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L’Esposizione aveva dunque fatto al lavoro di Paolo una larga pubblicità, ulteriormente assicurata, prima nel 1574 e poi nel 1583, dall’uscita della seconda e della terza

52 Questi gli attributi cancellereschi nei documenti sia di Giovanni Battista, segretario del Consiglio dei Dieci, sia del nipote Girolamo, segretario del Senato, mentre Paolo Ramusio è semplicemente «fedelissimo» (vedi ATD II-III-IV-V). Sul ruolo politico e la posizione sociale dei segretari si vedano Trebbi, G., Il segretario veneziano. Una descrizione cinquecentesca della cancelleria ducale, in «Archivio Storico Italiano», CXLIV (1986), pp. 35-73 e Zannini, A., Burocrazia e burocrati a Venezia in

età moderna: i cittadini originari (XVI-XVIII), Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1993.

Il giovanissimo segretario della Repubblica Giovanni Carlo Scaramelli, apprestandosi nel 1570 ad accompagnare l’ambasciatore Girolamo Lippomano in Savoia, così raccomanda a se stesso in un memoriale: «come secretario di Repubblica doverò sapere che ’l carico mio consiste in tre cose: negoziare, servire et tener secrete le cose negoziate et scritte. Si negozia con diverse persone, con l’ambasciator padron proprio, col prencipe a chi si è destinati, con i suoi consiglieri, con altri ambasciatori, et finalmente col rimanente della Corte […] però mi converà esser molto circospeto et con il non creder leggermente ogni cosa et con il non diffidar sempre di ciascuno, tener il negozio in modo bilanciato, ch’io non sia per cader mai in sospetto di poca prudenza o di mala volontà» (il testo del manoscritto settecentesco conservato in un codice miscellaneo della Biblioteca Marciana di Venezia è stato pubblicato da Maggio, S., Il «Memoriale a se stesso» di Giovanni Carlo Scaramelli, diplomatico

veneziano del secolo XVI, Tesi di laurea, Università di Trieste, a. a. 2000-2001, pp. CXVI-CXVIII).

53 Cade in questo senso, o quantomeno si rimodella, l’ipotesi formulata da Sylviane Albertan-Coppola e Marie-Christine Gomez-Géraud secondo cui l’ostracismo dei Turchi nelle Navigazioni esprima un progetto strategico di accerchiamento dell’Impero Ottomano, circondato e frenato nelle sue ambizioni da veneziani, cristiani copti d’Etiopia, persiani e portoghesi. Vedi Albertan-Coppola, S. e Gomez-Géraud, M.-C., La Collection des «Navigationi e viaggi» (1550-1559) de Giovanni Battista Ramusio:

mécanismes et projets d’après les paratextes, in «Revue des Etudes Italiennes», XXXVI (1990) 1-4, p.

edizione del volume (RB 8 e 9), che pur registrando entrambe l’inserimento di nuove relazioni – probabilmente su disegno di Tommaso Giunti e dello stesso figlio di Ramusio – ne mantenevano il testo integrale, mentre una quarta edizione veniva infine data alle stampe nel 1606 senza sostanziali modifiche rispetto alla precedente (RB 10). Ma ritornando al primo annuncio dell’incarico, va tuttavia detto che esso arrivava in un momento in cui l’emergenza da più parti di riflessioni teoriche circa i compiti e gli strumenti dello storico non faceva che dare risalto alla gravità della crisi che la pubblica storiografia veneziana, ufficialmente inaugurata sullo scorcio del secolo precedente, stava ora attraversando. Animata inizialmente da un’esigenza puramente celebrativa, poco interessata a cogliere il senso profondo della politica veneziana, questa storiografia aveva trovato la propria consacrazione nella pompa formale e nello stile aulico di Marcantonio Sabellico. Il gradimento della committenza, la predilezione per l’ornato retorico, che com’è noto penalizzerà il più competente conoscitore di cose veneziane del secolo, Marin Sanudo, era stata all’origine della successiva e infelice nomina di Andrea Navagero, che per la prematura morte non aveva potuto attendere al proprio compito. Pietro Bembo, eletto nel 1530 alla carica di pubblico storiografo e custode della biblioteca nicena, doveva in altro modo deludere le aspettative delle autorità, consegnando un’opera decorosa a livello formale e piatta a livello narrativo, ma che non risparmiava ad alcuni dei propri protagonisti né aspre invettive moraleggianti né pungenti frecciate personali. Il disappunto per il piglio polemico e spregiudicato di Bembo costringeva così i committenti nel 1551 a pubblicarne l’opera solo dopo attente revisioni e abbondanti espurgazioni. Le sfortunate prove che la pubblica storiografia aveva dato di sé in queste circostanze imponevano una pausa riflessiva e così il governo, prendendo atto di questa crisi, rinunciava per il momento a eleggere un successore, che sarebbe arrivato soltanto nel 1577 con la nomina di Alvise Contarini. Gaetano Cozzi avverte giustamente che la decisione non derivava da disinteresse, ma al contrario da eccessiva apprensione circa le metodologie, le finalità e gli strumenti formali a disposizione degli storici54. Prova ne sia da una parte la decisione

