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1. Finalità

Nel dipanarsi delle argomentazioni volte a confermare l’esistenza del potere di indagine del difensore, invitante potrebbe apparire la tentazione di affidare alla legge professionale il nobile compito di legittimare la libertà d’azione dell’indagatore privato.

Ed invero, se il faticoso esordio del difensore inquirente sullo scenario processuale fosse da imputare unicamente alla difficoltà culturale di ammettere l’esplorazione attiva

del luogo del crimine ad opera di un soggetto partigiano, nella solida persuasione della sua ontologica inclinazione ad alterare la genuinità degli elementi disponibili con irreparabile pregiudizio per l’accertamento della verità, la conseguenza sarebbe obbligata. Difatti, tanto più serrate si dimostrassero le regole professionali disciplinanti i doveri del difensore nelle indagini difensive tanto maggiore dovrebbe essere il riconoscimento normativo del libero diritto di difendersi indagando, sul presupposto che il baluardo deontologico a garanzia di correttezza e lealtà dell’avvocato funga da sufficiente antidoto a presunti pericoli di inquinamento delle fonti.

Nondimeno, la storia della deontologia forense dell’ultimo cinquantennio offre la secca smentita di tale equivoca opinione. Nel vigore del codice di rito del 1930, in particolare, la giurisprudenza del Consiglio nazionale forense aveva assunto un intransigente atteggiamento di chiusura in ordine all’ammissibilità del colloquio tra avvocato e potenziale testimone. In svariate occasioni, essa era giunta a censurare condotte, ritenute meritevoli di sanzione disciplinare, pur in assenza di una verifica concreta circa l’effettivo pregiudizio alla genuinità della fonte cagionato dal contatto con il difensore, reputando sufficiente ad integrare l’illecito la mera contravvenzione al divieto di interazione con il futuro testimone, di per sé foriera di suggestioni e turbamenti idonei a limitare la sincerità e l’obiettività della sua deposizione124. Eppure, nonostante una così rigida prescrizione disciplinare, nella legislazione processuale dell’epoca non esisteva alcuna disposizione che legittimasse un potere di indagine del difensore, ritenuto comunque incompatibile con qualsiasi attività di ricerca degli elementi di prova, appannaggio esclusivo dell’inquirente pubblico in quanto unico depositario dell’imparzialità necessaria alla conduzione delle indagini.

In tali pronunce, quindi, si rinviene la clamorosa negazione dell’assunto di partenza da cui il canone inverso trae, invece, limpida dimostrazione: non compete all’etica professionale il compito di legittimare la libertà di indagine del difensore. Anzi, per quanto le regole deontologiche possano fissare un reticolo di rigide prescrizioni disciplinari in cui imbrigliare l’attività difensiva dell’indagatore, non è affatto certo che ciò basti a garantire

124 Cfr. Cons. naz. for., 8 gennaio 1976, in Rass. for., 1978, p. 149. Sulla stessa linea, cfr. Cons. naz. for., 17 febbraio 1973, ivi, 1975, p. 243: “Viene meno ai doveri di dignità e di decoro l’avvocato che, nella qualità di

difensore dell’imputato, si sia recato ad interpellare alcuni testimoni munito di apparecchio registratore ed abbia raccolto le loro deposizioni al fine di produrre in dibattimento i relativi nastri” non essendo

annoverabile tra i mezzi che la legge fornisce per ovviare alle ingiustizie “quello di sentire privatamente

coloro che dovranno essere chiamati innanzi al giudice, raccogliere le loro dichiarazioni ed eventualmente registrarle”; Cons. naz. for., 29 giugno 1985, ivi, 1986, p. 80: “E’ principio consolidato di deontologia professionale che non sia conforme alla dignità e al decoro professionali il comportamento dell’avvocato che, per qualsivoglia motivo, avvicini il testimone per acquisire notizie sui fatti di causa”.

il riconoscimento normativo dell’emancipazione dell’inquirente difensore. A ben vedere, dunque, quest’ultima deve necessariamente radicarsi altrove, così come aliunde va rintracciata la finalità della legge professionale.

