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Ma che dico io del piacere che ne avranno li dotti e studiosi? Chi è colui che possa dubitare che ancor molti dei signori e principi non si abbiano a dilettare di così fatta lezione? Ai quali più che ad alcun altro appartiene il saper i secreti e particolarità della detta parte del mondo e tutti i siti delle regioni, provincie e città di quella, e le dependenzie che l’hanno l’uno dall’altro i signori e popoli che vi abitano81.

L’aneddoto di Chaggi Memet appare dunque uno dei numerosi momenti paratestuali, come quello in cui il “pilotto” portoghese considera i residui blank spaces sulla superficie del mappamondo o quello in cui Ramusio discute con Fracastoro di nuove possibili rotte per il commercio orientale delle spezie, in cui le strategie ramusiane si rendono visibili, eccedendo la loro apparente dimensione oggettiva di perfezionamento della descrizione cartografica. Laddove negli altri casi la carta in quanto utopica consente un’immaginazione promozionale di ordine militare o commerciale, la cui realizzazione rimane soltanto allo stato potenziale, nel caso di Chaggi Memet l’operazione è tanto più significativa perché di ordine puramente culturale – la consacrazione simbolica di Venezia a mediatrice europea con l’Oriente – e di perciò stesso già in fase di attuazione.

Isole e imperi. Utopie

Il costituirsi della carta rinascimentale come utopica dello spazio ha dunque l’effetto di liberare la superficie del reticolato tolemaico da tutta una serie di utopie o distopie geografiche (il paradiso terrestre, il Prete Gianni, Gog e Magog, le Isole Fortunate) le cui relazioni configuravano a loro volta la mappa medievale come utopica del mondo. Tanto più vero per l’Oriente, il mondo incognito per eccellenza in cui già le prime tradizioni enciclopediche cristiane, che si rifacevano in gran parte alla storia naturale di Plinio, da Isidoro di Siviglia al Liber monstrorum, avevano accumulato, in un registro meno ingenuo o incline al fantastico di quanto si possa pensare, rigorose concettualizzazioni della categoria del mostruoso, basate su logiche di difformità che designavano l’Oriente principalmente come sede della diversità razziale. Alla fine del XII secolo, in

coincidenza con un rinnovamento dei contatti fra Asia ed Europa, a queste teratologie orientali erano subentrate compilazioni in cui invece la categoria del mirabile era entrata di prepotenza: «tutta la costellazione dei termini riconducibili a mirari è presente all’appello negli autori del basso Medio Evo, per i quali l’Oriente non è più, o non è solo, una realtà geografica da descrivere e far conoscere, ma un evento la cui diversità è resa oggetto di ammirazione e valutazione»82. Al registro descrittivo di queste compilazioni si aggiungeva quello narrativo delle numerose versioni del Romanzo d’Alessandro, che introducevano lo schema del viaggio in «un Oriente narrato, sede di imprese, teatro di scontri e battaglie, del quale l’uomo si appropria e che l’uomo percorre, attraversa, visita e soffre»83. La loro combinazione convergeva, nel tardo Medioevo, a costituire una potente utopia geografica che era il frutto della proiezione del «desiderio di abbondanza di una cristianità indigente»84: paese di Cuccagna, dove è possibile sentirsi sazi semplicemente entrando in un palazzo, paradiso terrestre in cui una natura rigogliosa è fonte di perenne felicità, regno del Prete Gianni nel quale potere regale e potere sacerdotale si trovano fusi insieme, o ancora meraviglioso arcipelago di isole dove la morale sessuale può capovolgersi e la sensualità associarsi alla beatitudine. Le diverse forme di ricchezza che caratterizzano l’Oriente contengono però «un’ambivalenza di fondo: da una parte esse sono il frutto di una natura incontaminata, che offre spontaneamente all’uomo ogni piacere desiderabile; dall’altra appaiono come il prodotto delle arti di una civiltà superiore»85. Utopie, alla lettera luoghi inesistenti, inaccessibili all’esperienza e quindi possibili solo grazie a una rappresentazione che le inserisca all’interno di un’organizzazione totalizzante, in questo caso del mondo. Incorporando ognuna di queste utopie all’interno di un unico grande quadro geografico, da offrire come specchio all’Occidente, il Milione avrebbe consolidato la lettura favolosa dell’Oriente. La fortuna del libro di Marco Polo risiederebbe anzi nel suo farsi compendio esemplare di utopie geografiche, utopie che al di là delle apparenze, come afferma Ernst Bloch, rappresentano, per la loro ricerca del paradiso in terra (l’Eden come

82 Zaganelli, G., L’Oriente incognito medievale. Enciclopedie, Romanzi di Alessandro, Teratologie, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino, 1997, p. 47.