54 «Non che questa crisi della “pubblica storiografia” significasse disinteresse dei Veneziani per la storia, o che lo stesso governo veneziano non fosse più convinto dell’utilità che se ne poteva trarre. Anzi la crisi attuale era, com’è chiaro, sintomo di troppa, anziché di poca considerazione» (Cozzi, G., Cultura politica

presa nel 1551 di far compilare a un segretario gli annali in volgare della Repubblica, e dall’altra quella di affidare a Paolo Ramusio la stesura latina di un’opera sull’impresa di Costantinopoli. E prova ne sia anche che erano proprio quegli gli anni in cui un’apposita letteratura sulla storiografia segnava in ambito umanistico la «presa di coscienza, anche in sede teoretica, di uno strumento poderoso di azione politica e religiosa, di diffusione e di critica di dottrine, di idee, di sentimenti»55.

Proprio con una riflessione sul tema della storia magistra vitae si apre, due anni dopo il decreto del Consiglio dei Dieci, in quello stesso 1559 in cui esce l’Esposizione, la dedica della nuova edizione aldina dei Commentari latini di Giulio Cesare (ATD VI) che Paolo Manuzio, figlio del celebre Aldo il Vecchio, indirizza al più giovane omonimo: «qui magistram vitae dixit esse historiam, nae ille, Paule Rhamnusi, et dixisse vere, et preclare sensisse mihi videri solet»56. Se l’osservazione degli eventi passati, presenti e futuri altro non è, dice Manuzio, se non prudenza e saggezza, la storiografia, che di questi eventi ritrova le cause e le ragioni, può ben dirsi superiore a qualsiasi altro genere letterario. La superiorità della storia è garantita poi da due elementi: la dignitas, che consiste nell’elevatezza degli argomenti trattati («imperium, salus, gloria»)57, ed è massima nelle cose romane, ma soprattutto la voluptas, ovvero la capacità dei fatti narrati di coinvolgere emotivamente il lettore (che «exspectatione suspendunt, pascunt gaudio, metu macerant»)58 grazie a una loro drammatica resa visiva:

vides, ut in tabula picta, adversa ducum excellentium stratagemata, artes, insidias; spem potiundi, metum amittendi; caesos exercitus, urbes captas, imperia deleta; age, fortuna commutata, cadere insultantem, victum exsurgere; eodem paene momento laetitiam pelli maerore, succedente, mareoremque laetitia59.

e religione nella «pubblica storiografia» veneziana del ‘500, in «Bollettino dell’Istituto di Storia della

Società e dello Stato Veneziano», V-VI (1963-1964), p. 236).

55 Ivi, p. 215.

56 Caesar, G. I., Hoc volumine continentur Commentariorum de bello Gallico libri VIII, De bello civili

Pompeiano libri III, De bello Alexandrino liber I, De bello Africano liber I, De Bello Hispaniensi liber I,

Venezia, Aldus [Paolo Manuzio], 1559, c. IIr. La dedica sia per l’interesse sia teorico che stilistico viene riportata integralmente in appendice (ATD VI).