Ed invero, è soltanto il sistema che può legittimare la libertà del difensore, allorché si impegni a sciogliere la riserva circa il metodo di accertamento in favore del principio dialettico di formazione della prova, poiché è soltanto assicurando l’impermeabilità della fase processuale rispetto al materiale di provenienza unilaterale che si pongono le condizioni di legittimazione per l’esercizio di un agile ed efficace potere investigativo di parte. Alla deontologia, invece, compete la funzione di giustificare l’affidabilità del risultato investigativo, grazie a canoni di lealtà e correttezza dell’inquirente privato idonei a rivestire con il crisma della genuinità il prodotto di quella ricerca di parte altrove già legittimata.

Nella materia delle indagini difensive, pertanto, esiste una netta distinzione dei ruoli da assegnare, rispettivamente, alla legge processuale e a quella professionale. La prima, ne consacra la libertà; la seconda, ne preserva l’autenticità. E, se la prima separa l’inchiesta preliminare dal processo, la seconda è sufficiente a garantire un persuasivo uso di quell’inchiesta in tutte le sedi che non siano il processo. Segnatamente, nei contesti decisori non afferenti al merito dell’imputazione, ove non è imposto un contraddittorio per la prova eventualmente da sostituire: è qui che l’etica professionale convalida l’affidabilità del risultato, asseverando il prodotto di una libera attività investigativa da altra fonte – la legge processuale, appunto – già legittimata. Per tali ragioni, dunque, la deontologia riveste una finalità ancillare, ma comunque essenziale all’effettivo diritto di difendersi indagando125.

La combinazione, tuttavia, entra in crisi allorché il sistema, pur optando per il metodo dialettico di formazione della prova, in casi eccezionali ammetta le risultanze investigative di parte a sostituire il contraddittorio – inutile, impossibile o inquinato – nel

125 Parla di “ruolo di «supplenza», rappresentando per gli avvocati penalisti un autentico vademecum per il

compimento delle investigazioni difensive”, TRIGGIANI, Le investigazioni difensive, cit., p. 82, con riferimento alla funzione svolta dalle regole deontologiche, approvate dall’Unione delle Camere penali italiane il 30 marzo 1996, anticipatorie del successivo codice deontologico forense. In generale, attribuisce alle norme deontologiche una «funzione integrativa» delle scarne disposizioni contenute nell’originario – poi modificato – art. 38 disp. att. c.p.p., RANDAZZO, Rapporto tra indagini difensive e codici deontologici, in AA. VV., Processo penale:il nuovo ruolo del difensore, a cura di L. FILIPPI, Padova, 2001, p. 537. Entrambe le posizioni, tuttavia, assegnano alla deontologia una finalità che essa è veramente in grado di assolvere soltanto allorché il sistema sia improntato alla netta separazione tra fase preliminare e processo, non possedendo, in caso contrario, la sufficiente autorevolezza per fare apprezzare l’elemento unilaterale come prova genuina valutabile in giudizio.

momento genetico della prova. In simili evenienze, difatti, ben più pregnanti divengono le ansie di affidabilità del risultato, poiché non si tratta più di fornire al vaglio giudiziale elementi unilaterali in vista di una decisione che non investe il merito dell’imputazione: si pretende, invece, di incidere con quei materiali sulle dinamiche del convincimento che sorregge la pronuncia conclusiva in dibattimento, rivendicandone la dignità a costituire il fondamento di una sentenza di assoluzione ovvero di condanna. Nel rimpiazzare eccezionalmente il metodo di accertamento, anche il valore probatorio delle risultanze difensive integra un’autentica deroga alla regola processuale posta a base del sistema, seguendo una scivolosa deviazione che, per giungere a destinazione, impone l’ausilio della forma a garanzia della sostanza. Forma che, tuttavia, non è sufficiente prescrivere in fragili regole deontologiche, poiché la trasfigurazione dell’elemento in prova richiede l’elevazione dei protocolli comportamentali da canone professionale a legge processuale126, che ne assicuri l’osservanza pena il divieto di utilizzo comminato da una sanzione invalidante di natura, anch’essa, processuale.

