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Più di quattro secoli dopo, sarà proprio a partire da una critica all’esotismo che l’antropologia si troverà a dover ripensare il luogo e la sua fissità cartesiana. Marc Augé parte infatti dalle definizioni di Certeau per criticare la nozione di luogo antropologico impiegata nelle discipline etnografiche, che implicherebbe una costruzione simbolica dello spazio obbediente alla legge del proprio e geometricamente cristallizzata. Augé intende qui denunciare il congelamento metonimico che peserebbe nell’interpretazione antropologica delle culture, il cui oggetto tradizionale sembra messo in crisi dalla crescente proliferazione surmoderna di nonluoghi (le infrastrutture per il trasporto veloce quanto i mezzi stessi di trasporto)60. Il riferimento a Certeau si rivela dunque polemico, dal momento che Augé parte dal presupposto che «i luoghi vogliono almeno tre caratteri comuni. Essi si vogliono (li si vuole) identitari, relazionali e storici»61. Il paradosso si spiega risalendo al vizio originario inscritto nei fondamenti metodologici dell’etnografia novecentesca, ovvero in quella teoria dell’osservazione partecipante di Bronislaw Malinowski che assegnava alla disciplina il compito di procedere per atti di localizzazione. Dalla sua tenda piantata al cuore del villaggio, l’etnografo rivendicava la possibilità di una visione globale sul campo, che era il prodotto di una potente strategia localizzante. Contro le pericolose astrazioni connesse a questo congelamento identitario del luogo, Clifford Geertz già negli anni Settanta aveva insistito sull’esigenza di un ritorno alle superfici dure della vita, ripensando innanzitutto il luogo come la sede vissuta della pratiche di osservazione e di interpretazione degli etnografi: «il luogo della

59 Ceserani, R., I fiumi nelle mappe dell’immaginario, in Fiorentino, F., a cura di, Topografie letterarie, Roma, Carocci, 2007, p. 96.

60 Ne deriva l’esito apparentemente paradossale di rovesciare quello che Certeau e Merleau-Ponty chiamavano spazio antropologico in un luogo statico, regolamentato e controllabile.

61 Augé, M., Non-lieux, Parigi, Seuil, 1992; trad. it, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della

ricerca non è l’oggetto della ricerca. Gli antropologi non studiano i villaggi (le tribù, le città, i quartieri…): studiano nei villaggi»62. Anche per James Clifford è ora di ripensare, su suggerimento di Certeau, a questa ricerca, il lavoro sul campo, in termini di pratica spaziale oltre che discorsiva63. Come osservazione partecipante questa pratica nel passato si è configurata come «una forma di residenza specifica per stile, qualità e durata»64,ma è oggi sempre meno riconducibile a un soggiorno vincolato, quanto a una serie di incontri di viaggio. Tuttavia, avverte Clifford, pensare alla costruzione delle culture nei termini mobili del viaggiare piuttosto che in quelli stabili dell’abitare espone ad altrettanti rischi: sul viaggio pesa un pregiudizio maschile, nelle istituzioni e nei discorsi del viaggio è del resto innegabile il generale predominio delle esperienze maschili; pesa inoltre un pregiudizio razziale e di classe, per cui gli spostamenti legati a mobilità coatte vengono marginalizzati; si rischia in definitiva, facendo dell’informatore un viaggiatore, di dar luogo a un altro congelamento metonimico. Infatti dalla «nozione per cui certe classi di persone sono cosmopolite (i viaggiatori), mentre tutti gli altri sono “locali” (i nativi), appare l’ideologia di una specifica (e fortissima) cultura del viaggio»65. Attraverso spregiudicati lavori di comparazione il termine “viaggio” andrebbe di conseguenza emancipato «da tutta una serie di significati e pratiche europei, letterari, maschili, borghesi, scientifici, eroici e ricreativi»66. Ma se oggi veniamo continuamente confrontati a processi di dislocazione e a culture translocali, se diaspore e migrazioni attestano l’esistenza di zone di contatto e rivelano quanto i confini siano instabili e soggetti a rinegoziazioni, d’altro canto è impossibile eludere le rivendicazioni

62 Geertz, C., The Interpretation of Cultures. Selected Essays, New York, Basic Books, 1973; trad. it.,

Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 61.

