico-cavallereschi, da baricentro dell’azione narrativa, punto fisso dello spazio di manovra dei cavalieri, che vi vengono continuamente richiamati o allontanati per realizzare l’ennesima spedizione militare, e verso cui di conseguenza si orientano le infinite località delle province da sottomettere, conquistare o visitare. Eppure, in conformità al movente ideologico della commissione, i cronotopi di dislocazione rintracciabili nella Guerra rimandano immancabilmente alla Dominante. È il caso di Nicea, capitale dell’impero bizantino fondato da Teodoro Lascaris in risposta all’insediamento crociato, che per aver dato i natali al cardinale Bessarione offre al compilatore il pretesto per rievocare i momenti salienti della biografia del prelato, dal concilio di Firenze al soggiorno romano, ma soprattutto per celebrare la traslazione, a seguito della conquista ottomana di Costantinopoli nel 1453, della famosa libreria (nicena appunto) a Venezia, per ospitare la quale, pochi anni prima che Paolo ne

scrivesse, il Serenissimo governo aveva decretato «per utile della studiosa gioventù»172 l’edificazione dirimpetto a Palazzo Ducale della celebre biblioteca sansoviniana, luogo simbolico fra i più elevati frutti della politica culturale veneziana.

Più strettamente legati alle vicende della Quarta Crociata, cronotopi di dislocazione scandiscono la lunga lista del bottino costantinopolitano e di conseguenza l’elenco delle innumerevoli reliquie religiose trasportate a Venezia: in tutti questi casi il punto di partenza più che da luoghi è offerto da oggetti sacri o profani la cui comparsa nel racconto conduce inevitabilmente alla loro ricontestualizzazione contemporanea nell’ambito cittadino. Come i libri di Bessarione, ancora presenti nella mitologia contemporanea che lega Venezia all’Oriente, e quindi all’ideologia della translatio imperii, sono anzitutto i cavalli di bronzo romani un tempo collocati nell’ippodromo di Costantinopoli, che posti sulla facciata della basilica di S. Marco continuano al tempo di Paolo a essere emblema di potenza e dominio, guardando «verso Occidente; presagio