Ecco perché, nell’attuale assetto positivo venutosi a delineare con l’emanazione della legge sulle indagini difensive, diviene illusorio pensare di affidare alla disciplina professionale una finalità gregaria di autenticazione delle risultanze private. Quello che si richiede, ora che il difensore può formare delle prove, è una garanzia di genuinità legale che soltanto un diritto di difendersi indagando normativamente vincolato è in grado di assicurare. Certo, la deontologia forense continua ad esercitare un’influenza positiva di stimolo al rispetto della lealtà e correttezza professionale; ma, da sola, difetta dell’autorità necessaria a certificare la veridicità di atti da utilizzare come prove.

2. Codice deontologico forense

A dispetto di una legge professionale forense risalente al 1874127 – la prima, in ordine di emanazione, tra le regolamentazioni delle libere professioni intellettuali – il codice deontologico fa la sua prima apparizione soltanto con l’approvazione da parte del Consiglio nazionale forense, il 17 aprile del 1997. L’ampiezza del divario temporale che separa questi due provvedimenti fondamentali per l’esercizio della professione d’avvocato

126 Cfr. TRIGGIANI, Le indagini difensive, cit., p. 82, secondo il quale è addirittura indubitabile che le regole deontologiche elaborate dall’Unione delle Camere penali italiane nel 1996 “abbiano, in qualche modo,

rappresentato una vera e propria anticipazione della disciplina contenuta nella l. n. 397/2000”,

confermando la trasformazione – avvertita come necessaria – del canone professionale in legge processuale.

127 Attualmente, la legge professionale forense è contenuta nel r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito in l. 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazione, nonché nel relativo regolamento di attuazione approvato con r.d. 22 gennaio 1934, n. 37.

rende conto della difficoltà di qualificare la natura delle norme che compongono la deontologia forense, intesa come l’insieme delle regole comportamentali da osservare nell’esercizio dell’attività professionale.

Ed invero, in passato si era soliti ravvisare nelle norme deontologiche un contenuto precettivo di carattere eminentemente etico, sì da escludere l’opportunità di una loro catalogazione formale, assumendo che non fosse possibile disciplinare con indicazioni, preclusioni ovvero sanzioni specifiche il foro della giustizia interiore, rimessa alla valutazione di coscienza individuale, senza possibilità di limitazione alcuna. Di tale visione nichilistica, che annullava il potenziale semantico della deontologia e la sua capacità di porre linee guida efficacemente incisive sull’esercizio della professione, era criticabile l’inappropriata sovrapposizione per cui si qualificava senz’altro come etica la natura di una norma che avesse per contenuto un precetto morale.

Piuttosto, deve osservarsi, la natura di una norma va indagata alla stregua della sua collocazione nell’ambito dell’ordinamento giuridico, segnatamente – per quel che concerne la norma deontologica – di quello professionale. Ebbene, proprio le norme deontologiche sono da ritenere norme giuridiche appartenenti al complesso dell’ordinamento professionale. In questo senso depone la stessa legge professionale forense, che impone agli avvocati di adempiere al loro ministero con dignità e decoro (art. 12), prevede di sottoporre a procedimento disciplinare gli avvocati che si rendano colpevoli di abusi, mancanze o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro nell’esercizio della loro professione (art. 38) e, infine, prescrive una vera e propria sanzione giuridica – non meramente morale – per la violazione delle regole deontologiche, irrogata al termine di un procedimento giurisdizionale che contempla, in fase finale, il controllo di legittimità delle sezioni unite della Corte di cassazione (art. 56)128. Trattasi, per inciso, di una sanzione giuridica di contenuto disciplinare129, destinata ad incidere – in ordine di progressiva afflittività – sulla sfera professionale del legale che ne sia colpito. In tale caratteristica, peraltro, si coglie un’importante conseguenza derivante dall’aver elevato – mercé la legge in materia di indagini difensive – le identiche regole di comportamento a contenuto di norme di carattere processuale, poiché a seguito di tale abbinamento si è determinata la

128 La stessa giurisprudenza di legittimità è giunta a riconoscere espressamente la natura di norme giuridiche che caratterizza le norme deontologiche. In materia, cfr. Cass., Sez. un., 6 giugno 2002, Silvestro c. Cons. Ord. Avv. Udine, in Giust. civ., 2002, I, p. 2441; Cass., Sez. un., 23 marzo 2004, D. c. Cons. Ord. Avv. Treviso, in Mass. giust. civ., 2004, p. 3.