63 Il pretesto per questa interrogazione sul luogo come campo d’indagine dell’antropologia è offerto da un racconto autobiografico di Amitav Gosh che registra la sorprendente associazione di un tranquillo e tradizionale villaggio rurale sul Nilo (il fiume di David) alla sala d’aspetto di un aeroporto (il nonluogo di Augé). Le aspettative di Gosh, tradite dalla sconcertante constatazione di quanto le vite degli abitanti del villaggio siano condizionate da esperienze di viaggio, aiutano Clifford a rivelare i pericoli sottesi alla tradizionale ricerca antropologica e ai suoi luoghi comuni: cancellazione dei mezzi di trasporto, delle città capitali, dei contesti nazionali, della sede universitaria di riferimento, dei siti e dei rapporti di traduzione (Clifford, J., Routes. Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Cambridge (Mass.)-Londra, Harvard University Press, 1997; trad. it., Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 7-20).

64 Ivi, p. 31.

65 Ivi, pp. 48-49.

dei nuovi localismi, dei nuovi impegni nella determinazione di identità coerenti. Conviene allora riconcettualizzare l’«habitat dell’uomo in termini di spostamento non meno che di soggiorno»67, «ripensare le culture come siti di residenza e di viaggio, prendere sul serio le conoscenze prodotte dal viaggio»68, non sostituendo alla figura culturale del nativo quella interculturale del viaggiatore ma portandone alla luce gli intrecci, gli unici che possono rivelarne la storicità. Il lavoro dell’antropologo si ripensa allora come itinerario, segnato «da una storia di localizzazioni e da una localizzazione di storie»69, pratica spaziale del «viaggiare-nel-risiedere, risiedere-nel-viaggiare»70.

Queste riflessioni complicano ulteriormente anche la lettura dell’aneddoto di David: indicano infatti i sottintesi ideologici connessi alla figura del viaggiatore, figura che Ramusio sembra decisamente preferire in quanto soggetto e oggetto di sapere, a tutto svantaggio dei desideri e delle richieste di residenza avanzate da David, sia presentemente a Venezia sia futuribilmente in Palestina. Più che a un viaggiatore, più che a un misterioso ed eccezionale esemplare etnico, più che a un informante insomma, bisognerebbe guardare a David come persona nella storia, o meglio come persona, nel senso latino del termine, nelle tracce testuali del passato che sole ci permettono di

67 Ivi, p. 8. Un esempio negli studi culturali di questo ripensamento è rappresentato dalla proposta anti-anti-essenzialista di Paul Gilroy di rifondare il concetto di identità nera sull’esperienza diasporica del

Black Atlantic, un mondo in movimento, in alcun modo riconducibile all’aggregazione di varie storie

nazionali e inafferrabile come unità statica definita dalle sue strutture formali e legali. La scelta di privilegiare le immagini del mare, della nave, del viaggio, indica in questo caso l’urgenza di sottrarre (de-eccezionalizzare) l’analisi della storia dei neri alle maglie del particolarismo nazionale: «la terra e il mare indicano diverse ecologie d’appartenenza che si rivelano nella contrapposizione tra geografia e genealogia» (Gilroy, P., The Black Atlantic. Modernity and Double Consciousness, Londra-New York, Verso, 1993; trad. it., The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Roma, Meltemi, 2003, p. 19). Ma non solo: dimostrando la mobilità e la storicità del contesto diasporico atlantico in cui il pensiero politico dei neri si è sviluppato (dal panafricanismo alla negritudine, dal nazionalismo nero al pensiero africalogico contemporaneo) Gilroy ha decostruito dall’interno le sue pretese all’assolutismo etnico, le sue rivendicazioni a favore di un’essenza nera di tipo ontologico, una sorta di

black subjectivity al centro di un fondamentale afrocentrismo (che da Frederick Douglass a Michael

Jackson evoca ossessivamente anch’esso mutatis mutandis la valle del Nilo). Rifondando il concetto di identità nera non più su base etnica, ma sull’esperienza moderna della doppia coscienza e del terrore razziale, Gilroy reagisce allo stesso tempo al soggettivismo, alla frammentazione e all’inettitudine politica dei cultural studies, le cui retoriche postmoderne dell’ibridazione e della creolizzazione delle identità in realtà nasconderebbero persistenti concezioni iperorganiche della cultura.

68 Clifford, J., Strade, cit., p. 42.

69 Ibidem.

«parlare con i morti»71. Ma soprattutto confermano il sospetto che i ripetuti tentativi di identificazione di David siano rivolti all’identificazione proprio di quel luogo antropologico e geometrico sul banco d’accusa di Augé e Clifford, quello che ne rivelerebbe l’identità e fornirebbe una sorta di spiegazione agli eventi eccezionali della sua esistenza. I modi di soggettivazione di David tuttavia pongono una sfida non banale a un’equazione del genere, lasciando al suo posto un vuoto inquietante per gli studiosi e le studiose che, molto più di Ramusio, vi hanno cercano la formula magica per interpretarne le tracce sparpagliate sulle coste mediterranee.