57 Ivi, c. IIv.

58 Ivi, c. IIIr.

Tuttavia la strada che si apre al giovane Paolo, cui è stata affidata dal governo la narrazione delle gloriose e memorabili imprese della città di Venezia («Venetae urbis ita narres praeclara facinora»)60, è scivolosa, incerta, piena di ostacoli («tibi ineunda via est quantumvis lubrica, incerta, impedita»)61 e richiede al viaggiatore un grado di volontà e concentrazione assoluti62, perché i pericoli in agguato sono tanti(«an tu potes labi, potes errare, potes usquam offendere»)63. A guidare e soccorrere gli sforzi di Paolo, che andranno commisurati alla committenza, all’età, alle aspettative degli altri64, saranno l’esempio e la dottrina del padre Giovanni Battista, le cui eccezionali virtù risplendono in questa città, ma il cui nome, consegnato all’eternità, si è sparso per il mondo intero («cuius elucent in urbe nostra virtutes eximiae, nomen autem, aeternis consignatum, atque impressum ingenii monumentis, per orbem terrarum fama dissipavit»)65.Nella biografia di quest’ultimo, dopo averne elogiati il padre, il famoso giurista Paolo il vecchio, e lo zio Girolamo, eccellente arabista traduttore di Avicenna, Manuzio trova infine il modo di collegare la propria opera con quella di Paolo. Il collegamento è ovviamente di ordine geografico, Ramusio avendo in giovane età acquisito, nel corso di una lunga missione diplomatica in Francia, sia una perfetta padronanza della lingua (tale da farne l’unico possibile interprete dell’oscura e antica prosa di Villehardouin)66 sia un’invidiabile cognizione del territorio francese quale si presentava ora e come doveva essere ai tempi della conquista romana. Si spiega così la

60 Ivi, c. IVv.

61 Ivi, c. IVr.

62 «Nam cum tibi Veneta respublica bellum illud memorabile, omniumque difficillimum, quod Henrico Dandulo duce adversus Byzantios gestum est, latina oratione tradiderit explicandum, magnisque etiam tuam industriam praemiis honestandam decreto publico censuerit, debes eniti vehementer, ac omnes ingenii tui nervos contendere, ne quis te tanto imparem oneri fuisse unquam putet» (ivi, c. IIIv).

63 Ivi, IVr.

64 «Consideres etiam atque etiam, quid susceperis, a quibus commissum, qua tua aetate, qua omnium expectatione. Venetam scribis historiam, nec universam, sed, quod in ea maxime putatur excellere: scribis principum reipublicae decreto; scribis adolescens: qua etate magnas res aggressos vel insignis admodum manet gloria, vel temeritatis nota sempiternae. quibus ex rebus, et quod ante studiorum tuorum praestantes fructus edidisti; et quod patris tui virtus tua virtus putatur, nec tibi sunt petenda extrinsecus quae domi tuae nascuntur; orta est inter homines opinio, historiam te nobis daturum egregiam: in qua Venetae urbis ita narres praeclara facinora, ut aliena cum laude tui nominis immortalitatem coniungas» (ivi, c. IVr).

65 Ibidem.

66 «Nam cum eas res, quae tibi sunt latinis litteris tractandae, magna ex parte liber, ut audio, contineat, Gallica scriptus vetere lingua, tum ipsa perobscura, tum multis praeterea diversarum linguarum vocabulis permista, atque confusa; eum porro librum pater tuus et unicum habeat, et unus ipse (de nostris quidem hominibus) optime omnium intelligat» (ivi, cc. IVr-v).

decisione di dedicare l’opera a Paolo, il quale da una parte offre a Manuzio il pretesto per una riflessione sull’utilità della storia ma dall’altra si candida, per gli insegnamenti paterni illustrati come sempre da una corrispondente cartografia («in sermone non secus ac in tabula picta»), il migliore destinatario di questi Commentari:

Accedit illud, quod idem pater tuus cum in Gallia, Reipublicae caussa, diu vixerit, eamque provinciam, Rege Ludovico XII, universam fere peragraverit; magnam eorum locorum partem, de quibus mentionem in his commentariis fieri vides, praesens ipse novit, eaque tibi in sermone, non secus ac in tabula picta, diligenter, verissime ostendere solitus est. Itaque, cum hunc librum ad te statui mittere, illud intellexi, magistrum te habere excellentem in hoc rerum ac locorum Gallicae provinciae studio, parentem tuum67.

L’insistenza di Manuzio su questo punto è rivelatrice: quella che presenta qui, un’opera di storia fondata fin dall’incipit sulla descrizione del territorio («Gallia est omnis divisa in partes tres»)68, offre agli umanisti un modello esemplare del nesso vitale che la storiografia deve intrattenere con la geografia. L’autorevolezza del paradigma classico diventa così ragione per l’umanista non solo di cure filologiche, finalizzate a restituire in maniera precisa e attendibile un testo affollato di toponimi, ma anche di operazioni critiche paratestuali atte a corroborare questo nesso (e magari attirare nuovi compratori). Come annunciato nel sottotitolo dell’opera, i Commentari fin dalle prime pagine offrono al lettore strumenti preziosi per seguire le campagne militare di Giulio Cesare nel teatro dei loro spostamenti, ovvero un corredo cartografico («pictura totius Galliae et Hispaniae, ex C. Caesaris Commentariis»), completato da alcune illustrazioni di diverse città romane commentate da Giovanni Giocondo («pictura pontis in Rheno, item Avarici, Alexiae, Uxelloduni, Massiliae»), e soprattutto da un glossario dei nomi antichi e moderni delle varie località («nomina locorum, urbiumque et populorum Galliae, et Hispaniae, ut olim dicebantur Latine, et nunc dicantur, iuxta litterarum ordinem»)69. Il loro ideatore, Aldo il vecchio, nella prima edizione del 1513 si rivolgeva addirittura agli studiosi commentando, da buon maestro di geografia, una pregiata carta colorata della Gallia nelle sue varie componenti e nei suoi significati, «ut

67 Ivi, c. Vv.

68 Ivi, c. 1v.

facile quis singulas queat parteis cognoscere»70. Certamente la qualità che era stata restituita da Aldo all’opera di Cesare, le correzioni che vi apporta il figlio, ma forse anche la presenza di questi apparati e il rifacimento del sussidio cartografico, valgono alla riedizione del 1559 un notevole e duraturo successo, documentato dalle numerose ristampe che a loro volta garantiscono all’epistola dedicata al giovane Ramusio un’eccezionale diffusione (fig. 4)71.

Le raccomandazioni e l’esempio stesso di Manuzio, come si vedrà, non cadono nel vuoto e i Riformatori e i membri del Consiglio dei Dieci hanno modo di apprezzarlo quindici anni dopo, all’indomani di Lepanto, quando, una volta ricevuta e letta copia dell’opera, in data 13 agosto 1572 possono confermare la buona riuscita del progetto (ATD III)72. Secondo gli obblighi pattuiti rimane ancora però un ultimo lavoro da svolgere per poter finalmente assegnare a Paolo il beneficio promesso: pubblicare in Francia il testo originale della cronaca. Il 30 ottobre dello stesso anno lo storico si sta evidentemente muovendo in questa direzione, dal momento che cerca di confrontare la propria versione della cronaca di Villehardouin con quella in possesso del canonico Claude Paradin, come testimonia il diario del fratello Guillaume, celebre storico lionese: «mio fratello ritornò a Lione per l’affare di cui aveva scritto Rouille per

70 Caesar, C. I., Hoc volumine continentur haec Commentariorum de bello Gallico libri VIII, de bello

civili pompeiano libri III, de bello Alexandrino liber I, de bello Africano liber I, de bello Hispaniensi liber I, Venezia, Aldus, 1513, c. IIIv. Questa edizione è corredata da un’unica bella carta colorata (di cui

Manuzio spiega il significato) che scompare assieme al commento nella seconda edizione del 1519 lasciando il posto a due mappe incolori e più essenziali (Gallia e Spagna, come imiteranno anche le edizioni della seconda metà del secolo). Vedi Fletcher, H. G., Caesar’s Commentaries, in New Aldine

Studies, San Francisco (Calif.), B.M. Rosenthal, 1988, pp. 116-119.