129 L’art. 40 della l. professionale forense individua due sanzioni formali (avvertimento e censura) e tre sanzioni sostanziali (sospensione, cancellazione e radiazione).

configurabilità di un’ulteriore sanzione derivante dalla medesima violazione: l’inutilizzabilità processuale dell’atto. Per vero, proprio in virtù della previsione di cui all’art. 391 bis comma 6 c.p.p. – che collega all’inosservanza dei protocolli formali tanto il divieto di utilizzo dell’atto, quanto l’integrazione dell’illecito professionale – si assiste alla singolarità di una norma processuale che legittima l’irrogazione anche di una sanzione disciplinare.

Superando, dunque, le originarie perplessità, la codificazione giungeva a compimento nell’aprile del 1997, assecondando le istanze di legalità – che imponevano la certezza delle norme deontologiche e la loro previa conoscibilità da parte dei consociati tenuti ad osservarle – e contribuendo alla formazione di una coscienza etica comune in cui si riconoscesse l’avvocatura intera. L’operazione, invero, lungi dal richiedere la stesura ex

novo di precetti deontologici, si risolveva in un lavoro di ricognizione in forma scritta delle

norme comportamentali già esistenti e fino a quel momento applicate quotidianamente dagli organi forensi. Per tali ragioni, la giurisprudenza disciplinare a buon diritto viene identificata quale fonte essenziale della deontologia forense130. Ma, per le medesime ragioni, al mutare della cultura difensiva sollecitato dalla l. 7 dicembre 2000, n. 397, anche i canoni di condotta già cristallizzati dovevano subire alcuni ritocchi131 che li rendessero compatibili con il nuovo ruolo assegnato al difensore, eliminando prescrizioni obsolete o contrastanti con la nuova legge processuale132.

A tale opera di ammodernamento sono dedicate, principalmente, le Regole di comportamento del penalista nelle indagini difensive, elaborate dall’Unione delle Camere penali italiane nel 2001133. Sul versante codicistico, peraltro, si segnala l’incremento contenutistico praticato sull’art. 52 – deputato a regolare, in generale, i rapporti tra l’avvocato e i testimoni – nel quale sono confluite le specifiche regole comportamentali che il difensore è tenuto a seguire nello svolgimento delle indagini difensive. Trattasi, invero, di una collocazione per certi aspetti discutibile e che impone un preliminare chiarimento sul concetto di “testimone”. Più precisamente, il precetto fondamentale, che vieta all’avvocato di «intrattenersi con i testimoni sulle circostanze oggetto del procedimento con forzature o suggestioni dirette a conseguire deposizioni compiacenti»,

130 Cfr. DANOVI, Ordinamento forense e deontologia, Milano, 2006, p. 95.

131 Apportati, progressivamente, nel 1999, nel 2002 e, da ultimo, nel 2006.

132 Cfr. RANDAZZO, Rapporto tra indagini difensive e codici deontologici, cit., p. 536, nt. 2, che individua la

ratio del rigore, cui vennero improntate le regole deontologiche di prima emanazione, nella necessità di

sopperire al difetto di considerazione che penalizzava l’efficacia delle indagini difensive al vaglio della giurisprudenza, segnatamente nell’epoca di enunciazione della teoria della «canalizzazione».