In questi sviluppi l’impegno di Lefebvre e Certeau nell’emancipazione dello spazio cede man mano al progetto di un ripensamento dei luoghi delle culture: la prospettiva inizia a rovesciarsi. Augé faceva iniziare la sua critica al luogo con la definizione che Aristotele ne aveva dato, ovvero di superficie prima e immobile di un corpo, dimostrando quanto esso scontasse ancora oggi in antropologia la penitenza di un’antica staticità. Il geografo Yi-Fu Tuan sembra quasi muoversi dalla stessa definizione che, per quando fredda nella sua astrazione geometrizzante, si fonda sulla presenza di corpi ognuno dei quali occupa il proprio luogo. Diversamente da Augé, anteponendo cioè il corpo alla sua immobilità, Tuan ne riafferma con risoluzione il ruolo nella produzione tanto di spazi [space] quanto di luoghi [place], le cui nozioni concorrenti e interdipendenti, articolate all’interno di una cornice strutturalista, sono in molti punti sovrapponibili a quelle di Certeau [lieux/espace], ma a patto di invertirne i termini:

Lo “spazio” è più astratto del luogo. Ciò che inizialmente è uno spazio indifferenziato diventa un luogo man mano che lo conosciamo meglio e lo investiamo di valori. Gli architetti commentano le qualità spaziali di un luogo; possono allo stesso modo commentare le qualità locali dello spazio. Le idee di “spazio” e “luogo” necessitano l’una dell’altra per definirsi. Grazie alla sicurezza e alla stabilità del luogo siamo coscienti dell’apertura, della libertà e della minaccia dello spazio, e viceversa. Inoltre, se pensiamo allo spazio come a ciò che permette il movimento, allora il luogo

71 Greenblatt, S., Shakespearean Negotiations. The Circulation of Social Energy in Renaissance England, Oxford, Clarendon, 1988; trad. it., La circolazione dell’energia sociale, in Fortunati, V. e Franci, G., a cura di, Il neostoricismo. Nuova tendenza della critica anglo-americana, Modena, Mucchi, 1996, p. 81.

significa pausa; ogni pausa nel movimento rende possibile la trasformazione di un posto [location] in un luogo72.

Se inoltre il «luogo è un tipo di oggetto» e «i luoghi e gli oggetti definiscono lo spazio, attribuendogli una personalità geometrica», quest’ultimo può essere, con ampi margini di sovrapposizione, di tipo mitico, pragmatico e astratto o teorico, ma rimane comunque fondato sulle primarie esperienze spaziali. I principi fondamentali dell’organizzazione spaziale derivano infatti, secondo Tuan, da una parte dalla postura e dalla struttura del corpo umano, dall’altra dalle relazioni, siano esse prossime o distanti, fra gli esseri umani: «orizzontale-verticale, sopra-sotto, davanti-dietro e destra-sinistra sono posizioni e coordinate del corpo che sono estrapolate nello spazio […] è la presenza del corpo a imporre uno schema allo spazio»73. È l’istituzione, legata soprattutto a condizioni di visibilità, di un campo d’attenzione attorno a un oggetto stabile a permettere la creazione del luogo, ma questa stabilità non implica in alcun modo l’atrofia cartesiana, costituendo anzi l’elemento necessario alla formazione di un piccolo mondo, fatto di presenze e relazioni74.

In questa comune derivazione dal corpo, lo spazio e il luogo trovano ragione di codipendenza: polarità simultanee eppure irriducibili dell’esperienza, indiscernibili allo stato puro, necessitano l’uno dell’altro per essere tali, lo spazio del movimento da un luogo all’altro, il luogo dello spazio che ne definisce l’altrove. Rispetto al corpo la distinzione si formula su un antagonismo fra movimento dello spazio e pausa del luogo, fra mobilità e visibilità, distinzione che coinciderebbe con quella di Certeau fra le operazioni (andare, fare) che creano lo spazio, lo effettuano, e le conoscenze (vedere) dei luoghi che li identificano. Senonché si rischia qui di incorrere in una grossa confusione, perché alle pratiche chiamate in causa non vengono assegnate le stesse qualità, anzi i segni vi si ritrovano invertiti: per Certeau il movimento nello spazio indica la concretezza che trasgredisce l’ordine ideale e la legge statica dei luoghi, mentre per Tuan al contrario il movimento presuppone un’astrazione che permette di uscire dalla