83 Ivi, p. 89. Sul Romanzo di Alessandro si veda soprattutto Cary, G., The Medieval Alexander, Cambridge, Cambridge University Press, 1956 (in particolare sul declino italiano dell’immagine medievale di Alessandro Magno e l’emergenza di una nuova concezione rinascimentale, le pp. 260-272).

84 Bossi, G., Immaginario di viaggio e immaginario utopico, Milano, Mimesis, 2003, p. 31.

bene nascosto e lontano), assieme al sogno medico di eliminare la morte (la salute come bene sepolto), le forme più estreme che il principio speranza ha assunto nella storia sociale dell’umanità:

Le utopie geografiche furono in modo evidente utopie di nuove strade, di nuove merci e di nuovi beni, anzi di un sogno estremo come quello della scoperta e dell’accesso a un Eden. Per questo aspetto qualunque altra intenzione utopica è anzi debitrice nei confronti di quella delle scoperte geografiche; poiché ognuna di esse al centro della positività sperata ha il topos del paese dell’oro, della terra della felicità86.

Rispetto al contenuto religioso di un’antica tradizione di letteratura di pellegrinaggio a sua volta in via di secolarizzazione (sarà all’origine del periplo orientale, si pensi a Jean de Mandeville), l’enumerazione delle strabilianti ricchezze prodotte dalle isole indiane, spesso letta in chiave di intraprendente spirito mercantile, oltre che essere indice di un fondamentale allargamento a un pubblico laico e poco specializzato, sancisce il passaggio dalla descrizione delle venerabilia a quella delle mirabilia, dall’affermazione del già noto alla scoperta e registrazione dello sconosciuto. Ma accanto alla quantificazione del paradisiaco immaginario utopico insulare, Marco Polo, facendo confluire l’utopia dell’impero universale incarnata successivamente da Alessandro Magno, dal Prete Gianni e infine da Gengis Khan, sul nipote di quest’ultimo, Kubilai Khan, più che dare uno spaccato commerciale dell’Oriente sembra farne lo schermo proiettivo per lo stato ideale:

Quello di mettere l’accento su una pretesa ideologia mercantile è un topos della ricerca poliana. Questa asserzione implica una visione del mondo demistificatrice, il senso dei valori materiali e il gusto dell’ordine e del benessere. Ma uno dei tratti più pertinenti può essere visto nella maniera in cui l’autore riesce a secolarizzare l’Asia leggendaria dei suoi predecessori mettendo l’utopia politica al posto dei miti e delle loro connotazioni religiose. Marco Polo è in effetti il vero fondatore del mito del Catai in quanto contro-mondo utopico e immagine secolarizzata del paradiso terrestre […] Il regno del Catai si rivela, nella prospettiva di Marco Polo, l’ideale di uno Stato universale <moderno>87.

86 Bloch, E., Das Prinzip Hoffnung, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1959; trad. it., Il principio speranza, Milano, Garzanti, 2005, p. 866.

87 Wolfzettel, F., Le discours du voyageur. Le récit de voyage en France, du Moyen Âge au XVIII siècle, Parigi, PUF, 1996, pp. 28-29.

Secolarizzate attraverso una duplice operazione di contabilizzazione del meraviglioso (le ricchezze delle isole paradisiache)88 e di risacralizzazione politica del religioso (il potere imperiale mongolo), le utopie geografiche medievali sembrano trovare qui un efficace ordine di sistemazione rispetto alla loro complicata, al limite della confusione, articolazione tradizionale. Ciononostante le utopie poliane rispettano la configurazione medievale del mondo, la loro fondamentale organizzazione relazionale basata su rapporti regolati fra luoghi, e quindi, laddove il corpo del viaggiatore si rende visibile, rimandano a un’esperienza qualitativa dei luoghi e non a una descrizione quantitativa degli spazi:

Nel Medioevo lo spazio è raro, e il mondo si compone, di norma, di un insieme di luoghi. Ogni luogo ha la propria misura, sicché nessuna di esse è standard. […] Di conseguenza, a meno di essere un messaggero o un soldato, nel Medioevo il problema della velocità non esiste […] Marco dunque cavalca senza fretta, sostando ogni sera nei caravanserragli e per mesi interi […] E ogni giorno le cose del mondo gli rivelano la propria durata, e allo stesso tempo misurano quella della sua vita. Nel Milione infatti, lo straordinario resoconto dei viaggi di Marco, i deserti, le foreste, le montagne non hanno ancora lunghezza, così come le direzioni del cammino non sono ancora fissate secondo l’astratta rigidità dei punti cardinali. Per avanzare si prende a tramontana oppure a greco, dunque secondo la direzione dei venti, seguendo il loro corso89.

Non a caso quel poco di spazio che emerge nell’Oriente medievale appare il risultato di un sapere che lega nuovamente il sacerdozio alla regalità e che prospetta il dominio totale della terra. Così il libro primo della più antica versione greca conservata del Romanzo di Alessandro, risalente al terzo secolo d. C. e tramandata da un manoscritto dell’undicesimo secolo (Parisinus 1711) inizia, evocando la figura del re egizio Nectanebo, che presiederà alla nascita del Macedone e al suo sogno divino di monarchia universale:

88 Sul rapporto fra misura e la rubrica delle meraviglie e curiosità (thôma) nel racconto di viaggio: «valutare, misurare, contare sono le operazioni necessarie alla traduzione del thôma nel mondo in cui si racconta. Che si pensi al titolo talvolta assegnato al libro di Marco Polo, il Milione, maniera probabilmente di segnare l’onnipresenza del numero e di metterne in causa l’asserzione di verità» (Hartog, F., Le miroir

d’Hérodote. Essai sur la représentation de l’autre (1980), Parigi, Gallimard, 2001, p. 362, trad. mia; trad.

it., Lo specchio di Erodoto, Milano, Il Saggiatore, 1992). Sulle descrizioni poliane dell’Asia meridionale nel contesto di un lungo interesse veneziano per l’India si veda inoltre Grossato, A., Navigatori e

viaggiatori veneti sulla rotta per l’India. Da Marco Polo ad Angelo Legrenzi, Firenze, Leo S. Olschki,

1994, pp. 19-33.

I sapientissimi Egizi, di stirpe divina, che hanno misurato gli spazi della terra, soggiogato i flutti del mare, regolato il fiume Nilo e imparato ad astrologare sulle stelle del cielo, hanno consegnato al mondo un dominio di grande fama, un frutto di magica potenza. Si racconta dunque che Nectanebo, l’ultimo re degli Egizi (dopo di lui l’Egitto decadde da tanta grandezza), superava tutti per la sua potente magia: con le sue formule sottometteva al suo dominio tutti gli elementi dell’universo90.

Allo stesso modo lo spazio appare nel Milione solo in relazione all’espansione centrifuga del potere imperiale mongolo che prende il controllo del territorio in maniera potenzialmente infinita a partire dalla capitale Cambaluc grazie allo yam,

il sistema postale dell’impero mongolo, basato su una rete di stazioni per messaggeri che dalla capitale Canbaluc si diramavano per tutto il regno a intervalli di 25 miglia l’una dall’altra. È l’unico esempio di spazio che Marco descrive, dominio della linearità e perciò della rapidità e dell’equivalenza delle parti91.

Malgrado questa rarefazione dello spazio, il libro di Marco Polo sembra un testo particolarmente adatto al progetto ramusiano di spazializzazione dell’Oriente per due ragioni, di ordine rispettivamente contenutistico (inerente alle figure privilegiate del discorso utopico) e formale (inerente alle scelte stilistiche dell’enunciazione). Le utopie geografiche medievali, quelle del mondo, nell’era dello spazio quantitativo vanno infatti incontro a profonde trasformazioni: evacuate per il loro contenuto religioso e spirituale dalla superficie della mappa moderna, che in forza della propria formalizzazione vi sostituisce il proprio potenziale strategico e strutturale di utopica, nel Cinquecento forniscono allo stesso tempo la base per la nascita e la formalizzazione stessa dell’utopia come genere letterario. Il modello astratto della città ideale di Utopia descritto da Tommaso Moro all’inizio del secolo, in forza della propria razionalità e del proprio marchio di totalità, avrebbe secondo Fredric Jameson aggiunto alle pulsioni utopiche variamente emergenti nella vita quotidiana (quelle messe in luce da Bloch), la possibilità del programma utopico, una nuova linea sistemica e consapevole impegnata nella