rimane saldo in tutto il suo vigore, essendo senz’altro censurabile il comportamento del legale che avvicini i testimoni con l’intento di influenzarne le future dichiarazioni. In raffronto a tale condotta, l’attività di indagine difensiva – che pure riceve disciplina nella medesima disposizione deontologica – presenta quale unico punto di raccordo la circostanza di poter esplicarsi nell’assunzione di informazioni di natura dichiarativa, in ciò avvicinandosi all’interazione con il testimone; attività dalla quale – tuttavia – si discosta seccamente per il fatto che il difensore indagante è abilitato al contatto con le fonti di prova dichiarativa soltanto nella fase in cui esse rappresentino testimoni allo stadio meramente potenziale, essendogli difatti vietato – così come è vietato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria – il colloquio con persone ammesse come testimoni ai sensi dell’art. 507 c.p.p., o indicate in una richiesta di incidente probatorio, ovvero oggetto di integrazione probatoria in udienza preliminare ex art. 422 comma 2 c.p.p. o, ancora, inserite nella lista testimoniale di cui all’art. 468 c.p.p. (art. 430 bis c.p.p.). Pertanto, non può affatto dirsi che le prerogative dischiuse dalla legge sulle indagini difensive abbiano inciso direttamente sul divieto per il difensore di interagire con i testimoni: tale divieto rimane inalterato ogni volta che la persona informata sui fatti, superando lo stadio potenziale, si sia trasformata in autentico testimone134.

Quanto al restante contenuto della disposizione (art. 52), articolata in ben sedici regole comportamentali a specificazione del I canone complementare che ribadisce la facoltà di investigazioni difensive, spicca la previsione di un dovere – egualmente rivolto al difensore di fiducia o d’ufficio – di valutare la necessità o l’opportunità di svolgere indagini in favore del proprio assistito in relazione alle esigenze e agli obiettivi della difesa, riconoscendo al difensore la scelta dell’oggetto, dei modi e delle forme in cui compiere le investigazioni, come pure dell’eventuale utilizzazione dei risultati ottenuti. Si rinvengono altresì specificazioni ulteriori circa il rapporto del difensore con i propri collaboratori – sostituti, consulenti tecnici, investigatori privati autorizzati – nonché in ordine all’ampiezza del segreto professionale, alla conservazione della documentazione redatta e al divieto di corrispondere indennità o compensi alle persone interpellate. Le successive regole, peraltro, riproducono il tenore delle disposizioni del codice di rito, salvo

134 In senso parzialmente difforme, cfr. DANOVI, Ordinamento forense, cit., p. 138, che ritiene decisamente superato dal nuovo processo penale l’originario principio di estraneità del patrono alla lite, coniato per garantire la libertà dei testimoni di esprimersi nella loro naturale sede processuale. Tale principio, invero, può dirsi tuttora vigente allorché lo si colleghi al divieto di interazione con il soggetto che già abbia assunto la veste di testimone, essendosi ammesso il contatto con il difensore – tramite la legge sulle indagini difensive – nella limitata fase in cui quel soggetto rappresenti una semplice persona informata sui fatti e non sia ancora, tecnicamente, un testimone.

prescrivere un onere di documentazione integrale delle informazioni assunte, surrogabile da quella riassuntiva se accompagnata dalla riproduzione fonografica.

Pare doveroso ribadire, quindi, il positivo apprezzamento per l’impegno profuso nell’opera di codificazione brevemente esposta, che ha di certo contribuito a sviluppare la cultura della correttezza che deve animare il nuovo dinamismo con cui dedicarsi alla professione di difensore. Non senza sottolineare, tuttavia, quanto fallace possa essere la convinzione di affidare alle norme di deontologia il compito di convalidare con regole comportamentali la genuinità sostanziale di ciò che può costituire prova. Fin tanto che le risultanze difensive si vedranno annessa una simile efficacia probatoria, la giurisprudenza pretenderà di vederne cristallizzato il rigore formale in seno alla stessa legge processuale, l’unica che può garantire un accettabile tasso di affidabilità attraverso al minaccia di una sanzione, di natura processuale, quale l’inutilizzabilità. Anche per recuperare dignità e finalità giuridica alla norma deontologica, funzionale al libero esercizio del difendersi indagando, l’opera non può che passare, dunque, attraverso l’impegno di rivisitazione dell’intero sistema processuale.