72 Tuan, Y.-F., Space and Place, cit., p. 6.

73 Ivi, pp. 35-36.

sicurezza del luogo (la casa innanzitutto, ma anche la città, la nazione) che è sì la dimensione più controllata della nostra esistenza, ma anche la più concreta. Il luogo viene creato quando il movimento ha una battuta d’arresto, che dà il via a un’appropriazione degli spazi non predeterminata, fra le esperienze più concretamente materiali e corporee possibili.

La discrepanza sembra avere due ragioni. Certeau, per mettere in luce i modi in cui le persone inventano il proprio quotidiano, conduce un’accesa critica ai sistemi normativi, alle grammatiche dell’esistenza, e finisce per assegnare al luogo un segno negativo e allo spazio uno positivo. Tuan ha un approccio a prima vista più neutrale, malgrado la sua analisi completi una lunga ricerca precedente dedicata alla topophilia, all’attaccamento ai luoghi ovvero alle varie modalità con cui gli esseri umani creano dei «legami affettivi con l’ambiente materiale»75. Mentre Tuan sembra rielaborare i termini del senso comune, che tendono ad attribuire una qualità oggettiva allo spazio e una più soggettiva al luogo, per scardinare la subordinazione del secondo al primo vigente nei dizionari76, Certeau polemicamente milita a favore di una nuova idea di spazio che contesti la tirannia di quello geometrico, euclideo e cartesiano, squalificando quest’ultimo proprio in quanto ordine di luoghi. La seconda ragione è parallela alla prima. Per Tuan le varie forme dello spazio significano movimenti le cui condizioni di possibilità sono gradi diversi di simbolizzazione e astrazione: la continuità, l’omogeneità e l’isotropismo dello spazio dell’estensione della geometria euclidea ne sarebbero l’esempio più sofisticato. Al contrario per Certeau il movimento disobbedisce alla rigidità delle regole astratte della mappa: in conclusione convergono entrambi nell’opporre delle tattiche a delle strategie ma per realizzare la compatibilità della contrapposizione ne andrebbe bruscamente invertita la terminologia.

Dal punto di vista di Certeau Ramusio astrae, facendo del viaggio di David una strategia (una scansione di lieux), mentre il racconto dell’altro crea un campo d’azione a

75 Tuan, Y.-F., Topophilia. A Study of Environmental Perception, Attitudes, and Values, New York, Columbia University Press, 1974, p. 93.

76 Grande Dizionario Italiano dell’Uso, cit., v. III, p. 105: «Luogo: porzione di spazio delimitata idealmente o materialmente […] parte determinata e limitata della superficie terrestre […] punto preciso dello spazio».

delle tattiche (espace), privilegiando gli indicatori di percorso a quelli di mappa. Dal punto di vista di Tuan probabilmente il Summario, sottraendo al Racconto il suo capitale affettivo e identitario, procederebbe a una distruzione di luoghi vissuti funzionale al movimento del dito sulla mappa (pratica legata al corpo anche questa, ma fondata sopra una mobilità astratta, autorizzata dalla logica cartografica, che presuppone un ordine). Tenendo conto dei diversi moventi, l’incongruenza rimane secondaria rispetto alla sostanziale solidarietà dei contenuti, per cui i termini impiegati da Tuan si rivelano i più adatti: spazio come astrazione, ordine, presupposto del movimento, rispetto a luogo come materialità, qualità, insistenza, attribuzione di valori. A dimostrare questa compatibilità, a illustrare meglio quello che qui è in gioco, il racconto delle avventure del falso messia offre un esempio paradigmatico. Il 20 adar 5283 (7 marzo 1523), David si reca a Hebron per visitare la grotta di Makpelah, dove sono venerate le tombe dei patriarchi. La descrizione inizialmente si organizza attorno a indicatori di mappa: le tombe vengono viste, identificate e ne viene esposto l’ordine di coesistenza.

I guardiani della grotta corsero a baciarmi le mani e i piedi […] mi mostrarono poi sul lato sinistro una piccola moschea in cui c’è la tomba di Sara nostra madre. In mezzo, tra la tomba di Abramo e quella di Sara vi è un luogo di preghiera degli ismaeliti. Sopra la tomba di Abramo c’è quella di Isacco nella grande moschea, e vicino la tomba di Rebecca sopra quella di Sara. Di sotto, ai piedi della tomba di Isacco, c’è il monumento della tomba di Giacobbe in un’altra grande moschea, e vicino la tomba di Lea, quasi di fronte a quella di Sara.