71 L’apparato di commento critico delle successive ristampe per opera di Paolo(1561, 1564, 1566), oltre a mantenere la dedica e le tavole geografiche, registra di volta in volta ulteriori addizioni. Le successive edizioni a cura di Aldo Manuzio il giovane (1570, 1571, 1575, 1576, 1588) che a sua volta rivede e glossa il testo dei Commentari, oltre a datare al 1559 l’ormai lontana dedica a Paolo Ramusio, incrementano il processo, prima ampliando notevolmente (da due a ventuno carte) l’indice dei luoghi con i corrispondenti toponimi moderni, poi inserendo carte geografiche di formato e accuratezza superiori alle precedenti assieme all’aggiunta di molte altre nuove tavole. Ma l’epistola continua a circolare anche nelle numerose riedizioni successive per opera di altri editori veneziani, come in quelle di Giovanni Maria Leno (1580), Fioravante da Prato (1584, 1600) o Matteo Valentino (1597).

72 Archivio di Stato, Venezia, Consiglio dei X, Comuni, registro 30, c. 134r. Della concomitante pubblicazione per ordine della Signoria di un quaderno, oggi perduto, contenente la cronaca in francese si hanno diverse testimonianze, fra cui quella dell’editio princeps della Conquête dedicata alla Repubblica di Venezia (L’Histoire de Geoffroy de Villehardouyn, mareschal de Champaigne et de

Romenie, de la Conqueste de Constantinople, Parigi, Abel Langelier, 1585, c. 2r-v, come segnala Pasini,

A., Sulla versione Ramusiana, cit., p. 267; vedi inoltre Faral, E., Introduction, in Villeharduouin, G. de,

La Conquête de Constantinople, cit.,, p. XLIII; Zorzi, N., Per la storiografia sulla Quarta Crociata, cit.,

recuperare il libro di Geoffroy de Villehardouin per un veneziano di nome Paolo Ramusio che voleva confrontarlo con la sua copia»73.

Ma per il momento non se ne fa nulla. Miglior sorte per il momento non tocca nemmeno al pregiato e imponente codice allestito da Paolo per la versione finale della sua opera in latino che adotta il complicato titolo di Pauli Rhamnusii Veneti de Alexii Isaacii Imperatoris filii reductione et bello Constantinopolitano libri sex ex Gallicis Gotthofredi Villharduini Equitis Franci Campaniae Marescalli Commentariis excerpti (RB 11)74. Dopo aver registrato l’aggiunta, nel 1573, di una dedica ai Capi del Consiglio dei X Pietro Giustinian, Giacomo Foscarini e Bartolomeo Vitturi, in cui la pubblicità manuziana viene ricompensata con il riconoscimento esplicito del modello cesariano, richiamato fin dal titolo (De bello Costantinopolitano)75, il manoscritto, che rimarrà nelle Secreta della Repubblica fino a metà Settecento (quando, per decreto del Senato e interessamento del bibliotecario Marco Foscarini, verrà ceduto alla Libreria di S. Marco)76, deve aspettare ben trent’anni prima di poter uscire a stampa.