90 Anonimo, Romanzo di Alessandro, Palermo, Sellerio, 2005, p. 23 (corsivi miei).

realizzazione di un progetto politico, finanche alla pratica rivoluzionaria92. Oltre a porre un discrimine fondamentale fra due distinte linee di utopismo, l’opera di Moro riesce a piegare il racconto di viaggio verso la descrizione di un modello teorico che innova rispetto alla trattatistica precedente, incentrata sulla figura del principe più che sulla struttura dello stato e svolta attraverso il modulo parenetico dell’esortazione:

L’Utopia rappresenta una rottura con la tradizione sotto entrambi gli aspetti: al modello del principe sostituisce il modello della città; alla parentesi sostituisce il paradigma allo stato puro, il quadro teorico che rappresenta il rovesciamento totale della realtà cui intende contrapporsi93.

Questa rottura, la stessa che porterà la cartografia moderna alla creazione di precoci vincoli nazionali basati sull’appartenenza al territorio contro i doveri di sudditanza al monarca94, è forse l’esempio più paradigmatico della spazializzazione rinascimentale delle utopie politiche. Lo stratagemma del microcosmo adottato da Moro ha però anche un valore meno generico: coniugando utopia insulare e utopia politica, fonde e rinnova in termini spaziali i modelli di due tradizioni immaginative che avevano caratterizzato la rappresentazione medievale dell’Oriente e che avevano trovato in Marco Polo la loro autonoma consacrazione. Spariti giardini edenici, animali mostruosi e palazzi incantati, l’utopia politica dell’impero e quella insulare del microcosmo per il grado minimo di rappresentazione da loro richiesto sono infatti le sole ancora possibili nella carta geografica rinascimentale svuotata dei tradizionali descrittori. A Venezia nel Cinquecento la loro fortuna sarà strepitosa: la prima alla base di un proliferante discorso sull’impero ottomano e la sua ambizione alla monarchia universale, condotto attraverso trattati umanistici, relazioni diplomatiche e soprattutto racconti del viaggio a Costantinopoli; la seconda a fondamento della mitografia veneziana stessa e della rappresentazione del proprio impero marittimo, costituito da isole e città costiere insularizzate secondo un procedimento di idealizzazione cartografica (si pensi agli

92 Jameson, F., Il desiderio chiamato utopia, cit., pp. 17-26.

93 Isnardi Parente, M., Prefazione a Moro, T., L’Utopia o la migliore forma di repubblica, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. XII.

94 Il caso inglese, con tutte le sue implicazioni in termini di sovversione all’ordine costituito, è quello che è stato il più chiaramente portato alla luce, vedi Helgerson, R., The Land Speaks: Cartography,

Chorography, and Subversion in Renaissance England, in Greenblatt, S., a cura di, Representing the English Renaissance, Berkeley, University of California Press, pp. 326-361.

isolari). Ma se l’utopia insulare è internamente sovversiva, dal momento che trae la propria validità dalla possibilità di frammentazione offerta dallo spazio omogeneo della carta rinascimentale, per poi contraddirne i codici di funzionamento annullando il principio della scala95, quella imperiale per la propria ambizione totalizzante risulta alla fine la più coerente con il progetto di controllo del territorio connesso a ogni operazione moderna di mappatura.

Di questa utopia imperiale, di cui il libro di Marco Polo è una sorta di apoteosi medievale, il denso apparato di Ramusio non sembra portare traccia. Eppure dopo aver indicato la direttrice che collega la città di S. Marco alla capitale mongola, guidando prima il lettore da Venezia a Costantinopoli, attraverso una rapida e densa rievocazione della Quarta Crociata, e poi, attraverso la testimonianza di Chaggi Memet, seguendo le vie carovaniere da Costantinopoli fino in Persia, la voce del segretario appena penetrata nel misterioso e inaccessibile Catai si ferma di fronte alla ferrea volontà dell’imperatore e cede a quella di Marco Polo: «la qual caravana non lassano costoro che penetri più avanti di Succuir e Campion, né similmente alcun mercante che sia in quella, eccetto che se non andasse ambasciatore al gran Cane»96.