David però sa che quelle tombe sono fittizie, e insiste perché gli venga mostrata la grotta sotterranea dove si trovano le autentiche sepolture:

mi condussero all’entrata della grotta sulla bocca di un pozzo dentro il quale c’è una lampada accesa giorno e notte. Calarono il lume dentro il pozzo con una corda e dalla bocca del pozzo vidi l’apertura di una porta della grandezza di un uomo e credetti che la grotta fosse veramente questa. Me ne rallegrai e feci allontanare quegli ismaeliti per pregare lì dove stavo e recitare una preghiera completa. Chiamai poi i guardiani più vecchi e dissi loro che quella non era l’entrata della grotta, che ce ne doveva essere un’altra e che anticamente l’entrata era nel centro della grande moschea, dove c’è il monumento della tomba di Isacco. Chiesi che mi mostrassero il luogo di quell’entrata; andai con loro, tolsero i tappeti dal pavimento della moschea e mi mostrarono il luogo della porta

chiuso con grandi pietre e piombo in modo che nessuno possa togliere la serratura. Feci perciò ricoprire il terreno con i tappeti e domandai se sapessero chi avesse chiuso la porta della grotta. Estrassero un libro e lessero davanti a me. In quel libro era scritto che un re aveva costruito la porta della grotta dopo che gli ismaeliti avevano preso ai cristiani quel luogo santo. Successe che allora il re mandò quattro uomini alla grotta, ognuno di loro con un lume in mano; essi vi rimasero circa un’ora e quando uscirono tre di loro morirono subito e il quarto rimase muto per tre giorni. Al quarto giorno il re che lo aveva mandato gli domandò cosa aveva visto nella grotta e quello raccontò loro: «Ho visto queste immagini: Abramo nostro padre in un letto nel luogo del monumento della tomba che hanno fatto sopra e tutto intorno al letto c’erano lumi e molti libri e sopra il letto belle coperte; e vicino ad Abramo nostro padre, Sara nostra madre; Isacco e Rebecca sopra la testa di Abramo e Sara, con luci tutt’intorno al letto. Su ogni letto, poi, una figura di uomo per l’uomo, di donna per la donna. Le lampade che avevamo in mano si erano spente, ma nella grotta brillò una grande luce come quella del sole. Viste tutte queste cose ci avvicinammo all’uscita, e dentro la grotta c’era un buon profumo d’incenso. Camminavamo tutti e quattro davanti alla tomba di Rebecca, quando la figura dell’uomo che era sul letto di Isacco gridò contro di noi a gran voce, così che restammo senza fiato, finché uscimmo dalla grotta». Questa è la descrizione delle tombe e la costruzione della porta che quel re fece allora chiudere fino al giorno d’oggi, e queste furono le parole del quarto che era rimasto prima muto. Udito ciò rimasi a pregare sulla bocca del pozzo, guardando l’apertura della grotta tutta la notte di sabato fino all’alba. Il giorno dopo rimasi lì dalla mattina alla sera e nella notte di domenica pregai ancora sulla bocca della grotta senza dormire fino al mattino. Infatti i settanta anziani mi avevano detto che avrei ricevuto un segnale; me ne stavo perciò lì meravigliato in silenzio per sapere che cosa avrei visto. Ed ecco che la mattina di domenica, prima dell’apparire del sole, mi chiamarono i custodi con grande allegria e mi dissero: «Signore nostro, figlio del nostro signore Profeta, alzati e rallegrati con noi; ci è sopraggiunta una grande gioia, è sgorgata l’acqua nella fonte della moschea dopo quattro anni che non succedeva». Andai con loro per vedere quell’acqua bella e limpida che arrivava a quella fonte da terra lontana77.

Cos’è successo dall’inizio alla fine del passo? Gli indicatori di mappa hanno lasciato il posto a quelli di percorso, la strategia dell’esposizione è stata abbandonata a favore dell’improvvisazione delle tattiche, i guardiani da espositori di conoscenze sono diventati personaggi attanti, si sono create delle relazioni. Sono state calate delle lampade, tolti dei tappeti, fatte delle domande, presi dei libri, effettuate delle visite.

Addirittura c’è stata la contestazione del quadro iniziale che ha provocato la ricerca della