Che la realizzazione del progetto editoriale ideato da Giovanni Battista Ramusio sia in fase di stallo, e anzi lontana dal proprio completamento, non significa tuttavia che l’opera rimanga inerte nella sua prigione dorata. Riceve anzi negli anni successivi una delle più alte consacrazioni pubbliche, ovvero lo svolgimento pittorico per opera dei migliori artisti dell’epoca all’interno di quella summa dell’iconografia pubblica veneziana che è costituita dagli interni di Palazzo Ducale. Non lontano dalla Sala dello Scudo, la cui decorazione cartografica era stata poco prima della metà del secolo ideata dal segretario e da Giacomo Gastaldi, in quella ben più importante Sala del Maggior Consiglio in cui, assieme agli episodi relativi alla lotta fra Federico Barbarossa e il pontefice Alessandro III con l’intervento del doge Sebastiano Ziani a favore del secondo, prima dell’incendio del 1577 erano stati immortalati fra i migliori rappresentanti della Repubblica sia Paolo Ramusio il vecchio che lo stesso Giovanni

73 Paradin, G., Le journal de Guillaume Paradin ou la vie en Beaujolais au temps de la Renaissance, Ginevra, Droz, 1986, p. 54.

74 Ramusio, P., Pauli Rhamnusii Veneti de Alexii Isaacii Imperatoris filii reductione et bello

constantinopolitano libri sex ex Gallicis Gotthofredi Villharduini Equitis Franci Campaniae Marescalli Commentariis excerpti, Ms. Marc. Lat. X. 79 (3077).

75 Ivi, c. IIr.

76 Zorzi, M., La Libreria di S. Marco. Libri, lettori, società nella Venezia dei Dogi, Milano, Arnoldo Mondadori, 1987, pp. 276 e 497n.

Battista, troverà sede un ampio ciclo pittorico dedicato all’impresa di Costantinopoli. Il nuovo progetto iconografico della sala, ideato da Cristoforo Sorte, altro grande cartografo al servizio della Signoria, prevede infatti, accanto al rifacimento della precedente serie celebrativa, la rappresentazione di un nuovo tema storico. Nel 1581, quattro anni dopo l’incendio, Francesco Sansovino, membro come Paolo dell’Accademia della Fama, vicino a lui e ai suoi familiari al punto di dedicare loro brani di ampiezza spropositata nella fortunatissima opera Venetia città nobilissima77, illustrava il progetto decorativo che avrebbe sostituito la perduta galleria di personalità municipali e ne indicava la fonte, ovviamente l’opera di Paolo:

Le quali tutte cose consumate dal fuoco del 1577 apportarono gran dispiacere a tutto l’universale, per la perdita delle fatture di tanti valentiuomini e delle memorie di tanti personaggi eccellenti, de’ quali il mondo è rare volte copioso. Rifatta per tanto la sala con nuovi compartimenti per disegno di Cristoforo Sorte, così del soffitto dipinto a istorie di fatti veneti, come da i lati, vi si dipinsero in cambio di una sola due istorie, cioè quella di Federigo predetto e quella dell’acquisto fatto dalla Republica di Costantinopoli, tratta da i sei libri latini dell’acquisto di Costantinopoli, scritti da Paolo Ramusio iuniore secondo i commentarij di Gioffredo Villarduino cavaliero francese, che si trovò presente all’impresa78.

L’accostamento della vicenda della conquista di Costantinopoli a quella, di poco precedente, del Barbarossa risponde a una precisa esigenza di legittimazione ideologica che il lavoro di Paolo avvalorava e che riguardava i fondamenti della politica estera veneziana, nonché la giurisdizione sui propri possedimenti marittimi, in poche parole il riconoscimento stesso dell’autorità della Repubblica nel Mediterraneo orientale: l’imperio del mare. Lo stesso storico precisa nelle prime pagine della Reductione come la prima vicenda avesse sancito solo nominalmente questo diritto e non sia paragonabile alla seconda, che invece questo diritto lo stabiliva materialmente attraverso una dimostrazione di superiorità navale che aveva trovato massima

77 Vedi Donattini, M., Etica personale, promozione sociale e memorie di famiglia nella Venezia del

Rinascimento. Note su Paolo Ramusio seniore (1443?-1506), in Brizzi, G. P. e Olmi, G., a cura di, Dai cantieri della storia. Liber amicorum per Paolo Prodi, Bologna, Clueb, 2007, pp. 328-329.